Annegavo nella notte buia

di Ciu
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Annegavo nella notte buia, rantolando in un mare di gelo. I rami mi graffiavano il volto mentre correvo con la bocca spalancata in un grido silenzioso, soffocato dal terrore. I miei occhi senza luce vagavano disperatamente tra le sagome nere degli alberi, in cerca di un qualsiasi aiuto, di qualcosa, qualunque cosa, alla quale potermi aggrappare. Scappavo, la vista offuscata da patetiche lacrime biancastre, che scivolavano lente sul mio volto. Io, Eleda Tessirag, perduta nella notte nera d’inchiostro senza stelle, con unica mia compagna la luna, crudele e silenziosa spettatrice di quel macabro e grottesco spettacolo di disperazione, sapevo perfettamente ciò che stava per accadere. Loro erano dietro di me. Li udivo urlare furiosi, mentre agitavano i forconi alla cieca nel buio, tentando di ferirmi. Già li immaginavo sovrastarmi, con le loro armi puntate in alto, verso l’oscuro cielo, e pronte ad abbattersi su di me, sulla mia carne. Ero ben consapevole che tutto ciò che facevo fosse inutile. Eppure, il mio animo indomito non si rassegnava alla morte, e continuava ad urlare silenzioso nel corpo, urlandomi di fuggire da quell’inferno di alte fiamme, che si abbattevano spietate su quegli uomini marci e consumati, avvizziti e desolati da anni e anni di assurde e disumane credenze e tradizioni sulla stregoneria e la magia nera. Ci consideravano bestie al pari degli animali, e tutto perché curavamo la gente con impacchi alle erbe ed infusi di foglie di thè caldi. Improvvisamente inciampai. Non riuscii ad urlare dal dolore allo scrocchio dell’osso rotto, non avevo voce e forze per capire ciò che stava per accadere. Un movimento secco, ed un uomo comparve di fronte a me con una scure alzata. Gli occhi porcini gelati da una rabbia cieca, fissarono i miei azzurro cielo. Una smorfia di trionfo si disegnò sul suo volto scavato. E poi….fu tutto come immaginai.
Un colpo.
Due colpi.
Tre colpi.
Il sangue schizzava ovunque, sull’erba nerastra, sugli alberi, addosso all’uomo, sui miei lunghi capelli castani, ma dalla mia bocca nemmeno un lamento. Ero paralizzata dal dolore, che risuonava echeggiando dentro di me. Non fui mai particolarmente credente, ma pregai di perdonare quel uomo e l’orribile azione che aveva appena commesso. Uccidere un innocente ragazzina di appena 14 anni, strappata dalla sua famiglia perché accusata di eresia e stregoneria. L’ultima cosa che vidi, fu il ghigno dell’uomo trasformarsi in una risata sguaiata. Sorrisi debolmente al pensiero che gli uomini erano davvero un branco di scimmie che vivevano secondo presunzioni proprie. Passi, urla di giubilio, qualcuno che si chinava su di me, mi sussurrava qualcosa. Ma io ero troppo lontana per sentire altro dolore.
E così, sotto i gelidi colpi di una scure, in una serata di fine novembre, tra le selvagge risate degli euforici contadini, la mia vita ebbe fine.




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