Preludio
Capitolo 0:
"Preludio"
Aveva fatto a botte, di nuovo. Quegli
schifosi volevano vendicarsi di chissá quale torto, lo avevano
assalito all'improvviso dopo la scuola: mentre tornava a casa passava
sempre per una serie di vicoletti che sbucavano su di un ampia
piazza, piazza dei caduti, non gli era mai piaciuta, - che schifo di
nome, alla maggior parte di quei caduti non gliene frega niente della
patria, dei valori di libertá e giustizia che la guerra si porta
sempre dietro come un cane al guinzaglio, sono morti maledicendo
tutto quello che li aveva condotti lì a soffrire e a cercare di
sopravvivere nell'odio del nemico e nella paura della morte… giá
la morte, morire in una battaglia che non si sente propria, chi se ne
va cosí non ha senso che abbia vissuto.
Sanguinava - fottuti bastardi, erano in
quattro – pensó, poi sorrise beffardo, tre li aveva lasciati lì,
svenuti, tumefatti e sanguinanti, stesi a terra. L'altro arrancava
con una gamba rotta piangendo e chiamando la madre, come un pupo in
fasce: non c'era nulla di piú divertente di questa immagine.
Grondava di sudore, aveva il labbro
inferiore rotto ma usciva piú sangue da una ferita da coltello sul
petto: nulla di grave, quanto basta per macchiare i vestiti neri
oramai strappati e rovinati – cazzo l'avevo appena comprata. I suoi
jeans militari erano rimasti miracolosamente intatti ed i neri anfibi
avevano sangue non suo sulla punta in ferro luccicante al sole del
meriggio.
Anche oggi aveva sfogato la sua rabbia,
con tutto se stesso, sul corpo di giovani ansiosi di scolpirsi una
fama sulla sua carne, come solo un pazzo violento poteva fare.
Sorrise a questo pensiero - meglio loro che me -.
I suoi capelli erano evasi dalla
stretta coda e quindi si apprestó a rifarla. Si tolse i tre elastici
e se li mise a mo’ di bracciale sul polso, si levó la fascia nera
e lasció per un po’ i suoi capelli al vento. Per molti i suoi
capelli angelici erano bellissimi, del colore dell'oro e lisci come
la seta, lunghi fino al fondoschiena; a lui peró non piacevano,
erano vistosi, delicati, dolci e splendenti, caratteristiche che
erano per lui sintomo di debolezza.
Si fece il primo nodo, stretto alla
nuca, poi il secondo, alla fine della lunga coda con molti giri di
elastico, e poi il terzo in mezzo ai primi due, non tanto stretto, e
infine mise la larga fascia nera, per coprire il candore dei capelli.
Si pulí le mani sui vestiti, e con la
manica si asciugó il sangue dalle labbra, poi avanzò per entrare
nella piazza. All’uscita del vicolo un forte raggio di sole lo
colpí: non gli piaceva il sole. Aggrottó la fronte e l'azzurro
ghiaccio dei suoi occhi venne celato dalle palpebre.
Aveva un po’ di lividi qua e là e
camminava lento e dolorante per arrivare a casa, ma non aveva fretta.
Viveva solo, nessuno lo aspettava.
Non aveva amici, solo una banda di
teppisti esaltati della zona, solita a partecipare a tornei di
combattimento clandestino. Lui poteva sfogarsi e la gente lo
acclamava per questo, poi si andava a festeggiare in un bar, e a
volte scoppiava una rissa, spesso per le scommesse perse.
Fu in una di queste risse che gli
diedero il suo soprannome. Lui finì fuori dalla finestra del locale
e mentre la rissa si consumava all'interno, dieci membri del clan
rivale lo assalirono, armati di coltelli-le altre armi erano
considrate disonorevoli tra bande. In quello scontro si ruppe il
braccio in due punti, la sua milza si perforó e due coppie di
costole andarono a farsi fottere, ma gli aggressori furono ridotti
molto peggio, e così il numero dieci divenne il modo con cui la
gente lo chiamava: Ten. In realtà si chiamava Marcus, ma Ten gli
andava bene: nel suo ambiente la fama era tutto.
Erano passati 3 anni dalla rissa in
quel bar, Angel's Way. Aveva raggiunto la maggior etá da pochi mesi,
e ancora una volta si ritrovava ad arrancare per tornare a casa:
nulla era cambiato.
Ora era fermo ad un semaforo.
Dall'altra parte della strada c'era una madre con la sua piccola:
quest'ultima era tutta intenta ad inseguire una farfalla che girava
intorno alla mamma. Sembravano felici.
Come mai a lui non era stata concessa
tale felicitá, cosí semplice da esaudire, cosí brutalmente
vietata?
Sua madre morí quando aveva due anni,
stuprata e gettata in un cassonetto dell'immondizia, sgozzata come un
animale troppo vecchio per essere mangiato e troppo giovane per
essere lasciato morire dignitosamente.
Suo padre impazzí per la morte di sua
madre, si gettó dal tetto della casa di cura in cui lo avevano
internato. Lui era andato a fargli visita, lo vide cadere come un
sacco di patate al suolo, inerte, senza un urlo o un gemito, lo
raccolse che ancora respirava.
Perché quel piccolo angolo di mondo in
cui viveva doveva essere cosí marcio da contaminare e corrodere
completamente ogni sua speranza, ogni sua emozione?
Negli occhi di quella bambina felice
c'era tutto quello che aveva perso e che non avrebbe mai piú
riavuto.
Mentre la madre rispondeva al
cellulare, la farfalla continuava a volteggiare e la bambina non
vedeva altro che quella splendida creatura. Marcus controlló il
semaforo, era ancora rosso, ma era stanco di aspettare. La farfalla
andó verso la strada e la bambina la seguí mentre la madre era
girata a parlare al telefono. Marcus guardó se c'erano o meno
macchine, cosí da poter attraversare: c'era una macchina di lusso
che stava arrivando, le altre erano troppo lontane. Il tizio alla
guida era uno in giacca e cravatta, era distratto, stava cercando
qualcosa nel bauletto, forse. Marcus giró la testa, la bambina era
in mezzo alla strada... e in quel momento fece qualcosa che non
avrebbe mai fatto in vita sua. I suoi muscoli si mossero da soli: una
strana forza dava moto al suo corpo.
Il tempo sembró dilatarsi: la macchina
era vicina, la bambina era lì in piedi e lo guardava negli occhi
mentre lui correva più velocemente possibile nella sua direzione.
Ogni passo era lungo come una vita terrena. Quegli occhi verdi
smeraldo continuavano a fissarlo, quella macchina non arrestava il
suo corso, veloce ed inesorabile, si avvicinava… Protese le mani,
la macchina era a pochi metri ormai. Marcus la spinse con quanta
forza aveva in corpo, sentì l'urlo della madre e poi il freddo
metallo sul suo fianco, gli occhi verdi della bambina si
allontanavano da lui, la sua spalla contro il vetro, poi tanti spilli
sul suo corpo, un volteggio confuso e fugace e poi lo schianto
sull'asfalto.
Non sentiva nulla, la sua vista era
offuscata. Qualcuno lo mise supino: era un signore distinto con una
folta barba, urlava qualcosa ma lui non sentiva nulla, poi si giró e
vide la farfalla, poggiata affianco a lui sull'asfalto, sbatteva le
ali e muoveva le antenne calma ed aggraziata. Non aveva mai visto una
farfalla cosí, aveva lo stesso colore dei suoi capelli: una piccola
farfalla d'oro.
Le palpebre erano pesanti, ora non
sentiva piú fatica nè dolore. Era forse guarito da ogni affanno?
Forse ora era davvero finita per Marcus l'inarrestabile.
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