Le
Lune di Miele di Remus John Lupin e Sirius Black.
Il
giorno in cui arrivò La
Lettera
a casa Lupin, Remus, con gli occhi fuori dalle orbite, dopo molti
anni fu finalmente e completamente felice, senza riserve; in seguito
a infinite lune piene, riuscì a dimenticare per la prima volta
il Lupo Mannaro e tornare il ragazzo. Remus con gli occhi ambrati che
stringeva tra le dita una pergamena e, tutto un fremito, la mostrava
alla madre in lacrime, orgogliosa più che mai. Del suo
bambino.
La
madrea gli aveva gettato in grembo una lettera dalla scrittura
raffinata, elegante, senz’alcun interesse, ritornando dal suo
Kreacher per ordinargli di spazzare in un angolo, o di lavare qualche
tappeto; dentro il primogenito Black cresceva un sentimento di
spensieratezza che era stato ben lontano durante la sua infanzia –
fino ad allora; sarebbe uscito da quella casa per nove mesi, non
avrebbe rivisto sua madre, suo padre; probabilmente sarebbe riuscito
a non essere uno Slyterhin, avrebbe potuto ignorare quelle idiozie
sui Mug-blood[1]
e i traditori del proprio sangue, il comportamento perfetto e
l’esclusione completa di elementi babbani nella vita dei maghi.
Le
seconde ventiquattro ore migliori della sua vita, Sirius aveva
raccolto i libri che erano caduti a Remus sul pavimento, e gli aveva
stretto la mano, presentandosi e notando, con piacere, che non
accennava riferimenti al suo cognome. Stentò una smorfia
simile a un sorriso e subito dopo uno sguardo di scuse, forse per il
non riuscire a sembrare convincente, oppure per la sua stessa
presenza.
Black
fu subito convinto che si somigliassero.
Amici
sbagliati: un albero genealogico appeso al muro che puzza di
individualismo e anni trascorsi a illustrare le nobili imprese degli
uomini raffigurativi sopra. “Disgustoso, eh?”
Domandò
Sirius, quando Remus emerse dal Pensatoio. “Quella era davvero
casa tua?”
“Ebbene
sì, sono un miracolo vivente, non mi vedi?” Una piccola
giravolta. “E anche di bell’aspetto”.
Un
faggio nel giardino della scuola di Hogwarts. Si erano impegnati a
fissare il loro amico studiare talmente tante volte; ripetere, appena
esausto, le lezioni a Peter perché lui le comprendesse; le
gesta eroiche di James per impressionare Lily che, puntualmente, lo
definiva ‘immaturo’; le capriole di Sirius: anche da
umano aveva sviluppato un amore immenso per i grattini dietro le
orecchie; Remus sorrideva beato mentre fingeva d’esser
impegnato con qualche libro.
La
foresta del castello, nella quale, durante le notti di luna piena –
le più magnifiche, lontani dal fasullo contegno umano,
dall’ipocrisia delle parole; parti di quella meravigliosa
natura che è l’istinto, che li conduceva attraverso le
loro scelte – correvano abbaiavano ululavano squittivano
raspavano il terreno, lottavano uggiolavano scodinzolavano
esploravano, pronti al mattino seguente a disegnare altri pezzi della
Mappa che si sarebbe trasmessa attraverso le generazioni di Studenti
tra le mura di quella seconda – o in alcuni casi prima –
dimora.
Il
treno per la Scuola, dove raccontarsi le (dis)avventure estive, le
esperienze, le spiagge, gli acquisti, le nuove scope messe sul
mercato, i regali ricevuti dai parenti, i pranzi orripilanti, i nuovi
epiteti con cui Sirius definiva Walburga,
James e le diavolerie di sua madre in cucina, la mania di spettinarsi
i capelli acquisita al terzo anno, Peter e gli occhi sbrilluccicanti
d’affetto e d’ammirazione, l’amore per il criceto
di suo cugino Frank[2],
Remus e il cuore che si riempiva di felicità all’idea
che avrebbe trascorso altri nove mesi in quel modo fantastico che
aveva reso suo, che apparteneva ai Malandrini e che nessuno avrebbe
potuto strappar loro via. Durante il viaggio, il Lupo mannaro
dimenticava – di nuovo come a undici anni – che ogni
ventotto giorni avrebbe dovuto subire una trasformazione dolorosa:
c’erano tre volti divertiti che non attendevano altro che
orripilare ragazze, ricevere punizioni, la luna piena, festicciole in
dormitorio, racconti dell’orrore, cucine nei sotterranei, elfi
domestici schiavizzati, aeroplanini volanti nell’aula della
McGonnall, incantesimi agli studenti del primo anno, scherzi nella
Sala Comune Slytherin.
La
gita al lago il Sesto anno, con la presenza altera di Lily che
osservava Potter con un occhio interessato ma che, quando veniva
scorta da un Malandrino qualsiasi che non fosse il suo amico Remus,
si trasformava subito in una maschera di disgusto. Il buttare
all’aria i vestiti e festeggiare perché erano giovani,
felici, e l’anno scolastico si era appena concluso. La scoperta
di James dell’alveare d’api e i cinque minuti seguenti,
in cui era stato rincorso da numerosi insetti che Lily era riuscita a
disperdere con un incantesimo; James era parso parecchio offeso,
sentimento che veniva fomentato dalle risatine del suo migliore
amico: subito dopo lui, Wormtail e Prongs avevano dato spettacolo
delle loro doti di Animaghi, tra qualche sbuffo di noia della ragazza
– in realtà era veramente impressionata, ma non avrebbe
mai permesso che quei tre sbruffoni lo sapessero.
E
infine la ragazza con i capelli bagnati che, nel sedile posteriore
dell’utilitaria di Moony, s’era addormentata sulla spalla
di Prongs, mentre s’incamminavano verso le loro case, con un
Padfoot che avrebbe di gran lunga preferito volare o
smaterializzarsi.
Il
primo appuntamento che Lily aveva concesso a James; era stato così
nervoso il loro amico… Non riusciva ad abbottonare la camicia,
e gironzolava per la sala comune e il dormitorio tirandosi su i
pantaloni e domandando dov’era questo o quello agli insonnoliti
Marauders che, soltanto per pura solidarietà, fingevano di
avere gli occhi e le orecchie ben spalancate; alle urla dell’amico
non potevano comunque rifiutarsi di rispondere.
L’espressione
del ragazzo quando i due si erano incontrati – “TRE ORE
DOPO” aveva fatto notare Sirius – ai piedi delle scale…
Lily era bellissima, ma quel giorno aveva una strana lucentezza sul
viso, forse perché finalmente aveva deciso di cedere al
bell’imbusto, o magari per il viso di James che era tutto un
luccichio meravigliato. Il naturale prendersi a braccetto e iniziare
a parlare, parlare, parlare sino a che la gola non si sarebbe seccata
e gli argomenti terminati – ma per Padfoot, Wormtail e Moony
che li guardavano dalla loro posizione, più indietro e
dall’alto, non c’era alcun dubbio.
“Scommetto
quello che volete che rimarranno insieme per tutta la vita – se
non anche oltre”. E avevano soltanto annuito in silenzio,
incerti se quella fosse una buona o una cattiva sicurezza.
Il
bacio di Natale – il primo in assoluto, in realtà –
tra Lily e James. Si erano trovati per puro caso nella Sala Comune,
mentre i compagni Gryffindor si salutavano, scambiandosi qualche
regalo e facendo volare per scherzo valigie qua a là; il fuoco
scoppiettante nel camino, le fate delle decorazioni che
picchiettavano i loro pugnetti sulle spalle dei malcapitati,
indignate per quella confusione. I Marauders in un angolo, che si
spiegavano l’un l’altro come avrebbero trascorso quelle
due settimane. Sirius e Remus si sarebbero fatti compagnia nella
grande Hogwarts, la scuola sarebbe stata tutta per loro. “E
naturalmente lavoreremo a quella cosa, Wormtail, non so se mi
spiego”.
“Qual-
Oh, certo, certo”.
Sirius
scosse la testa, evitando di commentare: dopotutto era Natale, poteva
ignorare le stupidaggini di Wormy. “Ma dov’è
Prongsey?”
“È
laggiù con Lily”. Sirius stava per mettersi a strillare
e richiamare il compagno all’appello, quando si accorse che i
due, sistemati sotto un rametto di vischio e accortisi di
quest’errore del Destino – o forse accurata attenzione da
parte di James, a dir poco diabolica – James disse qualcosa che
parve molto come un “se
non ci baciamo saremo sfortunati”.
La Evans, che doveva aver afferrato tutto il piano, aveva scrollato
le spalle sorridendo – dopotutto era Natale anche
per lei
– e aveva lasciato che James le prendesse piano la faccia tra
le mani e le sfiorasse la bocca leggermente, perché si
avvinghiasse al ragazzo e si premesse contro di lui con più
trasporto.
“Hai
capito la Evans…” commentò Sirius, e nessuno ebbe
cuore di contraddirlo, impegnati com’erano a stare attenti che
nessun moscerino entrasse nelle loro bocche aperte (naturalmente,
Peter quasi rischiò di affogarsi con una mosca, ma erano
abituati alla sua goffaggine).
Il
breve telegramma da parte di Narcissa e Bellatrix che giunse a Sirius
in una notte tempestosa; Remus l’aveva rinchiuso in un
abbraccio caldo che valeva più di mille case o Stamberghe
Strillanti.
“Il
problema” aveva subito eruttato Black, con un odio profondo che
non era rivolto a nessuno della sua famiglia in particolare, a meno
che non si trattasse proprio di lui, di Sirius Black, spostando con
mala grazia l’amico “è che non m’importa
nulla”.
In
realtà, e se ne rendevano ben conto tutti, era la sua
genitrice, la donna che l’aveva messo al mondo e che, volente o
nolente, aveva stipulato un legame – anche se assomigliava più
a quello tra un cameriere e un datore di lavoro – che sarebbe
durato in eterno.
Forse
non si esibiva in pianti disperati o starnazzi, né parole
doloranti, ma almeno un po’ ne soffriva.
In
una sera d’estate di fuoco, Sirius era accomodato in una sedia
a dondolo sistemata sul balcone della sua nuova casa. Remus era
rannicchiato sul divano, di fronte la televisione che aveva regalato
all’amico: girava i canali, sembrava interessato, ma non doveva
essere troppo attento con quell’afa.
Black
non se ne curava, occupato con la musica che proveniva da due piani
più sotto, una ragazzina dai capelli rossi che ascoltava un
mucchio di melodie blues del passato, sfocianti nel rock,
malinconiche e apparentemente inadatte a uno spirito leggero di una
teenager.
“…and
every day and every night
There
were just me and you
And
nothing else there was in our life”.[3]
Improvvisamente,
come illuminato, il ragazzo si voltò verso Remus che, a sua
volta, un po’ intontito lo fissò senza proferire parola,
aspettando che l’altro aprisse bocca.
Perché,
ormai, ogni giorno della loro vita era intrecciato.
Un’altalena
le cui corde resistenti erano attaccate a un albero maestoso. La
prima casa dei Potter era un verso splendore, la targa d’ottone
alla porta recitava:
“Mrs.
Lily Evans in Potter
&
Mr.
James
Potter”.
Il
maritino si rannicchiava per un numero indecente di ore vicino alla
porta a rimirarla e borbottare che ancora non poteva credere che LEI
avesse accettato di sposare uno
come lui.
Un
giardino disseminato di germogli di campo, coloriti e fioriti in quel
mese caldo. Un soleggiato pomeriggio insieme agli amici. Lily saliva
e scendeva, saliva e scendeva, mentre i Marauders giocavano a carte
sul prato e si raccontavano dei vari impegni; la donna rifletteva su
cosa avrebbe potuto preparare per la cena.
“Che
ne dite del pollo?” chiese all’improvviso, interrompendo
un’accesa discussione a proposito del Ministro della magia, al
che tutti scoppiarono a ridere. “Che cosa c’è?”
Una
mattina di metà ottobre del ’79 Remus Lupin si trovò,
inspiegabilmente, sul divano del suo amico Sirius Black, con le
braccia di quest’ultimo ai lati della testa e la faccia a pochi
centimetri dalla sua.
Quando
Lily Potter entrò senza bussare, rubata la chiave
dell’appartamento del suo migliore amico a suo marito, per
annunciare la lieta notizia, si trattenne dallo sghignazzare vedendo
Remus e Sirius avvinghiati sul divano con delle espressioni
corrucciate, e troppo impegnati per dar conto a una sposina
neo-mamma. Così, arretrando lentamente, si chiuse la porta
alle spalle; saltellando e gioendo, sempre di più, tornò
dal marito per spettegolare assieme a lui: sembrava proprio che la
bella novella, quel giorno, fosse giunta da altri.
A
cena, quella sera, c’era una strana elettricità. Remus
era rosso in volto e spesso balbettava, mentre Sirius era pensieroso
e non alzava la testa del piatto.
“Allora,
vi abbiamo chiamato qui oggi” cominciò James. “perché
abbiamo qualcosa da dire”.
Finalmente,
i due si voltarono a fissarsi, domandandosi mentalmente se fosse
possibile che sapessero
già; ma non ne fecero troppo un dramma, l’avrebbero
scoperto comunque prima o poi.
“… abbiamo
capito. Noi vogliamo soltanto dire che ci fa piacere, che siamo
felici e che speriamo che non cambi nulla”.
“Perché
dovrebbe modificarsi qualcosa? Siamo sempre gli stessi, dopotutto”.
“Sì,
sono diverse soltanto alcune situazioni, è qualcosa che so che
prima o poi sarebbe accaduta, meglio non perdere troppo tempo,
giusto?”.
“Hai
perfettamente ragione, è per questo che ci si sposa, per lo
più”.
“E
perché ci si ama”. Aggiunse, saggiamente, Lily.
“Eh?”.
Domandò, intervenendo, Sirius. “Ma noi- io e Remus non
siamo sposati…”.
“Oh.
OH!” Esclamò allora James. “Voi non stavate
parlando di noi, quindi… - risatina – beh, sappiamo del
vostro rapporto, oggi Lily è entrata in casa tua, Sirius, e vi
ha trovati – uhm – allacciati”.
Le
guance di Remus divennero blu e Sirius scoppiò a ridere.
“Però
noi volevamo soltanto informarvi – come ha provato a fare oggi
Lily – che aspettiamo un bambino”.
Urla
di giubileo e stappo di champagne che, naturalmente, la Potter non
bevve.
Quindici
anni dopo.
Si
pensi a com’è… leggere un nome che non avrebbe
mai dovuto avere a che fare con il mondo dei vivi. Un turbinio di
idee, di colpevolezza, di amore, di affetto, di speranze perse in una
prigione in mezzo all’Oceano, nella quale si smarriscono la
forza, le idee, qualsiasi parvenza d’umanità…
figurare a pochi centimetri da tre ragazzi indifesi quello che
potrebbe essere un pericoloso assassino e ricordare quello stesso
uomo che stringeva tra le braccia uno di quei giovani uomini, con un
sorriso che avrebbe potuto essere scambiato per quello di un bimbo,
tant’era sincero e raro. E poi vederlo di nuovo nella propria
mente in un vicolo, dodici babbani intorno e Peter Pettigrew a pochi
passi da lui, mentre urlava le parole che avrebbero portato la
distruzione a tredici innocenti.
Un
viscido Peter che non aveva mai conosciuto che strisciava accanto a
Voldemort e che sussurrava il luogo dove si trovava il nascondiglio
dei Potter.
Tutto
il dolore di Harry, Lily e James traditi dal loro migliore amico, il
cuore che si era frantumato quando aveva ascoltato la storia da
Dumbledore, la voglia di ucciderlo o, peggio, di lasciargli subire le
punizioni dell’inferno per il resto della sua miserabile vita
di traditore – e oltre.
Ma
c’era soltanto un uomo spezzato sul pavimento della Stamberga
Strillante – che sì, avevano conosciuto l’inferno,
ma senza averlo meritato – a cui erano stati strappati via gli
anni migliori, proprio come a Remus, e che guardava il mondo con
disprezzo e disgusto, molto simile alla prima volta in cui Remus
l’aveva incontrato, quando gli era finito contro.
Gli
tese la mano, stava soltanto ricambiando quel gesto di cortesia di
tempo prima; si abbracciarono. Tutti quei silenzi e quegli anni
morirono, appassirono, per un attimo su di loro il tempo fu meno
impietoso, e parve proprio di leggere tra le pieghe delle loro storie
una nuova felicità: quella di essersi ritrovati, nonostante
tutto, nonostante Azkaban, nonostante il male più profondo che
aveva diviso e distrutto e che aveva a che fare con menzogne e
confessioni mai esalate ad alta voce…
Lì,
in quella catapecchia, Remus aveva ritrovato la sua serenità
perduta. Non importava quanto avessero da risanare, c’era tempo
per il vuoto e per i rimpianti; nel frattempo avrebbero ricostruito
quella vita che a entrambi era stata negata: un’esistenza con,
se pur poca, gioia.
“Le
cose che perdiamo trovano sempre il modo di ritornare da noi”.
Harry
Potter lo scrisse sul retro di una foto di Black e Lupin, sbucata da
chissà dove, risalente al periodo di Grimmauld Place. Aveva
visto quell’immagine e null’altro gli era venuto in mente
se non quella frase, perché pareva proprio che avessero
ritrovato… tutto.
[1]
Mezzosangue, in questa accezione, è un insulto. Il modo che
non lo fa essere una 'parolaccia' è “half-blood”,
come il titolo del sesto libro della saga (“Harry Potter &
The Half-blood Prince”). Ma usando “mug-blood” o
“mud-blood” è un insulto.
[2]
Personaggio totalmente inventato.
[3]
Strofe di una canzone immaginaria, che magari potrebbero essere
davvero presenti in una sdolcinata melodia, non lo so questo.
Angolo
dell’autrice:
Piccola depressione estiva, di quelle che spuntano all'improvviso e
ti tormentano fin quando non le butti giù. Ed eccola qui, in
tutta la sua tristezza e voglia di esplodere. Ho scelto dei
particolari momenti, molti dei quali non sono affatto inseriti nella
saga di Harry Potter, e ovviamente i personaggi appartengono
interamente alla carissima J.K. Rowling. La citazione finale fa parte
del quinto film della saga, ed è una frase che mi piace
troppo. E che c'entra moltissimo con tutto il contesto di Harry
Potter e di questa fan fiction e del mondo in generale. Ecco tutto.
Spero che sia stata una fan fiction piacevole.
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