Autrice: AlexielFay
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: Romano, Spagna, Francia
Pairing: Spagna/Romano
Genere: Introspettivo, Angst, Storico
Rating: Giallo
Avvertimenti: OneShot, Shounen-ai
Prompt: Grida
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Link alla tessera: http://alexiel-fay.livejournal.com/20132.html
Note: In questa one
shot si parla della rivolta napoletana guidata da Masaniello prima e da
Gennaro Annese poi.
Vi
lascio ciò che dice Wikipedia:
Quella di Masaniello non fu una rivolta antispagnola e
repubblicana, come avrebbe voluto la storiografia dell'Ottocento che,
profondamente influenzata dai valori risorgimentali, vedeva
in lui un patriota ribellatosi alla dominazione straniera. Le cause
degli eventi del luglio 1647
risiedono esclusivamente nella specificità politica,
economica e sociale della Napoli spagnola nella prima metà
del Seicento.
La rivolta fu scatenata dall'esasperazione delle classi
più umili verso le gabelle
imposte sugli alimenti di necessario consumo. Il grido con cui
Masaniello sollevò il popolo il 7 luglio fu: «Viva
il re di Spagna, mora il malgoverno», secondo la consuetudine
popolare tipica dell'Ancien
régime di cercare nel sovrano la difesa
dalle prevaricazioni dei suoi sottoposti. Dopo dieci giorni di rivolta
che costrinsero gli spagnoli ad accettare le rivendicazioni popolari, a
causa di un comportamento sempre più dispotico e stravagante
Masaniello fu accusato di pazzia, tradito da una parte degli stessi
rivoltosi ed assassinato all'età di ventisette anni.
Nonostante la breve durata, la ribellione da lui guidata
indebolì il secolare dominio spagnolo sulla
città, aprendo la strada per la proclamazione dell'effimera
e filofrancese Real Repubblica
Napoletana, avvenuta cinque mesi dopo la sua morte. Questi
eventi, visti in un'ottica europea, riaccesero la tradizionale contesa
tra Spagna
e Francia
per il possesso della corona di Napoli.
***
Come il
silenzio, come la follia
Non
si distingueva quasi nulla in quella immensa nuvola di polvere.
Lovino camminava alla cieca, attento a non mettere un piede in fallo
e ricommettere l’errore che aveva portato a quel caos.
“Dannazione...”
tossì, portandosi una mano alla bocca. Cercò di
aprire gli occhi ma
la polvere bruciava e lo faceva lacrimare. Camminare in quel
disordine di libri e scaffali distrutti sarebbe equivalso a rompersi
una gamba. Non sarebbe stato così tragico e polveroso se
avesse
fatto le pulizie come Antonio gli aveva chiesto da quando era
arrivato a casa sua. Ma che ci poteva fare lui se la Biblioteca era
così grande e sconfinata? Ci sarebbero voluti secoli per
spolverare
ogni cosa, perciò aveva lasciato che la polvere si
depositasse su
quei tomi e che il legno degli scaffali marcisse, lento, e smettesse
di sostenere il peso di quella storia che si portavano dietro da
così
tanto tempo.
Anche
il pavimento era lurido, notò, quando poggiò una
mano per non
perdere l’equilibrio mentre cercava di sedersi. Non sarebbe
stato
difficile ritrovarsi il corpo ricoperto di ragni. All’idea
restò
disgustato e si chiese se sarebbe stato meglio affrontare la giungla
di legno e carta oppure ritrovarsi quelle bestie schifose addosso.
Non si diede risposta e restò semplicemente in attesa,
sperando che
la storia dei ragni fosse solo uno scherzo della sua immaginazione.
Alzò le mani dal pavimento, per evitare che si sporcassero
ancora, e
le ripulì sulla camicia bianca, anch’essa sudicia
ormai. La
polvere stava ricadendo, ormai, ed era possibile vedere meglio il
disordine regnante.
Lovino
sbuffò. Sarebbe toccato a lui rimettere in ordine? Fino a
prova
contraria la colpa era sua, considerando che non aveva messo piede in
Biblioteca per pulire praticamente da quando era arrivato
lì. Ci era
andato qualche volta, soprattutto accompagnato da suo fratello o da
Spagna, quando sentiva il bisogno di ritrovare un po’ di
silenzio.
Persino Antonio chiudeva la bocca in quel luogo. Era un po’
come
una Chiesa, diceva, solo che potevi scegliere in cosa credere, in
Biblioteca. C’erano talmente tanti libri diversi che sarebbe
stato
difficile persino sceglierne uno.
Aguzzò
la vista e riconobbe la porta, socchiusa, accanto alla quale
c’era
un ammasso di libri. Non perse tempo a chiedersi quanta cultura
avesse fatto fuori con un colpo solo – prendere a calci uno
scaffale maledetto e far partire un effetto domino da paura era stata
un’azione perfettamente giustificata.
La
verità era che Romano aveva fame e in quella casa si sentiva
parlare
solo di guerra, di spese e di casse vuote, di tasse assurde e di
rivolte.
La
verità era che quella dannata biblioteca era il luogo dove
il
silenzio si acquattava dietro le sue orecchie, pronto però a
fischiare come il vento tra le foglie, ricordandogli che esso non
avrebbe riportato indietro il vecchio splendore. Nel silenzio, Romano
non avrebbe concluso nulla.
Il
rumore assordante che quegli scaffali avevano prodotto, sollevando
polvere e sporcizia – miseria – aveva per un attimo
zittito il
silenzio insinuante. Poi la decisione. Poi, qualcosa dentro di lui
scattò, come quando al mercato una mela rotola via,
chissà se per
caso o per una ragione ben precisa, e il primo mendicante la afferra,
gli occhi che si tingono di rosso e la gola che arde. E’ la
follia,
la fame, è essere ciechi. E una mela, anche marcia,
ricoperta di
polvere, costituisce più luce del sole che splende impietoso
sui
mille volti della povertà. Lei non vuole vederla mai
nessuno,
neanche quando ce l’hai appiccicata agli occhi, marchiata a
fuoco
nello stomaco e incisa nelle orecchie.
E’
follia, ma la lucidità che serve per renderla capace di
ottenere
qualcosa nasce sempre, dopo il silenzio, dopo il rumore. E’
un po’
speranza e un po’ disperazione, un po’
umanità e un po’ voler
salire dove nessuno s’era mai innalzato.
I
libri, intanto, restavano ammassati lì, davanti alla porta,
un po’
dappertutto. Sud Italia continuava a guardarli, chiedendosi a un
certo punto chi avrebbe parlato di lui e scritto della sua storia, se
ci sarebbe stato posto per un momento di coraggio. Un momento in cui
restarsene buoni, nella codardia, si sarebbe trasformato in qualcosa
di lucente, qualcosa da ricordare e in cui ricordarsi del sapore
della libertà.
Le
unghie affondarono nella carne del braccio e gli occhi restarono
fissi sui libri. Colse un rumore, poi, proprio dietro la porta, e gli
occhi di Spagna incontrarono i suoi.
Romano
aveva gli occhi stanchi, le guance pallide – un pallore che
neanche
il grigio della polvere poteva nascondere – e le labbra che
il
rosso l’avevano dimenticato.
Spagna
aveva gli occhi del dominatore, di chi rincorre il potere e si fa
amare e odiare, di chi potrebbe affondare da un momento
all’altro.
Eppure, nascosto lì, sulle labbra e in fondo alla gola,
chiunque
avrebbe potuto sostenere che vi fosse accucciato come un toro
scatenato un urlo di vittoria, qualcosa per cui risorgere. Cenere che
si trasformava in pioggia, pioggia che avrebbe costruito un regno di
ricchezza.
C’era
il dubbio e il silenzio, però, in quel momento. Ed era
quello che
Romano voleva distruggere, per portare la sua terra dove voleva che
fosse. Dove fosse libera dalla fame, dove non fosse necessario avere
quegli occhi per guadagnarsi un abbraccio da un dominatore bastardo
che proprio non riusciva a farseli gli affari propri.
“Ho
fame...”
“Non
mi lasciare.”
Il
7 giugno 1647 Napoli insorse.
C’era
ancora polvere, ovunque. C’erano le urla e c’era
festa. Ma la
polvere rimaneva.
C’era
meno fame e una speranza in più. C’era qualcuno
che urlava
qualcosa sulla parità tra le classi sociali e ricordava il
passato.
In
un angolo una mela rotolava via, spinta dai passi di chi impugnava
coraggio e cambiamento tra le mani. E urlavano, sì,
urlavano.
La
mela rotolava, nessuno la vedeva.
La
mela rotolava, nessuno la raccoglieva.
C’era
la paura di un potere troppo grande nelle mani di chi era troppo
piccolo. Di chi era sempre stato troppo insignificante.
C’era
il terrore di tornare come prima.
C’era
un fiume che straripava, gli argini distrutti. Napoli era insorta per
fermare la follia della fame, ma aveva creato la follia del potere.
La cecità, come la polvere, restava.
Era
tornato in quella biblioteca, Romano, dopo tutte quelle urla. Erano
diventate troppo alte.
Gli
scaffali erano ancora riversi sul pavimento, i libri sparsi qua e la
e il silenzio dietro le orecchie non fischiava più. Non
esisteva.
C’era
la follia, ancora. Animava la gente, la spingeva a desiderare di
più,
a desiderare una libertà ancora più grande.
Qualcosa per
assicurarsi un futuro, forse, oppure semplicemente per rendere meno
misero il presente. Al futuro chi ci pensava? La povertà ti
permette
di pensare ai giorni presenti, a quello che hai e quello che non hai.
E’
come la follia. E’ qui e ora.
E’
come la fame.
Si
lasciò cadere nello stesso angolo polveroso in cui era
finito quel
giorno, incapace di vedere. Ora vedeva ogni cosa, la sentiva
perfettamente nel petto. Pulsava insieme alla rivolta, aveva il suono
dei passi degli spagnoli che andavano via e di qualcun altro che
giungeva.
Quella
casa così grande, vuota, adesso non aveva più
profumo.
La
mela rotolava verso qualcosa che potesse vederla. Verso qualcuno che
la raccogliesse.
La
mela, spinta via dai passi di chi arrancava verso la
libertà, fu
raccolta.
Qualcuno
che desiderava di più, qualcuno che la
offrì a chi avrebbe
potuto donare di più.
Il
22 ottobre 1647 la Francia fu accolta a
Napoli e nacque la Repubblica Napoletana.
Ora
non era semplicemente fuori dalla porta della Biblioteca. Ora, Spagna
era fuori da tutto.
“Dannato
Francia...”
Tossì,
sfiancato dalla urla, dalle richieste, dalla pazzia uccisa dal
veleno.
Era
appassito come appassisce una rosa che viene strappata dal roseto.
Senza grazia, senza dolcezza. In una agonia che si era accumulata
nelle ossa, appesantendo ogni passo e facendo risuonare la morte
nelle orecchie. Pulsava lento, il cuore, e poi accelerava, scuotendo
il petto e ritirandosi immediatamente, come la risacca. Inondava di
vita ciò che era rimasto e poi, allo stesso modo, strappava
via ogni
cosa. Tutto ciò che restava era solo uno spicchio di cielo,
appena
visibile attraverso le palpebre socchiuse, incapaci di stare aperte.
Si
sentiva odore di polvere, odore di tramonto. Il sole veniva accolto
dalle tenebre, morendo in una linea arancione oltre
l’orizzonte,
senza assicurargli che l’avrebbe rivisto presto.
Pensò
a Romano, a lui sì, accoccolato in quella marea di libri,
ricoperto
di polvere e circondato da scaffali distrutti. Legno marcio, carta e
inchiostro. E Romano. Romano che aveva fame, Romano che
l’aveva
guardato per un attimo attraverso la fessura tra la porta e il muro,
chiedendosi cosa fare, se fosse giusto o sbagliato.
Poi
sospirò e il petto bruciò come se avesse il
fuoco, dentro, ma non
lo stesso fuoco passionale che l’aveva spinto a diventare la
Spagna
grande e conquistatrice che era stata. Era un fuoco sottile, come una
spada che si conficca nel petto e si rifiuta di dare il colpo di
grazia. Dona solo dolore, non dona la misericordia. Magari è
il
peccato che si ritorce contro il peccatore, che ne ha abusato fino a
renderlo un’anima redenta. Il peccato che viene perdonato e
il
peccatore che muore in un’agonia infinita. Il peccato che
fugge dal
peccatore, il peccato che si rende conto della fine incombente e
cerca salvezza.
Rise
l’amarezza degli anni trascorsi e poi, mentre
l’ennesima onda
scuoteva ogni cosa che aveva dentro, mettendo disordine e rubando
l’emozione, Spagna vide la linea dell’orizzonte
diventare
tutt’uno con il cielo blu scuro.
Avrebbe
riposato solo un po’, nascondendosi nel blu, e al prossimo
sole le
mani affondante nella sabbia l’avrebbero stretta a mucchi,
trasformandola in oro.
Avrebbe
dormito mentre le onde riducevano pian piano l’agonia.
“Romano...”
E
sarebbe tornato, alla fine.
“Che
stai facendo, Romano?”
Francia
entrò in Biblioteca, trovandolo mentre era intento a
raccogliere
qualcosa, una scopa in mano.
Romano
si voltò, osservando quello che era il suo nuovo padrone. Se
era
sbagliata, quell’immagine, lui non sapeva dirlo. Se sarebbe
stato
meglio per tutti, non poteva saperlo. Però quelle urla erano
diventate assordanti, quella polvere gli aveva fatto bruciare gli
occhi troppo a lungo.
“Pulisco.”
Chissà
se l’avrebbe ritrovato, dietro le pagine e sotto il legno,
quel
silenzio che frusciava come il vento tra le foglie.
Chissà
se al tramonto avrebbe guardato la linea arancio
dell’orizzonte
svanire nel blu, respirando un po’ anche per lui.
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