Autrice: AlexielFay
Fandom: Katekyo Hitman Reborn
Personaggi: Gokudera Hayato, Tsunayoshi Sawada,
Yamamoto Takeshi
Pairing: 80x27x59
Genere: Introspettivo, Angst, Malinconico
Rating: Giallo
Avvertimenti: OneShot, Shounen-ai, Spoiler Future!Arc
Prompt: Senso di colpa
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Seguito di
"Goodbye for now"
Incredibilmente reale.
[80x27x59]
Era
incredibilmente reale.
Lì,
nel buio, il volto di Gokudera era così reale che per un
attimo non
si rese conto di quanto fosse diverso. E Tsuna – dovette
restare
nascosto ancora un po’, solo un attimo in più,
prima di essere in
grado di andare da lui. Fu forse Tsuna a permettergli di guardare
meglio Hayato: dieci anni di meno, migliaia di momenti che erano
appartenuti a entrambi andati perduti, mai nati. Li guardò
insieme,
Tsuna e Gokudera, e qualcosa dentro di lui scatenò una
pioggia che
ardeva sulla pelle e al tempo stesso risanava altre ferite. Nel
dolore, brillò la speranza.
Era
incredibilmente reale.
Il
modo in cui il suo corpo si mosse verso di loro. Il momento perfetto
e giusto in cui loro due lo videro.
Yamamoto
indugiò un istante sul volto di Gokudera, rendendosi conto
che era
da tanto tempo, troppo, che non vedeva quell’espressione.
Aveva
smesso, Gokudera, di guardarlo così; aveva smesso di
guardarlo in
verità. Solo per qualche secondo, l’ultima volta
che l’aveva
visto, l’aveva guardato. Ma non così.
Ora,
il fatto che non lo perdesse di vista neanche un istante, come fosse
diffidente, gli donava una strana quiete. Sapeva che non era neanche
un bene il fatto che non si fidasse completamente di lui, che da quel
punto di vista non era ancora cresciuto; gli erano mancati quegli
occhi. Ma Hayato non lo sapeva.
Eppure
gli andava bene, bastava: era lì davanti a lui,
l’aspetto del
ragazzo che era stato dieci anni prima, e quella parvenza di
maturità
che gli brillava intorno come l’alone della luna. Il Gokudera
di
quell’epoca, per forza di cose, aveva dovuto inglobare in
sé tutta
la luminosità di quel satellite in poco tempo, per poi
essere
risucchiato da tutte le responsabilità di cui si era fatto
carico.
Ogni cosa era crollata quel giorno e ora, a vederlo così,
giovane e
ancora privo di vere consapevolezze, Yamamoto si sentì
invadere da
un’ondata di tenerezza e nostalgia.
***
Il
futuro era più spaventoso di quanto avessero potuto
immaginare.
Hayato crollò sul letto, le ginocchia deboli, e
cercò di fermare le
immagini che gli scorrevano nella mente. Il Decimo in una bara, il
Decimo morto, il Decimo morto per colpa di...
“Solitamente
qui ci dormivi tu, Gokudera.” la voce di Yamamoto era
diversa.
Sussultò quando lo chiamò, chiedendosi cosa
stesse cercando di
fare. Non aveva voglia di fare conversazione, non dopo tutte le
parole che non avrebbe voluto ascoltare. Il Decimo, il padre di
Yamamoto, e chissà quanti altri ancora. Voleva solo chiudere
gli
occhi.
“Per
questa notte dormirete tu e Tsuna qui.” aggiunse.
“Ma se
preferisci stare solo...”
“Sono
il braccio destro del Decimo, certo che rimango!”
Yamamoto
sorrise. Anche dieci anni prima avrebbe sorriso, ma forse in maniera
leggermente diversa. Come uno che non sa. Come uno che non ha ancora
vissuto certe cose e la vita, magari, avrebbe un suono più
bello.
Anche
Gokudera dovette notare quella sfumatura diversa nel sorriso di
Yamamoto. Dopotutto, lui aveva lasciato il vecchio Takeshi da poche
ore, se lo ricordava meglio di tutti.
“Perché
ci sono solo due letti, idiota del baseball?”
sbottò.
Yamamoto
lo guardò stranito, l’espressione vagamente ebete
che Gokudera
cercava sempre di cancellargli a forza di pugni.
“Che
vuoi dire?”
Gokudera
sbuffò, scrollando le spalle e guardando distrattamente
oltre la
porta per controllare che il Decimo arrivasse.
“Tu
dove diamine hai intenzione di dormire?!”
I
suoi occhi emanavano rabbia, ma anche colpa. Per un solo istante, uno
e basta, a Yamamoto parve di vedere gli occhi dell’Hayato che
aveva
visto l’ultima volta proprio in quella stessa stanza. Lo
colpì
forte quella sensazione, come se le sue difese fossero cadute di
nuovo, come quando gli aveva detto di aver bisogno di lui. Come se
fosse passato solo un secondo.
“Io
ho delle cose da fare.” rispose semplicemente.
C’era tanto da
fare, punti strategici da controllare, la salute di Lal Mirch,
Byakuran, Irie Shouichi... Sembrava che il tempo di dormire fosse
lontano anni luce.
“Se
vuoi resto fin quando non arriva Tsuna, Gokudera. Così
parliamo.”
gli sorrise, ne aveva bisogno. Talmente bisogno che quel sorriso,
invece di donargli pace, lo trapassò e bruciò.
Dio come gli
mancava...
Gokudera,
intanto, rabbrividì. Un dejà-vu. Per quanto fosse
assurdo –
com’era possibile avere dejà-vu nel futuro? -
Hayato non riuscì a
spiegarsi quella sensazione, come se gli stesse urlando qualcosa dal
profondo silenzio che circondava lui e Yamamoto, nella stanza insieme
a lui.
Come
se ci fossero già stati – ma questo era chiaro.
Tuttavia... era
come se ci fossero già stati in un modo che scuoteva
violentemente i
nervi di Hayato, rendendolo stranamente a disagio.
Lui
nervoso davanti a Yamamoto? Per favore, si disse, era la cosa
più
ridicola che avesse mai pensato.
“Che
faccia, Gokudera.” commentò Takeshi ridacchiando,
come al suo
solito. A differenza di Hayato, lui sembrava perfettamente a suo
agio, come se quella fosse una stanza qualunque, e non quella in cui
il sé futuro era stato fino a pochi giorni prima. O forse
cercava
solo di aiutarlo, cosa che l’avrebbe irritato ancora di
più.
E
odiava quel suo atteggiamento, quel suo modo di essere.
Perché era
come se volesse farlo sentire inferiore, un disadattato, un inutile
idiota impulsivo senza possibilità di superarlo in nulla. O
almeno,
era quello che Hayato aveva sempre pensato. Ora, a dieci anni nel
futuro e con prospettive decisamente tragiche, Hayato si chiese se
non fosse il caso di rivedere un paio di cose.
“Fatti
gli affari tuoi, idiota.” ribatté.
“Dai,
dai... Cerca di rilassarti.”
“Finiscila.”
disse. Sul materasso avvertiva ancora la sensazione che ci fosse il
Gokudera del futuro e non lui. “O ti faccio saltare in
aria.”
Non
aveva proprio voglia di sorbirsi la gentilezza di Yamamoto. Era lui
quello che avrebbe dovuto cercare di esserlo, era nel futuro che il
sangue era stato sparso. La forza avrebbe dovuto portarla lui, non
Yamamoto. Perché non era distrutto? Perché
cercava di tenerlo su?
Perché era così... forte? Arrossì a
quel pensiero: da quando
pensava certe cose?
Non
era in grado di reggere altro, per quel giorno. Anzi, non era mai in
grado di reggere il signor baseball, perciò era meglio per
lui
chiudere la bocca e mettersi a dormire in fretta.
“D’accordo.
Allora per evitare incidenti sarà meglio che ti metta a
dormire.”
e lo disse con affetto e premura, aumentando il senso di irritazione
che bruciava nelle vene di Hayato.
Strinse
un lembo della coperta tra le dita, giusto per non prendere della
dinamite dalle tasche e cacciarla in gola a quel cretino.
Perché non
la smetteva di sorridere? Doveva solo evitare di muovere i muscoli
del viso, lasciare che quelle labbra restassero dritte. Doveva
smettere di far brillare gli occhi in quel modo, come se avesse mille
stelline dietro le pupille. O forse erano lacrime? Si sentì
scuotere
dentro ancora una volta, ritrovando quel senso di strano disagio.
Era
fastidioso oltre misura.
E
ora ci si metteva anche quella sensazione di imbarazzo e nervosismo.
Che diavolo... Odiava non sapere nulla di sé, di quello che
doveva
essere in quell’epoca. Era diverso? Scosse la testa e si
sollevò
appena, solo per tirare via le coperte e stendersi. Il Decimo sarebbe
arrivato a momenti, stava ancora discutendo qualcosa insieme a
Lal e Reborn.
Si
girò verso il muro, dando le spalle a Yamamoto, e chiuse gli
occhi,
pur sapendo che non avrebbe trovato la tranquillità del
sonno
profondo fin quando Tsuna non fosse entrato nella stanza.
Eppure,
quando Yamamoto uscì, si sentì come se una parte
di lui fosse stata
portata via. I suoi passi dietro la porta ormai chiusa e il suo
saluto, rivolto a lui e al Decimo, suonarono come un secondo addio.
Un addio che non aveva potuto rivolgergli, un addio in cui avrebbe
desiderato...
‘Finiscila!’
Respirò
profondamente e non chiuse gli occhi. Neanche per un istante.
C’era
il pensiero di Yamamoto.
C’era
il brivido gelido che i suoi occhi avevano fatto nascere quando aveva
sorriso – ancora e ancora.
C’era
il singhiozzo – il primo, poi il secondo, il terzo... sempre
–
del Decimo. Fermò il respiro, chiedendosi quanto ancora
avrebbero
dovuto sopportare. Era solo l’inizio, ma sembrava passata
un’eternità da quando erano arrivati in
quell’epoca.
Affondò
la testa nel cuscino, bevendo ogni singulto del Decimo, cercando di
fare sua quella sofferenza, per aggiungerla al dolore che
già
provava. E ancora colpa, e ancora momenti già vissuti che
restavano
intrappolati nel buio dove lui non poteva vederli né
afferrarli, ma
solo sentirli.
Poi
ripensò al sorriso di Yamamoto, al fatto che lui avesse
dieci anni
in più di devastazione dentro. Così
forte.
La
forza che donava agli altri con quel sorriso la tagliava via dalla
propria.
Lacrime
e singhiozzi.
Colpa.
Dolore.
Proteggere
il Decimo.
Il
Decimo... Solo per un attimo, nascosto nei suoi pensieri, Gokudera si
permise di pensare il suo nome e di lasciare che gli desse la forza.
Tsuna.
Tsuna. Tsuna.
Il
mattino dopo, gli avrebbe sorriso.
***
Prima
di andare da Lal e Reborn, Yamamoto restò vicino alla porta
della
stanza in cui aveva lasciato Gokudera e Tsuna. Vi regnava il silenzio
che indugia per un attimo sulle teste di chi sente il bisogno
incontrastabile di liberarsi dalla paura e dalla sofferenza.
Chiuse
gli occhi, toccando con una mano la superficie della porta: ora che
Tsuna e Gokudera erano lì con lui, divisi solo da
quell’ostacolo
di metallo, gli sembrava quasi impossibile, come morire, allontanarsi
da loro. Allontanarsi dal respiro di Tsuna che non era riuscito a
salvare, allontanarsi dalla voce di Gokudera, che ancora viveva nella
sua mente, recente e calda.
Avrebbe
voluto entrare di nuovo e guardarli dormire, silenzioso, sempre che
fossero riusciti ad addormentarsi.
Credeva
di essere riuscito a controllare quel senso di colpa che Gokudera
aveva lasciato esplodere, ferendo se stesso e portandolo alla
disperazione. Ora che Tsuna era di nuovo lì, vivo eppure
così in
pericolo, il petto si riempì di vuoto.
Eppure
essere stato capace di guardarlo ancora una volta, sentire il suo
respiro e vedere il suo sorriso, l’espressione stupita nel
ritrovarlo così... ventiquattrenne, non aveva solo riportato
a galla
il senso di colpa. C’era anche una speranza, la redenzione,
la
scintilla di quelle fiamme che avevano sempre illuminato la loro via.
C’era meno buio.
Ora
doveva solo allontanarsi, di pochi metri, e lasciarli dormire. Il
cielo avrebbe illuminato ogni cosa il giorno dopo, e forse avrebbe
rappresentato un passo in meno da compiere per raggiungere la
vittoria e la vita.
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