Stella
e Zucchero
A Cipro la terra era tanto bianca e le acque tanto azzurre
che non si faticava a credere che Afrodite dal bel sorriso l’avesse scelta per
nascere. Quelle terre erano state prescelte per dare la vita, senza dubbio, che
sbocciasse sugli steli dei corbezzoli o dalla spuma delle onde.
Lo spectre che vi mise piede per primo non soffermò affatto
lo sguardo sul mare e le sue gemme; uno spacco nero come la notte, in mezzo a
tanta luce. Fece pochi passi, veloci e calibrati, e quando si fermò gli artigli
della sua surplice rasparono la polvere. Il rumore s’infranse contro
quello delle onde, lento e calmo. Sembrava ci fosse solo il mare ad osservarlo.
“Non baloccarti, Fedor.” Ordinò ad alta voce, quasi senza
voltarsi. “Seguimi.”
“Sì, signore.”
Altra polvere. Uno sferragliare di armatura e l’uomo alle
sue spalle affrettò l’andatura per seguirlo dappresso, alla sua destra e rigorosamente
indietro di un passo.
Valentine di Harpy su quelle terre c’era nato. E figurarsi
com’era felice di tornarci, dopo il risveglio della stella demoniaca, dopo gli
avvenimenti di morte che aveva causato di persona sulle coste di quell’isola. Gli
ordini di Pandora, Sacerdotessa di Hades, tuttavia, non erano da discutere.
Solo un pazzo si sarebbe messo a piantare grane.
“È una di queste grotte” avanzò sulla costa deserta. Gli
artigli metallici stridettero sulla pietra e Valentine si girò per lanciare a
Fedor un sorrisetto da sopra la spalla. Che bel graffio!
“Voi avete il comando, luogotenente.” L’unico occhio del
sottoposto scintillò, allo stridore acuto. Musica. “Vi seguo.”
La donna che dovevano cercare era una strega. Valentine ne
aveva conosciute diverse, nella sua infanzia, di mammane curve sotto i veli
scuri. Era nato a sud di Cipro, nella provincia di Episkopi. Là c’erano ancora
le basi militari del Regno Unito, e là le donne giravano ancora col velo nero,
come delle madonne funebri, piegate sotto il sole, tra le case bianche. Fece
una smorfia.
Fedor di Mandrake, il carceriere dell’oltretomba, lo seguiva
restando sempre un passo dietro di lui, con un ghigno adorabile sulla faccia. Da
giurare che se lo stesse godendo, il sole di Cipro.
La cittadina di Akamas, dove erano stati inviati in
missione, era invece sulla costa ovest dell’isola. Valentine non c’era mai
stato, prima, ma era pronto a mettere la mano sulla spada di Hades che c’erano
le stesse donne piegate e velate di nero, le stesse mammane che intrecciavano
erbe del cimitero con il grano per far nascere i bambini e con l’ortica per
farli morire.
La strega che dovevano cercare era una donna che ardeva di
dolore: in nome delle sue ferite interrogava i morti e scindeva gli spiriti
dall’Oltretomba per richiamarli a sé. Erano pratiche comuni e da sempre
venivano esercitate, certo. Eppure quella donna superava i limiti, travalicava
le dimensioni.
“Sbilancia la vita e la morte,” aveva detto Pandora. Li
aveva guardati, lui e Fedor, appoggiando le mani candide sulle ginocchia.
“Rompe gli equilibri e il signor Hades vuole che interveniate”.
Valentine era andato, in nome del Generale Rhadamanthys.
Aveva voluto con sé una guardia del corpo.
Non che ne avesse bisogno, naturalmente.
“Siate dannati!”
L’esplosione di Cosmo fece tremare la terra e l’acqua, e il
metallo nero della surplice vibrò. Uno schianto, e decine di cadaveri
affondarono in mare, spruzzando acqua salata fino alle rocce del promontorio.
Fedor non poté fare niente se non assistere con malcelata
meraviglia, ancora in procinto d’intervenire e senza occasione par farlo. Non
una. Il luogotenente era una furia, e stendeva qualunque nemico di fronte a sé
come una stuoia. Ma nonostante questo…
“Ritornano! Fatti indietro!”
“Che cosa…”
E ritornarono.
Non erano cadaveri quelli che Valentine aveva abbattuto.
Erano qualcosa di molto più incorporeo, ma denso, che premeva con mani affilate
e spingeva e graffiava per respingere gli invasori. Erano spiriti
inafferrabili, che si erano fatti più forti e più disperati da quando le
armature sfolgoranti di notte avevano lambito l’acqua salata del mare. Ora
Valentine era immerso sino al ginocchio, le braccia spalancate nell’espandere
il Cosmo, e mille e più grida risuonavano direttamente dentro le loro orecchie.
Gemevano, rimbombando all’imboccatura nera della grotta. Vicini. Ancora più
vicini.
“All’inferno!” stridette l’Arpia, gli occhi feroci,
mentre nelle sue mani si addensava un potere schiacciante. A gambe larghe
nell’acqua, era l’occhio del ciclone. Fedor si gettò in avanti, rapido, per non
rimanere schiacciato dalla pressione che sarebbe esplosa di lì a pochi secondi.
Valentine non lo degnò nemmeno di uno sguardo, eppure il colpo partì pochi
secondi dopo che l’ebbe raggiunto, in una scivolata pericolosa. “Greed the
life!”
Esplose. L’acqua schizzò violentemente in alto, batté le
pareti rocciose, mugghiò assieme ai lamenti delle anime. All’inferno,
aveva ringhiato Valentine. E lì avrebbero davvero dovuto trovarsi.
“Dannazione!” masticò Fedor, mancando l’appoggio traballante
dei sassi scivolosi, odorosi di alghe e sale. Ci piantò le mani, e raschiò le
unghie. Ma non perse tempo, approfittando del vuoto creato dal luogotenente: “Strangle
Shrill!”
Sul suo petto inguainato dalla surplice un viso umano
si deformò orribilmente, la bocca cava come un pozzo. Allora tutti i lamenti
vennero messi a tacere, sovrastati dal grido stridulo della Mandragola. L’onda
d’urto fu terribile: qualunque cosa li avesse attaccati, sorto dal mare, era
stato sradicato dall’esplosione del Cosmo di Harpy, e ora si stracciava nell’aria
come la schiuma delle onde. La roccia della cava tremò, e così il buio
impenetrabile delle sue pareti.
“Presto!” fu il grido di Valentine, e il momento dopo erano
scattati all’imboccatura, inghiottiti dall’ombra. La roccia risaliva,
lentamente: l’acqua salata batteva contro le loro caviglie.
“Torneranno?”
“No. Avanti! Non fermarti!”
Fedor invece si fermò, e lo fece con uno scatto secco,
trascinando con sé il luogotenente: Valentine sbatté le spalle contro la
parete, schiacciato dal peso del soldato. Ma quando fece per alzare gli occhi,
oltraggiato, vide la roccia che franava, cedendo in ritardo alle onde soniche.
Allora si ritrasse, rapido, lasciando che Fedor riparasse entrambi con le braccia
piantate solidamente al muro.
Quello che non gli piacque fu il sorriso malizioso che
ritrovò davanti una volta che l’eco della frana si fu spento. Gli ricordava un malaugurato
pomeriggio alle carceri dell’Inferno, quando si era trovato la schiena premuta
contro il muro scalcinato e quello stesso sorriso allegro e insolente a
tentarlo. La cosa sembrava mettere Fedor di ottimo umore.
“Mh!” Assottigliò gli occhi, in due fessure di rimprovero.
“Non sul lavoro!”
Lo spostò con una spallata per poi proseguire, avanzando
sulle macerie di roccia, come se nulla fosse, sul suo cammino.
“Ah!” Ghignò l’altro, tastando lo spallaccio, come se gli
avesse fatto veramente del male. “Non ci andate piano, luogotenente.”
La voce echeggiò bassa, tra l’acqua e i pertugi sotterranei,
e Valentine gli fece segno di tacere. Blandamente, ma bastò a fargli chiudere
la bocca. Poi gli fece segno di avvicinarsi.
“Ah, ma guarda” sogghignò, frantumando con il gomito
inguainato nella surplice una stalattite calcarea che gli impediva la visuale.
Con languore troppo affettato, perché non fosse sarcastico, si allungò ad
appoggiare il braccio sulla spalla di Fedor.
“Le cose interessanti stanno sempre in fondo, non è vero?”
gli disse.
Proprio come gli aveva detto quel pomeriggio disgraziato
alle carceri, quando il carceriere dall’occhio azzurro e il sorriso
accattivante gli aveva mostrato la collezione delle armi da tortura del secolo
decimottavo.
Fedor guardò.
Non c’erano armi, nella spelonca: ma un bacino d’acqua
salata, buia e fredda, rischiarata appena dal sole che, all’esterno filtrava in
alto, dalla parete rocciosa.
Sulla riva, rannicchiata come un sacco di stracci, c’era una
donna dai capelli neri, sparsi sul viso.
Li guardava tenendo febbrilmente in meno un teschio,
nascondeva una ciotola di erbe sotto la gonna e indietreggiava, i piedi scalzi
nell’acqua. Stringeva i denti, scoperti dalle labbra arricciate.
“Andatevene!” strillò. “Demoni dell’inferno!”
Fedor sorrise: non avrebbero potuto essere descritti meglio.
Avanzò, affiancando il luogotenente, nel buio. I pallidi
riflessi della luce accarezzavano l’incresparsi dell’acqua della grotta marina,
disegnavano i profili delle surplice scure dei due spectre. La donna
strillò, indietreggiando.
Perse il teschio dalle mani irrigidite nella paura, che
rotolò sulla ghiaia. Annaspò nell’acqua gelida, inzuppando la gonna. I capelli
lunghi, neri, si confondevano con il buio. La sua faccia era bianca come la
calce.
Valentine si abbasso e l’afferrò per il collo, con la mano
gelida di surplice. La sollevò finché non la portò con il viso
all’altezza del proprio.
La mammana lo fissava con occhi troppo grandi e arrossati,
boccheggiando. Avrebbe forse voluto umettarsi le labbra secche, ma la presa del
demone non gliene dava possibilità.
Lo spectre che pure avrebbe potuto spezzarle il collo
come lo stelo di un fiore non comprese le parole di evocazione basse, appena
sillabate, che la strega affidava alle tenebre della grotta. Se ne accorse
l’altro, braccio del comandante, in quella missione, e fu il braccio a
scattare: un’unica macchia scura, la Mandragola si gettò sul corpo che era
sorto dalle tenebre al richiamo, e lo abbatté con uno schianto. La donna urlò
orribilmente, contorcendosi nella presa d’acciaio di Valentine.
“Fedor!”
“Tranquillo, signore. Ci penso io, qui.”
Disse, e si piegò bene sulle ginocchia. C’erano altri
cadaveri da abbattere. Questa volta cadaveri veri. Tutti uguali, tutti
ragazzini dalla pelle scura e i riccioli neri. Chi più alto, chi più magro, si
assomigliavano tutti come fratelli. Valentine affilò lo sguardo, occhi negli
occhi della donna delle grotte.
“Tuo figlio non tornerà.” Disse secco. “I morti non tornano.”
Fedor allargava le gambe, serio, come calibrando il peso che
si apprestava a far cadere. Potevano attaccare in due, in tre: li avrebbe
schiacciati. Uno dopo l’altro, sotto i suoi colpi, cadevano come manichini.
Visi simili fra loro si sfracellavano sulla roccia mischiando sangue nero ed acqua
trasparente.
“Quanti ne hai uccisi, per offrirgli un corpo? Non hai
ancora capito, stolta, che non risponderà ai tuoi richiami? Non puoi
sostituirti ad Hades.” Valentine attirò a sé quel volto bianco come la calce,
di poco, quel che bastava a farsi intendere. Gli artigli neri della surplice
le avevano rigato il volto di rosso. “Il tribunale dei morti ha già giudicato. E
tu hai peccato irreparabilmente.”
Scricchiolio di ossa. Il teschio si era rotto, frantumato
dallo stivale pesante di Fedor. Aveva finito.
Lacrime sulle gote, e dalla gola della donna gorgogliò
qualcosa di incomprensibile. Che fosse un anatema o una supplica, ormai, aveva
poca importanza. Era tempo per il tribunale dei morti di emanare un nuovo
verdetto.
Scena bonus ~
Solo per i veri
temerari.
Fedor chiuse la mano su un boccale di birra scura e si
godette due, tre lunghe sorsate.
“Ah! Ci voleva!”
“Piano, Stella”. Sogghignò il luogotenente Valentine. Fuori
dal lavoro poteva permettersi qualche distrazione in più. E i nomignoli
affettuosi erano una piacevolissima distrazione. “Che poi ne devi ordinare
un’altra”.
Poi accavallò le gambe e si beò, succhiando la caipiroska
dalla sua cannuccia.
L’ambiente intorno era caldo e accogliente. Il Beehive era
un locale dal sapore solido, con i suoi tavoloni in legno, le luci calde e
soffuse. Si mangiavano patate, salsicce o pesce fritto, si bevevano birra e
cocktail. Era uno dei pub di Londra vecchio stile, dove si poteva andare e
stare tranquilli.
“Sembra un po’ quando ci siamo conosciuti, no?”
“Sssh, non dirlo ad alta voce, Zucchero.”
Valentine e Fedor si erano conosciuti in una notte simile,
quando Pharaoh di Sphinx aveva costretto l’Arpia dell’esercito di Rhadamanthys
a uscire un po’ per svagarsi; ché proprio del Generale, austero e potente,
Valentine si era preso una cotta disperata e faceva fatica conviverci,
digerendola poco alla volta, zitto zitto.
Fedor si era avvicinato e gli aveva offerto da bere.
Valentine aveva voluto un Jack Daniel’s, sostenendo fiero i gusti del Giudice
Rhadamanthys.
Fedor era andato al bancone e gli aveva portato una
caipiroska alla fragola, rosa almeno quanto i capelli dell’Arpia.
Fedor aveva avuto il suo cuore.
“Perché non posso dirlo, se è vero?” Valentine scrollò
elegantemente le spalle e increspò le labbra in un sorriso malizioso, come se
non avesse ucciso una donna impazzita solo prima di cena.
Strizzò l’occhio a Stella e affondò un piede tra quelli di Fedor.
Fedor sogghignò e rivolse il mento in avanti.
“Perché quell’uomo dall’aria torva ci sta fissando.”
Byaku del Negromante, seduto di fronte a entrambi, non era
riuscito a sollevare il boccale di birra dal tavolo più dei pochi centimetri a
cui si era bloccato quando aveva sentito uno dei due dire Stella e
l’altro rispondere Zucchero. Per tutta la sera gli erano toccati i
racconti delle avventure di Stella e Zucchero nel magico mondo della
negromanzia – scaturiti, temeva, dal fatto che si sentissero in dovere di
metterlo a parte delle attività di tutti i suoi colleghi sparsi per il mondo –
e diciamolo: aveva trovato di peggio solo nei libri di Anita Blake. Tutto
questo per Stella e Zucchero.
Non mosse un muscolo del volto per lunghi istanti, ma quando
lo fece, Fedor scoppiò a ridere a voce alta e senza trattenersi. Valentine
ancheggiò leggermente per lasciare spazio alle sue convulsioni, e continuò a
sorseggiare il liquido più zuccherino a disposizione nel locale come se niente
fosse.
“Non si può nemmeno guardare.” Constatò lapidario il
Negromante, appoggiandosi all’indietro sullo schienale di legno. La voce
profonda e la postura rilassata facevano presumere che fosse il perfetto
padrone della situazione, ma non poteva essere l’impressione più sbagliata.
Il padrone della situazione era quello con i capelli rosa.
“Avanti, Byaku, sciogliti un attimo.”
“A-ah.”
“Sei troppo rigido.”
“Mh.”
“Veramente, se tu fossi appena più… Fedor, diglielo anche
tu. Lo sai che non metto il becco fra te e i tuoi amici, ma potresti dirgli…
non so, anche come…”
“Luogotenente Valentine.”
“Come si veste. Dai, Byaku, ormai ci frequentiamo da un po’.
Stella, diglielo. Posso parlare di come si veste.”
“Luogotenente Valentine.”
“Sempre scuro. D’accordo che è un negromante, ma con quella
faccia, già lugubre di suo… sempre con le sue giacche color…”
“Non di-”
“...marroncino, o quei colori-”
“Fedor, smetti di ridere.”
Il volto di Byaku era la maschera della disapprovazione, e
di una disapprovazione vestita in nero e grigio, per di più. Niente marroncino
da qualsiasi parte lo si guardasse. Eppure Valentine di Harpy riuscì ad
emettere un sospiro affranto, che mettesse in chiaro a tutti i presenti in
quanti sforzi dovesse profondersi per essere un bravo fidanzato: si sa, gli
amici del ragazzo sono sempre dei piantagrane. Quello, poi, era particolarmente
scontroso.
Quando Fedor riemerse da sotto il tavolo, Valentine gli
stava ammiccando. Byaku continuava a fissarli dall’altra parte colmo di
disapprovazione, e di qualche cosa d’altro. Rassegnazione, esasperazione. Esaurimento
nervoso. Difficile a dirsi.
“Va bene, non parlo più. Byaku, però… anche quel nome… fammi
pensare…”
Era il momento esatto in cui un uomo deve fare ciò che lo
rende uomo: estrarre il portafogli e pagare, per esempio, prima di conoscere
l’infausto seguito di Stella e Zucchero. Ma qualcosa nel sorriso
sornione di Zucchero faceva presagire che il momento era solo rimandato.
Stelline di Zucchero
~ angolo autrici!
Questa è una coppia un po’
strana, è vero.
In tutta onestà, però,
pensiamo che la sua stranezza sia direttamente proporzionale alla sua bellezza,
quindi vi affidiamo i nostri sforzi sperando che riusciate ad amarla almeno un
po’ di quanto l’abbiamo noi.
Valentine è uno Specter con i
capelli rosa e ali da arpia che, alle sue spalle, nella Surplice, hanno la
forma di un cuoricino. E’ uno Specter estremo, ingombrante, spesso irritante,
ma sa come farsi amare.
Fedor è un personaggio nato
dalla penna di Shiori Teshirogi, in The Lost Canvas – La Tela che Vola. Ora, noi non abbiamo particolarmente in simpatia The Lost Canvas – La Tela che Vola.
Anzi, ultimamente ci fa
proprio venire l’orticaria.
Tuttavia ogni tanto c’è
davvero qualcosa che merita di essere salvato: Fedor (e come lui Byaku, che
avete visto alla fine) è una di queste rare gemme.
Anche Valentine la pensa così
e se l’è accalappiato subito. Rhadamanthys della Viverna, a cui Harpy è ancora
molto affezionato, ha solo trovato il suo ruolo di guida militare e familiare,
nel cuore di Vale. Fedor, sul piano romantico-passionale, ha fatto strage.
Speriamo davvero che possiate
innamorarvi di loro, che diventi per tutti voi una coppia da amare teneramente
come lo è per noi, nella sua freschezza e nella sua novità.
Se non dovesse accadere… beh,
ce li cucchiamo noi. Non sapete cosa vi perdete *O*
La fanfiction è ambientata in
un ipotetico Post-Hades e Post-qualsiasi cosa Kurumada abbia intenzione di fare
nel Next Dimension. Anche un Post-Heramachia (la scriviamo, davvero),
che spigherebbe molte cose, ma dal momento che per ora non è ancora su carta,
fingiamo che sia una What If, e immaginiamo Hades redivivo, con i suoi Specter
e in alleanza con Athena, dopo una lunga e tesa tregua.
Grazie per seguirci sempre,
cose serie e cose meno serie. Non sappiamo mai come ringraziarvi abbastanza. Vi
copriamo di baci.
PS: Ci scusiamo per eventuali
errori, ma siamo esauste: domattina, appena possibile, ricontrolleremo di nuovo
quello che ci sarà sicuramente scappato nella lettura e metteremo a posto
tutto. <3