“Ma quanto cazzo piove in questa cazzo di
città!?”
Tantissimo.
Nascere e vivere al
nord per qualche anno non aveva preparato il ventiseienne Eddie Vedder
– fu Edward Jerome Mueller e, ancor
prima,
Edward Luis Severson III, ma da tutti conosciuto come Ed il Matto. O il
Santo.
Schizofrenico lo era sempre stato, insomma, fosse colpa o meno
dell’anagrafe.
–
al freddo appiccicoso e bagnato della costa settentrionale del pacifico
e dello
stato di Washington in particolare.
Seattle era una maledetta latrina a cielo aperto in
cui la neve veniva
salutata come una liberazione.
Ma
niente da fare, quell’anno la
neve si faceva attendere e sotto quella pioggia battente nemmeno
sembrava più
inverno. Così il Matto – o
il Santo.
Dipendeva fosse un giorno buono o meno. – si
abbassò di più il cappuccio
della felpa sulla testa affrontando a testa bassa la pioggia insistente
d’inizio gennaio, tentando di ricordare esattamente il civico
del casermone
semi diroccato che fungeva da sala prove: in quello sconsolante
grigiore
periferico, i palazzoni dismessi dei vecchi magazzini
dell’area portuale
sembravano tutti uguali.
Mandò
silenziosamente affanculo
un idiota con la sua maledetta Lebaron che
l’aveva schizzato di pioggia e fango sfrecciando per quelle
strade tutte curve
e ostacoli senza il minimo controllo.
“Cazzo cazzo cazzo cazzo
cazzo!!!”
Stava
urlando come il matto tutti
dicevano fosse, ma a guardarlo dal di fuori non l’avresti mai
detto dato che
aveva continuato a camminare a testa bassa senza nemmeno pensare a
scrollarsi
il fango di dosso.
Semplicemente
non ne aveva voglia
e comunque il suo blocco appunti era al sicuro sotto la felpa,
lì non si
sarebbe bagnato. Sperava.
Quando
era riuscito a raggiungere
il magazzino grondava fango e pioggia e batteva i denti dal freddo, ma
la fase
scazzo era stata superata in vista delle imminenti prove: e non vedeva l’ora di mostrare a Jeff e
gli altri quello che aveva
scritto la notte precedente, si sentiva eccitato e nervoso come una
ragazzina
al primo appuntamento.
“Ciao
ragazzi, scusate il
ritardo.”
Nessuna risposta.
“Ragazzi?
Jeff? Ehi, dove siete?”
La
sua voce riecheggiò nello
studio vuoto accompagnata dal ticchettare della pioggia sui finestroni
sporchi
del magazzino. Una chiazza d’acqua s’allargava
vistosamente sotto uno dei
lucernari lasciati aperti e presto avrebbe raggiunto le strumentazioni
lasciate
lì a caso, con ancora i jack attaccati agli amplificatori ed
in corrente: sarebbe andato tutto in corto.
Persino
la Les Paul di Mike era
appoggiata su un divanetto, meglio di come erano disposti il basso e la
chitarra di Jeff e Stone, d’accordo, ma pur sempre senza la
dovuta cura che il
primo chitarrista tributava di solito a quel vecchio pezzo di legno
temprato.
Ci suonava praticamente da sempre e, c’era da scommetterci,
non l’avrebbe mai
buttata via, nemmeno se la Gibson gli avesse proposto di customizzare
un suo
modello McCready.
Mike
sembrava vivere per quella
chitarra e la chitarra pareva ricambiarlo con il trasporto degno di una
creatura viva. Eppure, quella volta,
l’aveva lasciata su un divanetto con le molle praticamente
scoperte e senza
staccare l’amplificatore.
Eddie
aveva afferrato una lunga
asta e chiuso il lucernario prima di staccare tutte le prese di
corrente in
vista; non c’erano stracci per poter contenere la
pozzanghera, quindi si era
messo all’opera e spostato ogni singolo pezzo potesse esserne
infradiciato.
Lui, comunque, era ancora zuppo come un pulcino.
Si
era liberato della felpa senza
fretta, attento al prezioso involto che conteneva, nel magazzino il
freddo non
era pungente come all’esterno – avevano
lasciato persino il riscaldamento acceso, gli idioti
– ma non si poteva
affermare la temperatura fosse ideale. Soprattutto se fino a pochi
minuti prima
si era rimasti sotto la pioggia gelida dell’inverno del nord
ovest: il Pacifico
regalava onde superbe, ma il Canada era dietro l’angolo e
l’Alaska troppo
vicina perché il vento non odorasse di neve.
Comunque
era solo.
Di
tutti gli scenari possibili
che si era prefigurato uscendo di casa – casa,
poi, che parolone: casa era con Beth. Una pensioncina senza pretese, ma
andava
benissimo per chi in vita sua aveva sempre preteso una sola cosa: essere,
non avere. – quello era
l’unico non
avesse previsto.
Una
stanza vuota e nessuno ad
attenderlo.
Rabbrividì
inconsciamente a quel
pensiero che ne richiamava alla mente altri, ma li stornò
scuotendo la testa
con decisione, liberandosi delle goccioline di pioggia incastrate tra i
suoi
ricci nemmeno fosse un cane scontento.
Riattaccò
la Les Paul di Mike con
un gesto secco e volutamente poco attento, come se volesse far pagare a
quel
pezzo di legno scrostato – eppure
tanto
amato da un padrone che non amava abbastanza neppure se stesso
– la sua
solitudine e la sua delusione. Perché, ovunque fossero quei
quattro, non
l’avevano aspettato e nemmeno si erano premurati di
lasciargli un biglietto.
Sono l’ultimo arrivato.
Sono l’ultimo arrivato e non conto niente.
Sono l’ultimo arrivato e non conto niente
e non sono della famiglia.
Gli
accordi di “Indipendence Day”
erano risuonati all’improvviso rompendo il silenzio quasi
perfetto che solo un
giorno di pioggia a Seattle può creare, ma non riusciva
più a sentirsi come quando,
da ragazzino, scappava all’Heritage Park o in riva al mare
con la sua chitarra.
Eddie
non era un bravo
chitarrista anche se avrebbe tanto voluto esserlo, sapeva suonare
certo, ma il
talento non si compra e lui non ce l’aveva; forse era quello
il motivo per cui
Mike non gli risultava troppo simpatico: perché Stone era
bravo a pizzicare le
corde, ma era soprattutto un ottimo compositore. Le mani di Mike invece
sembravano
fondersi allo strumento diventandone tutt’uno, tra le sue
braccia la chitarra
non vibrava, pulsava come fosse un cuore vivo.
Eppure la tradiva.
Mike
tradiva la sua chitarra e
viaggiava in proprio, Mike la tradiva e si fotteva il cervello, non
pago il suo
intestino pensasse invece a come fottere lui.
Ed Eddie non riusciva a capirne il motivo.
Perché
di roba sulle spiagge di
San Diego ne girava tanta, Los Angeles e Palo Alto erano troppo vicine
perché non
fosse anche di quella buona e il Messico davvero a due passi
perché non fosse
anche facile procurarsela, e lui ne aveva assaggiata senza distinzioni,
perché quando
la solitudine e la morte del tipo che ti ha regalato una faccia, ma non ti ha mai permesso di chiamarlo
papà,
diventano troppo dure da accettare, persino una siringa può
risultare una
compagnia gradevole.
O
una striscia sistemata non
proprio linearmente su una tavola da surf che ancora sa di cera e sale.
O
una pillolina di chissà cosa,
che importa, e poi un po’ di speed
non manca mai tra gli squattrinati del First,
perché magari di carne nemmeno a parlarne, ma devi pur
tenerti su con qualcosa.
Però
poi al mattino ti svegli ed
allo specchio scorgi uno sconosciuto che ti guarda senza vederti.
E quello, per Eddie, non era mai stato un prezzo
ragionevole da pagare.
La
Les Paul, però, non si
lasciava intenerire dai buoni propositi, perché i suoni che
emetteva erano solo
eco strozzate delle melodie che regalava alle dita del suo proprietario.
Eddie
aveva sbuffato rinunciando a
quel corteggiamento perso in partenza, rimpiangendo una volta di
più il suo
piccolo e discreto ukulele, che si lasciava suonare senza irriderlo.
Si
sentiva solo. L’euforia che
l’aveva accompagnato lungo la strada fino a quel casermone
inutile, era scemata
via del tutto e non riusciva a recuperarne neppure un brandello. Aveva
voglia
di sentire Beth, anche se aveva praticamente dato fondo alla sua scorta
di
quarti di dollaro in una cabina che puzzava di piscio e vomito, la
notte
precedente. Aveva voglia di urlare e prendere a calci qualcosa. Non era un buon segno.
Fuori
continuava a piovere e
sembrava non voler smettere tanto presto. Jeff glielo aveva detto, in
fondo: a Seattle piove sempre e, quando non
piove,
c’è comunque un tempo di merda, la gente non
può uscire di casa, i ragazzi sono
costretti tra quattro mura anche quando non sono a scuola, le fabbriche
ti fottono
i polmoni e il mare fa schifo. È per questo che Seattle
ribolle, troppa energia
e nessun modo per sfogarla.
Jeff
glielo aveva detto che ci
sarebbe voluto tempo per abituarsi a quel clima, era stata dura anche
per lui
che pure veniva dal Montana, dagli altipiani battuti dalle correnti
secche del
nord. Tanta neve, un vento tagliente che ti entra nelle ossa ed il
paesaggio
più piatto e desolato degli Stati Uniti. Era camminando per
quei sentieri
sconnessi e tra quelle steppe battute dal vento che gli erano venuti
quei
polpacci da rugbista, anche se era stato il basket, poi, a pagargli il
college.
Almeno per un po’.
Degli
altri sapeva poco, era
stato con Jeff che aveva parlato di più in quelle settimane,
era stato con lui
che aveva inizialmente preso contatto, era la sua faccia che si
ritrovava più
spesso davanti mentre si sforzava di rimanere lucido di fronte ad una
birra.
L’ennesima.
Ed
era il bassista che Eddie si
stava ritrovando a schizzare a memoria sul suo blocco appunti, poco
sotto le
ultime righe di quella nuova canzone che gli stava dando il mal di
testa: aveva fatto male a scriverla?
Il
corpo di quel ragazzino era
probabilmente ancora caldo - o
forse no: quanto ci mette un cadavere a
perdere il suo calore? Ma era poi quello a fare di un corpo una salma?
Si è
morti quando il cuore smette di battere o quando il cervello decide di
premere
un grilletto? –
e lui ne stava
facendo scempio?
Jeremy
Wade Delle era stato su
tutti i giornali il giorno prima, con tanto di foto: un bambino che
sembrava al
più una ragazzina, occhi azzurri e capelli chiari. Solo un
trafiletto, ma un
quindicenne che si fa saltare il cervello, e per di più in
classe davanti ai
suoi compagni ed all’insegnante, è una notizia che
merita la prima pagina. Era
una notizia che meritava attenzione.
Eddie
non si era chiesto perché,
ma dopo aver letto il giornale – tanti giornali - aveva
cominciato a scrivere.
A scrivere e ad arrabbiarsi: aveva dieci anni più di quel
ragazzino che aveva
rinunciato a crescere, ma quella pistola l’aveva idealmente
accarezzata anche
lui, quella pistola, potenzialmente, era tra le mani di tutti.
Però, forse, non era giusto comunque.
Perché ci si uccide? Jeremy la sua
risposta se l’era portata nella
tomba, perché secondo tutti, era un ragazzino come tanti
altri.
Anche Eddie, secondo tutti, era stato un ragazzino
come tanti altri,
persino più fortunato di tanti altri, perché
viveva in una villetta a due piani
nella tranquilla periferia di San Diego, perché era bravo a
scuola e sapeva
cantare e suonare la chitarra, perché era carino e le
ragazze lo indicavano tra
risatine complici e maliziose dandosi di gomito mentre giocava a basket
o a
football.
Era un ragazzino fortunato Eddie perché
aveva tutte quelle cose.
Eddie aveva anche la fisionomia di un morto troppo
amato ed odiato
insieme, però, e nessuno era mai stato tanto gentile da non
fargliene scontare
il prezzo facendo della sua faccia un memento ingiusto, senza nemmeno
chiedergli il permesso.
Io non sono lui, lui è morto, io sono
vivo, io sono io.
Ed
stava per strappare via il
foglio distruggendo le prove della sua solitudine quando il telefono
aveva
squillato. Uno, due, tre squilli. Non sapeva nemmeno ci fosse un
telefono in
quella catapecchia.
“Pronto?”
“Ed!
Meno male che sei lì, ho
perso il numero della pensione in cui stai e…”
“Jeff?”
“Sì,
sono io. Senti, è lunga da
spiegare al telefono, ma Dave ha fatto un po’ di casino e ora
siamo in ospedale
con lui. Volevo solo avvertirti di non preoccuparti, niente di grave,
ok? Se
vuoi raggiungerci ti do l’indirizzo, ma dovremmo averne
ancora per poco.”
“Ok.”
“…
Vieni qui o rimani lì?”
“Beh,
pensavo…”
“Scusa,
sta arrivando il medico
di Dave, devo scappare, ci sentiamo dopo.”
Eddie
era rimasto con la cornetta
in mano come un povero stronzo.
“Non
mi hai dato l’indirizzo,
stronzo, che ne so in quale ospedale venire?”
Tanto
non poteva più ascoltarlo.
In
realtà non sapeva come doveva
sentirsi, oscillava tra il senso di sollievo – perché
comunque lo avevano avvertito - e la voglia di mandarli a
cagare. Ma c’era l’album.
Stone
scriveva musica a velocità
pazzesca – bella musica, tra
l’altro -,
aveva continuamente idee e riffs
nuovi
da far ascoltare, e Jeff faceva lo stesso, ma non bastava.
Jeff
aveva detto fossero in
ospedale, che Dave aveva combinato qualcosa: perché non
dirlo che probabilmente
era in astinenza, che con quel tempo del cazzo persino gli spacciatori
se ne
fregavano dei pochi dollari che potevano intascare a dose?
Coglione.
A
voler essere onesti, il
batterista era bravo davvero, ma aveva perso del tutto la bussola. Non
sapeva
di preciso cosa prendesse e neppure gl’importava saperlo,
probabilmente
prendeva un po’ di tutto, eroina per rilassarsi, coca per
tenersi su, speed per evitare la
paranoia,
anfetamine per lavorare. Alcol per buttar giù tutto. Peggio
dei fighetti di
Stanford che ogni stramaledetto Springbreak
si riversavano a San Diego e dintorni carichi di spocchia e soldi e
voglia di
far casino, gente che non aveva mai visto una tavola da surf ma
pretendeva
d’imparare in una notte – di
solito la
sua ultima notte, e tanti saluti all’ennesimo idiota –
e pensava lo
Speedball fosse il modo migliore per provare tutto e subito: due
settimane
d’inferno in cui gli toccava fare a pugni con più
di una testa di cazzo.
Gli
veniva da ridere al pensiero
che con una pagella come era la sua al liceo magari a Stanford
l’avrebbero
anche accettato. Sarebbe cambiato qualcosa?
Aveva
bisogno di suonare, ecco
qual’era la verità, era stufo di stare da solo in
quel casermone vuoto a
guardare strumenti muti. E perché
nessuno
si decideva a dire qualcosa sui suoi testi?
Le
critiche su Once le aveva
accettate, lo sapeva anche
lui che non andava bene, mica aveva fatto lo stronzo impuntandosi su
questioni
di principio. La stava riscrivendo. Chiedeva solo quello, in fondo, che
lo
stessero a sentire mentre cantava, che stessero ad ascoltare quello che
cantava. Jeff all’inizio lo faceva, ma era durata quanto?
Troppo poco di certo.
Poi
Dave aveva cominciato a
comportarsi in modo strano, più
strano
del solito, e le cose erano cambiate di nuovo.
Mi serve una sigaretta.
Si
era lasciato cadere sullo
scomodissimo divanetto accanto alla rossa stronza di Mike.
“Tanto
lo so che non sei
naturale, che quell’altro scoppiato ti ha fatto qualcosa e
non è la riverniciata
di cui avresti bisogno. E altro che nicotina, mi sa che ho proprio
bisogno di
una canna visto che me la sto prendendo con una chitarra.”
Che merda.
Erano
passate le sette di sera e
non si vedeva ancora nessuno, era più di mezz’ora
che li aspettava come un
imbecille, ma non riusciva a decidere di tornarsene a casa, magari
proprio a
San Diego, mandare tutto a puttane e finire i suoi giorni come
benzinaio padre
di famiglia.
Sarebbe stato tanto male?
Poteva
sempre riprendere il
college e provare a fare il medico o l’insegnante, come
Clayton. Ecco, se si
fosse chiamato Edward Liggett, probabilmente non si sarebbe trovato
lì, mezzo
morto di freddo scazzo e noia, in quel casermone scrostato ad inseguire
note e
a scrivere furiosamente su un blocco unticcio e umido di pioggia.
O
forse sì, sarebbe stato lo
stesso, non avrebbe pensato alla storia di un ragazzino suicida da
mettere in
rima probabilmente, ma la musica l’avrebbe cercato e
l’avrebbe preso comunque.
Lui
non avrebbe rifiutato la
chiamata, perché una volta ascoltata The
Real Me non importa quale sia la tua storia, ne rimani
incastrato,
frustrato qualcun altro abbia fatto quella piccola, stupida domanda che
frulla
nella testa di chiunque senza che si abbia il coraggio di gridarla: Can you see the real me?
Chi sarebbe riuscito a vedere lui?
Era
stato un rumore improvviso al
cancello d’entrata a riportarlo alla realtà,
rumore di ferro sbattuto, voci
tese e irritate, la portiera di un’auto chiusa con violenza
mal trattenuta.
Si
era tirato su lentamente
cercando di distendere il viso in un’espressione meno truce
– perché aveva i muscoli
del viso doloranti,
se non proprio stizza, il suo doveva essere il ritratto
dell’insofferenza –
anche se aveva deciso di non aver voglia di essere conciliante: era il
loro
cantante, faceva parte del gruppo come e quanto gli altri e dava anche
sensibilmente
meno problemi. Erano un gruppo musicale, non una famiglia allargata,
giusto? Si
sarebbe comportato di conseguenza.
Il
bassista era stato il primo ad
entrare, fradicio fino al midollo. Si era sfilato
quell’enorme cappello di pelo
che sembrava adorare – chissà
perché poi,
sembrava una puzzola morta e bagnato emanava lo stesso odore penetrante
–
e si era scrollato come un cane per liberare
i capelli e la giacca dall’acqua. Mike e Stone
l’avevano seguito subito dopo.
Come prevedibile, Krusen non era con loro.
“Ciao
Ed, scusa se ti abbiamo
fatto aspettare tanto, ma al pronto soccorso hanno fatto un sacco di
storie e
Dave stava entrando in paranoia e…”
“Non
importa, ormai è andata.”
Se
Stoney c’era rimasto male non
l’aveva dato a vedere e comunque a Eddie non interessava
più di tanto. O
meglio, non avrebbe voluto offendere Stone, ma non gli fregava molto
della
salute o della paranoia del batterista: era un imbecille che si stava
rovinando
la vita con le sue mani, un bastardo cui non fregava niente di buttar
via anche
quella degli altri, perché, se non
gli
aveva messo le corna, sua moglie stava per dargli un figlio. E
poi
aveva un impegno con il gruppo.
E
comunque non erano affari suoi,
erano una band di musicisti, mica una famiglia. La sua era rimasta a
San Diego
in un bungalow sulla spiaggia, la sua se la portava dietro incisa in un
blocco
unticcio ed ancora umido di pioggia. Maledetta
pioggia.
“Sì,
ormai è andata.
Quell’imbecille l’abbiamo riportato dalla moglie
comunque, per stasera era
inutilizzabile. A proposito…”
Stone
l’aveva scrutato da capo a
piedi con uno sguardo indecifrabile, Ed non riusciva mai a capire cosa
passasse
per la testa del chitarrista. Quanto a quell’altro, gli aveva
fatto appena un
cenno di saluto, un mezzo sorriso d’intesa e poi diretto
verso il divano a
pizzicare la sua chitarra: Mike sembrava fatto persino da lucido,
incredibile.
“Cosa?”
Non
gli piaceva si ridesse di lui
e Jeff non era bravo a ridere sotto i baffi. Se volevano fare a botte
l’avevano
trovato in serata.
“Avevi
ragione tu Jeff, era lui
sulla strada. Scusa Ed, non volevo beccare quella pozzanghera, ti ho
ridotto
proprio uno schifo…”
E
avrebbe dovuto pure credergli?
Eddie non sapeva più se ridere o incazzarsi a morte con quel
deficiente che si
scusava con l’aria di volerlo prendere per il culo.
“Anche
tu, però, camminare in
mezzo alla strada in quel modo! Comunque mi faccio perdonare.”
Stone
gli aveva fatto cenno di
aspettarlo, poi era sparito verso l’altra stanza. Jeff aveva
risposto al suo
sguardo interrogativo con un’alzata di spalle altrettanto
perplessa.
Stone
era tornato da loro con un
borsone consunto e ci aveva tirato fuori una giacca di velluto a coste
marrone
dalla foggia strana.
Gliel’aveva
porta senza accenti
superflui.
“Seattle
non è San Diego,
d’inverno fa freddo, non puoi girare solo con una felpa.
Visto che rimani qui
con noi dovrai aggiornare l’abbigliamento, almeno
giù dal palcoscenico.”
Ed
non era riuscito a trovare una
risposta. Anche perché Stone non aveva atteso replica, gli
aveva semplicemente
dato una pacca sulla spalla e poi raggiunto Mike sul divano
chiedendogli di
suonare qualcosa, Baba O’Raley
magari?
“Ho
una canzone nuova, l’ho
scritta ieri sera.”
“E
allora cantacela.”
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