Titolo:
Let it Out
Fandom: D.Gray-man
Personaggi: Deak + Lavi
Rating: Giallo
Genere: Drammatico; Fantasy;
Nonsense
Avvertimenti: Alternative Universe;
One-Shot
Note: Nonsense. Ma, a meno che non
siate completamente cerebrolesi, qualcosa di questa fanficion la si dovrebbe
capire. Pubblico questa storia per inerzia, noia e mancanza di autostima, un
po’ come faccio sempre. Buona lettura ~
Let it Out
Lavi non
era legato, ma sapeva di non potersi muovere.
Seduto a
terra con il muro contro le spalle, aveva le dita intirizzite da un freddo che
non c’era, e ascoltava il proprio cuore rumoreggiargli nel petto, lento e
cauto, basso e soffuso.
Osservava,
Lavi, gli uomini che occupavano l’altra parte della stanza –seduti
al tavolo di legno e metallo, circondati da sbuffi di fumo e imprecazioni- e
Deak, che gli camminava davanti. A passi lenti, misurati, con lo sguardo fisso
a terra e le mani incrociate al petto, le mani serrate sugli avambracci.
La stanza
non era buia, ma la luce era talmente sfocata e tremolante da impedire alla
vista di spaziare del tutto, così come l’odore di bruciato non era
impregnato nelle pieghe del pavimento ma solo accennato, un tanfo sottile che
faceva pizzicare il naso dal fastidio.
Lavi
aprì la bocca, respirando rumorosamente -sentendo il petto alzarsi e
restare lì, sospeso per via dei polmoni che non volevano sapere di
tornare al proprio posto- ed espirò. Sollevò lo sguardo, battendo
piano le palpebre, e strinse le labbra.
«
Non ora. » disse Deak, precedendo una qualsiasi sua
protesta. Lo disse nel fermarsi, voltandosi verso di lui, e tese un braccio
sopra la sua testa.
Il liquido
scivolò a terra, picchiettando sopra ginocchia e petto come la fine di
acquazzone, quando in realtà era solo l’inizio. Gli bagnò
la stoffa dei vestiti e i capelli, la punta del naso e la
labbra secche e rotte, rosse. La benzina colava direttamente dalle
punta delle sue dita, sgorgando da unghie e pelle, da polso e vene, e puzzava
terribilmente.
Lavi
premette la schiena contro la parete, scosse la testa e tossì, serrando
gli occhi. Sentì un groppo alla gola tentare di soffocarlo, un brivido
alla schiena e lo sguardo degli uomini premergli nelle ossa.
«
Non ora. » ripetè Deak, in un mormorio
che non aveva nulla di familiare, e gli si inginocchiò davanti. « Aspetta. »
Aveva lo
sguardo fisso e vitreo, lontano e pensieroso, come quello di chi agisce ma non
sa bene perché. Come quello di chi, dopo aver eseguito per troppo tempo
ordini irremovibili, ormai esegue senza neanche domandarsi se quello che sta
facendo è giusto oppure no.
Non
c’era silenzio, ma a Lavi sembrava di sentire un fischio acuto, alla base
dell’orecchio destro, come ogni volta che gli capitava di parlare con
Deak. Non lo vedeva spesso, e in realtà quello non era neanche il suo
nome. Non glielo aveva mai detto, dal loro primo incontro, e Lavi -non trovando
di meglio- lo aveva nominato così, tra un sorriso diffidente e
un’occhiata poco convinta.
Inghiottì
parte della benzina per sbaglio, strabuzzò gli occhi e tossì.
« Deak. » si ritrovò a dire, sentendo le viscere
rimescolarsi e ponderare se fosse bene dare di stomaco o meno. « Ti prego. »
Sollevarono
entrambi lo sguardo, per incrociarlo, e il liquido smise di scorrere.
Però puzzava, tanto da renderlo insensibile a qualsiasi altro odore, e
gli galleggiava in piccole pozze trasparenti tra le pieghe di maglia e
pantaloni.
«
Non voglio restare qui. » spiegò Deak,
dopo un attimo di pausa. Sembrò esitare, giusto
un istante.
«
Non c’è bisogno di fare questo per… »
«
Non voglio restare qui. » ripetè Deak. Talvolta
lo faceva, di incantarsi. « Voglio uscire.
Voglio andarmene, non mi piace qui. » Come un
disco rotto, come un automa che sapeva esprimersi solo con frasi brevi e
concise. « Ho bisogno di te per farlo. »
Lavi
scosse la testa, inspirò a fondo –sentì poi gli occhi
pizzicargli di fastidio nel farlo- e serrò le gambe contro il petto,
scostando lo sguardo. « Ci sono altri modi. Non
c’è bisogno di… di… » si fermò,
grattandosi la punta del naso con una punta di isterismo, e lasciò
uscire dalle dalla un sospiro particolarmente
tremolante. « Non c’è bisogno di
darmi fuoco, cazzo. »
Uno degli
uomini si alzò in piedi, facendo sfregare rumorosamente la sedia a
terra, e calò il silenzio. Né Lavi né Deak lo guardarono,
però, perché sapevano di non avere tempo.
«
Posso trovare un altro modo. » insistette il
primo, mentre l’altro poggiava una mano a terra e, con un movimento un
po’ goffo, gli si sedeva accanto. Aveva in mano una bottiglia
d’alcool –Lavi non riuscì a leggere la marca, era troppo
buio e troppo impegnato a pensare freneticamente come salvarsi la pelle- e una
sigaretta, anche se non aveva mai fumato davvero in vita sua.
Gli uomini
presero a muoversi, seri e silenziosi.
«
Lo abbiamo preso. » diceva uno, con la voce roca
e stridente, fastidiosa all’udito. « Ma
non lo voglio per casa ancora a lungo. »
Un altro,
che stava trafficando con qualcosa grande quanto una palla da rugby ma
più pesante, di metallo, sbuffò e roteò gli occhi al
cielo. « Dobbiamo solo trovare un… »
«
Ci sei? » domandò Deak.
«
-compratore, non ci vorrà molto. »
Lavi
scosse la testa. « No. »
«
Voglio essere libero. » insistette Deak,
poggiando la canna della bottiglia contro le labbra, bevendo un lungo sorso. « Lo faccio per te. Per me. »
inspirò con forza e chiuse gli occhi.
«
Ci siete? » domandò il terzo uomo,
fissando il quarto che, ancora, non aveva aperto bocca.
«
Questo farà male. » disse piano Lavi, con
lo sguardo puntato verso il basso. Non voleva che gli altri intuissero quello
che stavano per fare.
Ci fu
silenzio, giusto un istante, e poi tutti quanti si voltarono verso Lavi.
Deak
abbozzò un sorriso, di quelli amari e vuoti, che in realtà non
volevano dire nulla in particolare. « Da morire. » mormorò. Quindi sollevò il
braccio, si versò il resto della bottiglia in testa e la sigaretta si
accese da sola.
Il tempo
di far salire il primo sbuffo di fumo, e poi tutto divenne fuoco.
Ci fu un
urlo di spavento da parte degli uomini, uno più acuto di dolore di Lavi,
e quello di rabbia, frustrazione e dolore
di Deak che, in quanto parte dell’Ifrit che era Lavi, aveva solo bisogno
di essere libero.
La stanza
non esisteva più, in quel mondo, ed era ridotta così male che
probabilmente non esisteva neanche nell’altro.
Il
pavimento era nero come la pece, graffiato da unghie e denti, fiamme e bolle
d’aria, così come le pareti spezzate a metà e le travi del
soffitto bucato dall’azzurro del cielo.
Di uomini
e ragazzi non c’era ombra, ma solo ossa e carne bruciata, residui di
vestiti e l’oro macchiato di un oggetto di metallo, coperto da polvere e cenere.
Che scendeva dal cielo, come neve macchiata di umanità, e si posava
lenta su quello che era stato.
Lavi
ansimò, e poi si zittì.
Artigliò
l’aria con le dita tese, lasciò che il proprio cuore pompasse
all’impazzata nel petto e, con un gemito roco e di dolore, si
lasciò cadere a terra. Cozzò con le ginocchia contro il
pavimento, si portò le braccia al petto e chinò il viso,
inspirando con forza dal naso.
Deak gli
era davanti, nuovamente in piedi, ma non lo guardava. Scrutava invece i
dintorni, le scale della cantina che portavano al piano superiore e parte della
casa mancante. Come il segno di un morso, al posto dell’abitazione
c’era un buco fumante.
Lavi
tossì. « Fa male. »
biascicò, con il fuoco che ancora gli guizzava tra scapole e colla, tra
mento e gola. Tese una mano in avanti, sentendo il ginocchio dell’altro
contro la propria mano, e serrò la presa. Tirò piano, in un basso
richiamo, e Deak gli si inginocchiò nuovamente di fronte. « Fa male. »
ripetè, sentendo i muscoli roventi tentare di abituarsi nuovamente al
mondo.
Il fuoco
era la loro casa, il loro elemento. L’essenza di una vita, che non era
così umana come il loro aspetto avrebbe in realtà fatto credere.
Ma il fuoco artificiale, quello fatto di benzina e fiammiferi di legno, quello
era più doloroso.
Era finto,
era forzato. Non era magia, era solo… umanità.
«
Scusa. » disse Deak, senza sembrare in
realtà particolarmente pentito. Non gli piaceva il contatto fisico, in
un modo o nell’altro non era abituato. Lavi lo trovava essenziale,
invece, per esprimere i desideri e comprendere la natura di chi si trovava
davanti.
Forse fu
per questo che Lavi lasciò scorrere la mano da gamba fino a petto e
collo, fino a gola e nuca. Che strinse piano, e attirò verso di
sé. Nell’insinuare le dita tra i capelli asciutti. Ansimò,
con gli occhi ancora chiusi, e scosse la testa.
«
Liberi, giusto? » disse dopo un po’,
cercando di non sembrare troppo dolorante. Attese la risposta dell’altro,
che non arrivò, e con un po’ di fatica si mise a fissarlo. Gli
pulsava in maniera assurda la parte destra del viso.
Deak si
stava guardando attorno, ancora una volta. Come se non sapesse bene cosa fare,
come se tutto quello non fosse stato abbastanza. Quando tornò a
guardarlo, infine, chiuse gli occhi e si mise in piedi, sospirando piano.
«
Almeno per ora. » replicò, tendendogli la
mano.
Scese la
cenere, sulle loro spalle. Sulle guance pallide, e sul petto scarno. Lavi
afferrò l’aria, sollevandosi sui talloni, e fissò il vuoto.
«
Anche questo farà male… » mormorò, pensieroso. « …da morire. »
Let it Out
Fine
Note finali:
° Ifrit:
scritto anche efreet,
ifret,
afrit,
afret
è una tipologia di Dijinn, creatura soprannaturale
presente della cultura araba e islamica. Può essere considerato dal
punto di vista tipologico una figura di ciò che l’antropologia
definisce Trickster.
Gli Ifrit
sono comunemente conosciuti come spiriti del fuoco. Appaiono come uomini di
eccezionale forza e bellezza, ma è molto difficile avere contatti con
loro. Si considerano superiori alle altre creature perché convinti della
loro primigenia creazione e soffrono quindi molto il fatto che alcuni umani
abbiano trovato delle formule magiche capaci di garantirgli il controllo su di
loro. Quando interpellati mostrano un atteggiamento ironico e malizioso e
tentano ogni volta che possono di travisare gli ordini del proprio padrone.
(cit. Wikipedia)