Interferenza
Interferenza
bianco
Chi ha costruito
questa cosa, doveva essere cieco.
O, perlomeno, avere gravi problemi di
sensibilità alla luce.
C’è solo bianco, intorno. Bianco carta. Opaco, uniforme, gessoso. Come se qualsiasi altro colore fosse proibito. Come se persino una diversa sfumatura di bianco fosse proibita.
Anche la luce è bianca e adirezionale.
E’ solo presente. E’ onnipresente. E siccome proviene da tutte le direzioni e ha
la stessa intensità dovunque, non ci sono ombre né gradazioni.
Il pavimento e
il soffitto candidi non hanno riflessi. Si limitano a esistere. Quanto alle pareti,
quelle non ci sono. Il sotterraneo è una distesa apparentemente infinita, un
pavimento e un soffitto senza mura a circoscriverla.
Senza differenze, è
tutto piatto, privo di prospettive.
Visto che è il signore del castello, Marluxia potrebbe almeno fare la cortesia di riempirlo di piante.
Nel bianco, c’è una
foresta di colonne di vetro, colme di liquido incolore.
Racchiudono corpi
raggomitolati su sé stessi. Uomini, donne, bambini, embrioni a svariate fasi di
sviluppo.
bianchi
Come se fossero stati
immersi nella candeggina.
“Cosa sono?”
“Quello alla tua
destra, tecnicamente, sono io.”
Luxord si volta, sorpreso dalla presenza proprio alle sue spalle.
Era a qualche distanza, oltre le colonne, solo un istante prima.
Zexion pare deciso di fare onore a quello che si dice di lui, anche se non ci sono ombre, qui, dove può camminare.
O, forse, Luxord sta
perdendo la vista.
Zexion ridacchia
dolcemente. Il camice - bianco - allacciato fino al collo nasconde quello
che indossa. La sola cosa visibile sono un paio di comuni jeans tanto sbiaditi
da essere incolori. I suoi capelli sono di un grigio polveroso, gli occhi grigi e lattiginosi.
Non basta a interrompere questo candore
estenuante.
“Sono cloni,
Luxord. Solo cloni.”
“Sono morti.”
Non è esatto. Mancano di qualcosa di necessario per poter essere definiti morti.
Con la punta delle dita, Zexion sfiora una delle colonne.
Chiuso in essa, c’è un feto grande come un pugno, la testa enorme e gli arti gracili, quasi vestigiali.
Ha una qualità gelatinosa, come se fosse fatto d’albume crudo d’uovo.
“Non sono mai stati vivi.” sospira lo scienziato “Niente più che manichini di carne.”
“Allora perché
alcuni sono così sviluppati?”
“Anche un
cristallo inorganico cresce, alle giuste condizioni. La vita non è
indispensabile alla crescita.”
C’è un tavolo, a poca
distanza dalle colonne. O tubi. O provette malate di gigantismo.
E’ bianco.
Una poltrona, bianca.
Anche colei che è
seduta è bianca.
Naminé tiene le
mani in grembo e la testa china.
bianco
biancobianco
biancobiancobianco
bianco
“Giocate a fare
i clonatori?”
Zexion si siede sul
bracciolo della poltrona, accanto a Naminé.
“Xigbar
rimase accecato durante il secondo anno. Recuperò la vista all’occhio sinistro,
ma quello destro non era semplicemente lesionato. Lo aveva perso. Il nostro
corpo è costruito attingendo alle Forze basali dell’universo ed è organizzato
fin nelle sue più sottili costituenti. Eppure, c’è un limite temporale per
quello, come per le cellule totipotenti di un organismo embrionale. Dopo la
nascita, restano solo le eventuali capacità individuali. Xigbar non è un
manipolatore di Oscurità tanto abile da rigenerare un intero organo mancante.
Così, abbiamo tentato di coltivare un organo sostitutivo.”
“Ma
non ha funzionato.”
“Evidentemente
no. In quell’occasione, scoprimmo che qualsiasi clone nostro, che sia solo un
frammento di DNA, un tessuto, un organo, un individuo, non è vitale e non genera
la vita.”
“Sul
mio mondo, avremmo usato un apparato bionico.”
“Ci
abbiamo provato. Purtroppo per Xigbar, le informazioni raccolte e trasmesse da
un sistema artificiale sono incompatibili con il suo modo di percepire lo
spazio, causandogli più difficoltà che altro. Alla fine, ha preferito la cecità
parziale. Ma la cosa fondamentale non è che non siamo stati in grado di
restituirgli l’integrità fisica. Per quando spiacevole, quello di Xigbar è un
problema individuale. Il dramma è che le nostre attuali conoscenze non ci
permettono la clonazione vitale di un nobody. In teoria, sarebbe possibile
usando la stessa componente di Crepuscolo che ci costituisce, ma, allo stato grezzo,
la materia crepuscolare è talmente instabile che la sua persistenza si misura,
al massimo, in microsecondi. Non sufficienti neppure a iniziare un processo di
clonazione.”
“Io
ho visto i cloni di Vexen.” obietta Luxord.
“Quelli
non sono cloni. Sono repliche, ottenute manipolando l’Oscurità. L’Oscurità è la
Forza più affine alla Vita. Per sua natura, tende a formare aggregati
pseudovitali, mimando gli esseri viventi. Capita persino spontaneamente, quando
grandi quantità di Oscurità si condensano dove esistono modelli in grado di
servire da matrici, come luoghi dove sono avvenuti eventi ad alta valenza
emotiva. Vexen fornisce all’Oscurità una matrice controllata, le repliche che
ottiene hanno forma definita e persino pensiero. Persino pensiero senziente. Io
ho generato repliche di me stesso, usando il Crepuscolo e, come matrice, prima
le percezioni di Lexaeus, poi ci sono riuscito da solo. Le repliche sono state
vive, per qualche istante. Per meccanismo di genesi e costituente materiale, le
mie repliche sono la cosa più simile a un nobody naturale che siamo riusciti a
ottenere senza partire da un essere umano preesistente. Tutte le repliche, sia
le mie che quelle di Vexen, hanno avuto un’esistenza estremamente limitata.
Noi siamo originati dalla volontà di superare la morte, ma non qualsiasi
morte. Non è un caso che la stragrande maggioranza dei nobody nasca da un
attacco di heartless e relativa escissione del Cuore, ma non è indispensabile,
né è il solo modo. Xehanort non è mai stato preso dagli heartless, e neppure
Sora. Conta la circostanza. Affrontare il peggior trauma concepibile da un
essere vivente, il più devastante e distruttivo, per un tempo sufficiente affinché
ci sia modo di elaborare questo trauma, assimilarlo,
conoscerlo e rigettarlo. Essere arrivati alla condizione limite, al punto di
frantumazione e disintegrazione della propria anima, e volere comunque esistere.
E, naturalmente, avere le adeguate capacità di manipolare le Forze della
realtà.”
“Il che vuol
dire che non puoi semplicemente morire in pace nel tuo letto?”
“No.”
“Come prova, è
una bella fregatura, se vuoi il mio parere.”
“Un bella
fregatura, sì, ma non è una prova. E’ una condizione. Necessaria, almeno per
adesso, ma non sufficiente. Vedi, non basta volere vivere. Bisogna continuare a
volerlo e se far nascere un nobody dipende dalla volontà della creatura che
lo genera, restare in vita è solo un problema nostro. Essere espressioni della
volontà di qualcuno che è stato capace di superare un simile criterio selettivo
ci garantisce una certa forza. Le nostre repliche esistono secondo lo stesso
principio. Possiamo dare loro vita, ma da quel momento dipende solo da loro
conservarla. Finora, nessuna ne è stata in grado. Forse qualcuna
ha il potenziale giusto per sopravvivere, ma se e quali, non lo sappiamo, non
più di quanto possiamo sapere con certezza quale essere completo può
generare un nobody. Con l’aiuto di Naminé, stiamo cercando di ricreare un
accettabile patrimonio mentale per le repliche, per aiutarle a esprime una
propria volontà e capire se è possibile, per loro, avere una persistenza
stabile.”
“Poi? Vi metterete a
torturarle per sottoporle ai giusti criteri selettivi?”
“E’ quello che
vorremmo evitare. La selezione ha senso se è possibile trasmettere il carattere
che ha permesso l’adattamento. Questa selezione estrema non ci porta a superare
la nostra fragilità. La sola conseguenza è che limita drasticamente il nostro
numero. Noi vogliamo arrivare a un modo per
moltiplicare la nostra specie che non sia così accidentale e improbabile, e
ottenere individui con le nostre caratteristiche, ma privi delle nostre
deficienze strutturali.”
Con la coda
dell’occhio, Luxord percepisce un movimento.
bianco su bianco
Naminé ha sollevato la testa e lo guarda prima
di riportare la sua attenzione a terra.
Sfrega la punta di un sandalo sul pavimento e
il rumore che provoca ha un timbro smorzato.
Forse, tutto questo bianco non consuma solo i
colori.
“E
la clonazione è la soluzione?”
“No. E’ solo un pezzo
di un rompicapo con più buchi che pezzi. Non è neppure detto che sia un pezzo
del rompicapo giusto. Abbiamo problemi, tanti. Occorre un numero minimo di
esemplari per garantire la sopravvivenza di una specie e noi, al momento, non lo
raggiungiamo neppure lontanamente. Siamo troppo pochi. Pochi e differenti.
A parte noi sei, proveniamo da universi diversi. Non abbiamo
compatibilità biologica. Poi, il rapporto fra i sessi è estremamente
sfavorevole. E, naturalmente, abbiamo difficoltà sperimentali. I nostri tessuti sono
instabili e possiamo usare solo modelli matematici o esemplari vivi. Non
colture, non corpi. La maggior parte delle volte, i soli soggetti sperimentali
siamo noi stessi e questo non garantisce che possiamo applicare a tutti i
risultati ottenuti. I nobody inferiori sono geneticamente come noi, ma usare
loro, così come sono, è impensabile. I loro tessuti non perdurano neppure il tempo sufficiente per iniziare un processo
di duplicazione. Come vedi, di complicazioni ne abbiamo più che a sufficienza.”
“Quindi, da dove
iniziate?”
“Da tutte le
parti. Il fatto è che non si tratta di un problema dopo l’altro e non ci si presentano uno
per volta. Sono contemporanei. Molti di essi non possiamo risolverli senza
risolvere gli altri. Anni fa, prima del tuo arrivo, Vexen cominciò un progetto
di ricerca piuttosto estensivo per ottenere nobody da embrioni a diversi stadi
di sviluppo. E’ difficile, ma non quanto potresti pensare. Il difficile è
ottenere nobody che riescano a persistere e, più difficile ancora, al punto da
non esserci mai riusciti, è ottenere nobody umanoidi. Ora Vexen ha ripristinato il progetto, con lo scopo di incrementare il nostro
numero. Se riuscissimo a revertire la condizione degli altri e fossimo capaci
di ottenere cloni vitali, con adeguate tecniche di ricombinazione potremmo
ottenere una sufficiente variabilità e avere un buon bacino genetico di
partenza, oltre che materiale sperimentale.”
Luxord continua a fissare i cloni.
Adesso la loro esistenza è spiegata.
Legittimata. Ma continuano a essere rivoltanti e penosi.
“Mi hai fatto
venire qui perché vedessi i vostri fallimenti?”
“Ti ho fatto venire
qui perché capissi. Credi che ci siamo trovati al mondo sapendo quello che
siamo? Le risposte non arrivano senza cercarle. Noi non
chiudiamo porte, ma certo nessuno le apre per noi. Cominciamo a chiarire adesso
i meccanismi della nostra genesi e della nostra natura e dobbiamo allargare le
nostre conoscenze. Ecco perché lavoriamo anche sulle repliche. Non pensare a
questi come insuccessi. E’ solo mancanza di tecnica, tutto qui. Prima di noi, non esistevano nobody. O, perlomeno, non ne abbiamo notizia. Alcuni sono convinti che
siamo già esistiti, sulla base di prove induttive piuttosto convincenti ma,
comunque, resta solo una convinzione. Al lato pratico, siamo i primi. Abbiamo
ricreato una scienza dal nulla e, ti assicuro, dieci anni sono pochi.”
Il suono grattante e soffocato si ripete e attrae di nuovo l’attenzione di Luxord su Naminé.
La ragazzina è molto
più che seduta.
Sembra qualcosa senza
forza ed energia per sostenersi. Qualcosa che si tiene eretta e insieme
solo per costrizione materiale.
Accasciata.
I gomiti sporgono
dalla linea delle braccia. L’angolo tra coscia e gamba esasperato dall’assenza di
muscolatura.
In confronto alla
magrezza, la testa è troppo grande. Le ossa traspaiono sotto la pelle tirata e i
capelli sottili. Il volto è una maschera di cera, con una certa flaccidità
dovuta alla mancanza di uso dei muscoli facciali.
La gracilità rivela
oscenamente la sua corporalità.
E’ solo un altro feto. Uno strisciato fuori dalla sua tomba di vetro e acqua.
Ed è bianca.
Luxord ha voglia di
togliersi il cappotto e buttarglielo addosso, giusto per non vederla più.
Si strappa i vestiti,
gli hanno detto. Qualcosa in più, un colore in più, e li fa a pezzi.
Trasformarla in
polvere, allora. E’ sempre il sistema più sicuro per togliere di mezzo qualcosa.
E’ una violenza
guardarla.
Si fa violenza per
guardarla.
Considerava Roxas
inespressivo, ma non c’è paragone fra la sua inespressività e quella della
ragazzina.
Roxas li studia
ininterrottamente, li imita, imita i loro atteggiamenti e gestualità, li elabora
a suo uso, adattandoli alle sue esigenze, al suo essere individuo.
Ha attinto da tutti,
non solo da coloro con cui passa più tempo. Affettazioni, modi e comportamenti,
alcuni facili da capire, altri molto meno evidenti, a volte quasi
impercettibili, ma, se si sofferma a pensarci, può identificare tutti loro nel
ragazzo e gli piacerebbe capire perché Roxas ha scelto proprio quei gesti e
non altri, per esprimerli in una bizzarra mescolanza delle espressioni di così tanti mondi e
dimensioni.
Deve avere anche
qualcosa di suo, però non è così obiettivo da capire cosa o quanto.
Roxas è un’entità in
divenire. La sua inespressività è stata una fase in un processo di evoluzione
che è ben lontano dall’essere concluso.
Naminé si ritrae alla
ricerca dello stato primitivo del suo essere. Sogna il ritorno all’utero mentale
che l’ha partorita.
E’ immediato il
richiamo al mito quasi multiversale dei gemelli opposti, quello giusto e quello
sbagliato. La dualità è un concetto che sembra esercitare un fascino
irresistibile su ogni essere umano, di qualunque mondo.
Luxord rigetta subito
quel pensiero.
C’è un numero infinito
di possibilità fra gli estremi e lui non è umano. Non ha senso farsi
intrappolare dalle loro limitazioni. E, in realtà, non l’ha mai considerata
un’idea credibile o interessante.
Eppure, l’apatia di Naminé non è assoluta. Quell’attimo in cui ha alzato gli occhi è stata curiosità.
O, almeno, è stato interesse. Anche adesso, il suo solo movimento è quello del piede contro il pavimento, diventato uno sfregare ossessivo,
ma continua a studiarli entrambi, di sottecchi, evitando lo sguardo dei due uomini, cercando di non far vedere che osserva.
Una creatura dall’immobilità apparente di un anemone di mare. Molli e delicati tentacoli
bianchi e un ondeggiare languido, spinto dalle correnti.
Un etereo si materializza al loro fianco.
Zexion tende la mano a
Naminé, derisoria imitazione del gesto di un cavaliere di un qualche racconto di
principi e principesse. La ragazzina sbatte le
palpebre e si rialza, senza neanche sfiorarlo.
L’etereo si fa avanti
e lei lo segue, passo per passo. Lo segue come, una volta, Roxas ha seguito lui
nelle strade della città nera.
Entrambi si immergono
in un portale nero.
“Secondo te,
dovrei eliminarla?” chiede Zexion, una volta che i due sono svaniti.
Luxord ha sempre
saputo della poca simpatia di Zexion per la ragazza, ma nonostante tutto, è
sorpreso. Non tanto dalla domanda, quanto dal tono.
La voce dello
scienziato
gronda veleno e quella che, un tempo, era solo mancanza di trasporto, adesso sembra vera e
propria avversione.
D’altra parte, ha
avuto la chiara impressione che, pur nell’indifferenza patologica, o studiata, o
voluta, di Naminé, l’antipatia sia reciproca.
“Non so.”
“No?”
“Non lo hai
fatto in precedenza. Perché adesso?”
“Perché le
condizioni sono cambiate. Mi chiedo se la sua utilità non sia inferiore al
pericolo che rappresenta. Sai, anche la nostra piccola strega ultimamente si dà
alle predizioni. Su di noi e su Roxas, soprattutto.”
“Cosa dice?”
“Che lui non
sparirà.”
“Spero che abbia
ragione.”
“Io no, perché
significa che tutti gli altri, in ogni caso, spariranno. Me compreso.”
Anche se non è
esattamente antipatia. Non è neppure odio.
Più incompatibilità. O
repulsione.
Essere in loro
presenza, insieme, è come avvicinare i poli
uguali di due magneti e trovarsi in mezzo al loro campo.
“Zexion, tu hai
visto la sua nascita, quando hai fatto la prima scansione della mente di Roxas.”
“Quindi?”
“È anche a causa
tua se è fra noi.”
“Quindi?”
“Quindi non so.
Potevi lasciarla dove si trovava.”
Zexion lo guarda come
se gli avesse detto che il cibo più salutare sono sassi e vetri rotti.
No, certo che no. Non
poteva. O non voleva. O, comunque, non lo avrebbe fatto.
“Naminé è solo una
ragazzina ignorante, convinta di un’idea che non si è inventata da sola.”
azzarda Luxord.
“Tutti
siamo convinti di quello che facciamo. Perlomeno, siamo convinti che quello che
facciamo è il modo più conveniente di agire nell’ambito della circostanza in cui
ci troviamo. Il problema con Naminé è che lei è convinta che quello che fa è
giusto non solo in senso relativo, ma assoluto. E questo è un’aggravante, perché
lei permarrà nel suo comportamento e nelle sue azioni in ogni caso e circostanza. Quanto al resto, ne
abbiamo altri, di ragazzini. Roxas è un ragazzino e sono le stesse idee che sono state ficcate in testa a lui, eppure le rifiuta,
con più determinazione di chiunque.”
“Roxas
è stato addestrato ed educato a gestire situazioni critiche nelle condizioni e
ambienti più diversi, ad avere la responsabilità di una quantità di altre
persone. Naminé è stata chiusa in una stanza e abbiamo buttato via la chiave, se
posso ricordartelo.”
“Almeno
hai capito perché l’abbiamo fatto, Luxord? Eri presente, quando è stato deciso
di isolarla, ma hai ascoltato? O per te siamo già tutti morti, quindi non perdi
tempo a badare a quello che diciamo? Sei convinto sia così perché lei è
speciale, perché è uno strumento utile nelle nostre mani?”
Qualcosa del genere.
E Roxas è altrettanto
utile, altrettanto potente, altrettanto giovane e altrettanto senza memoria.
Tutti sono speciali e
tutti sono strumenti nelle mani di loro stessi. Ma solo a lei è negato tutto
quello che è stato dato a ogni altro nobody, compresi i bambini e quelli che
vogliono rivoluzionare ogni cosa.
No, in realtà, non se
ne è mai preoccupato. Né di Naminé, né delle ragioni per la sua prigionia.
“Naminé
è isolata per la ragione più semplice.” prosegue Zexion “Siamo in guerra. Lei ha
scelto a quale schieramento appartenere e non è il nostro. Non si lascia un
nemico girare libero per casa e prendere decisioni sul nostro futuro. Suppongo
non abbia neppure completamente torto. In fondo, lei non è un nobody.”
“Cos’è,
dunque?”
“E’
quello che pensa e quello che fa. E quello che pensa e che fa la rende non nobody. E non per la differenza
della sua genesi. Siamo talmente diversi l’uno dall’altro che l’unicità sistematica non
esclude l’appartenenza alla nostra natura. Una sola cosa ci accomuna ed è la
discriminante che ci rende quello che siamo. La volontà di vivere. Lei non la
possiede.”
“Allora
perché continua a esistere?”
“Perché
ha uno scopo. Esisterà fino a quando non lo avrà soddisfatto.”
“Come
noi.”
“Sì.
Come noi.” sorride Zexion “Quella a cui hai pensato prima... Un’immagine
suggestiva. Appropriata, anche. Certo, molto più di un embrione.
Adesso vedi di ricordarla e ricordare anche che quello è un
predatore velenoso.”
come te
E i predatori non tollerano antagonisti nei loro domini.
Forse è questa la causa della loro reciproca insofferenza. Competitività territoriale.
“Quindi,
alla fine, siamo come tutti gli altri popoli dei mondi. Temiamo quello che è
diverso.”
“E’ sempre così,
che finisce, ti pare? Con qualcuno che paga per noi, per le nostre ragioni. Se
posso scegliere, preferisco che a pagare sia Naminé. Allora, quali saranno le
conseguenze, se la uccido?”
Luxord si arrende.
Tanto, prima o poi dovrà rispondere.
“Moriremo tutti,
compreso Roxas.”
“Se non la
uccido?”
“Moriremo tutti,
tranne, forse, Roxas.”
“Come?”
“Zexion, se
potessi conoscere gli eventi e non solo gli andamenti dei vari flussi temporali,
non credi che ti avrei già avvertito da un pezzo? Quello che vedo sono solo
porte chiuse. Non ne aprirai una uccidendo quella ragazza.”
Il sorriso del giovane è
zuccheroso come un favo di miele e altrettanto pungente.
“Non sei di
grande aiuto, Luxord.”
“Fin’ora non ti
sei lamentato.”
Zexion si spalma sulla
poltrona abbandonata dalla ragazzina, le gambe mollemente di traverso al
bracciolo. Fissa il soffitto. O, almeno, fissa dove dovrebbe esserci un
soffitto, perché, adesso, l’altezza della sala si è dilatata a un apparente
infinito. In cambio, sono apparse le pareti.
“Questo posto non ti piace.” esclama Zexion.
E’ un’affermazione, non una domanda.
“Mi fa venire la nausea.”
“Non piace nemmeno a me. Vieni.”
Accanto al tavolo, si dispiega un gomitolo di Oscurità.
Luxord segue lo scienziato nella
dimensione di grigiore atemporale del Mondo in Mezzo, senza sapere dove lo
porterà. Non cambiano universo o pianeta, ma la distanza che percorrono è ben
più estesa di quanto non sia necessaria a valicare uno spazio complanare di un
solo mondo.
E’ una delle cose più
stremanti di Oblio, dover usare i sentieri oscuri anche per spostarsi da una
sala a un’altra, ma è il solo modo per raggiungere con certezza il luogo
desiderato. Camminare, non è così sicuro. Il castello ha la pessima abitudine di
cambiare continuamente configurazione tangibile.
Il palazzo è un ente
tetradimensionale concavo. Nella sua interezza, non è affatto distorto, ma
quello che esiste nello spazio ordinario è solo la sua proiezione
tridimensionale, distorta come è distorta la proiezione bidimensionale di un
solido.
Per non perdersi,
occorre tenere a mente la sua forma, quella vera, e non lasciarla andare, perché
cambia con i pensieri di chi lo abita e basta perdere di vista un attimo le
cose, e quella strana architettura si ristruttura a suo piacere. Ma anche così
non è sicuro, perché Oblio attinge dai pensieri di ogni suo abitante e controllare
completamente i
pensieri altrui è inconcepibile.
Meglio barare con lo
spazio distorto e usare i sentieri oscuri.
Si chiede quanta della
loro forza vitale ed energia stiano sprecando per vivere qui, anche solo per
muoversi attraverso la loro casa.
Di una cosa è sicuro.
Oblio sta consumando la loro forza.
Emergono su una
spiaggia. Un luogo desolato, piena di scogli. Una cala chiusa fra altissimi
faraglioni di pietra lavica nera e violacea. La riva è un amalgama di ciottoli,
sabbia grossolana, rocce.
“Non
è una delle tue illusioni, vero, Zexion?”
“No.
E’ una delle sale del castello.”
Luxord sperava in un
ambiente più civile. Uno studio o una biblioteca, magari. Uno più caldo,
soprattutto. Non si è mai abituato davvero al freddo. Non dopo i suoi quattro
anni di vita su un
pianeta che è una palla di pioggia e ghiaccio.
Fa freddo, su questa
spiaggia d’illusione, o di allucinazione. Sa che c’è differenza fra le due cose,
ma, onestamente, non saprebbe riconoscerla. Fa freddo e, a
peggiorare la situazione, c’è pure vento. L’aria è anche
leggermente più rarefatta di quanto vorrebbe.
In un posto simile, è
facile immaginarsi tempeste e burrasche e alti frangenti contro gli scogli, ma,
in questo momento, il mare è tranquillo, il suono ritmico e lappante si
mescola al leggero sibilare del vento e a urla stridule di qualche animale. Solo
vicino alla riva l’onda si rompe e creste di schiuma frangono sulla sabbia.
Matasse di alghe brune
sono gettate sulla spiaggia. Brulicano di creature striscianti e altre che
sembrano piccoli uccelli.
Un mondo abitato. Una
scalinata risale la scogliera alle sue spalle e, piantate in mare, ci sono colonne di vetro color fumo intarsiate di bassorilievi, la parte inferiore incrostata di
alghe. Pali di ormeggio, apparentemente.
C’è anche una
scacchiera appoggiata a terra, poco al di fuori del limite del frangersi delle
onde, con le pedine ammucchiate a lato, fra la sabbia. Accanto a essa, un piatto
d’argento colmo di frutti, cose che, a quella distanza, sembrano mele bluastre.
L’odore è pungente.
Diverso dall’odore del mare che gli è familiare. Diverso da quell’odore che per
lui è mare.
Non sgradevole. Solo
straniero.
Zexion si china e
raccoglie qualcosa da terra. Un ciottolo, o una conchiglia. Per un po’ lo osserva mentre se lo passa fra le dita, ma, alla fine, lo lancia in mare.
“Come sta Roxas?” chiede.
“Tu sai cosa è successo?”
Zexion scrolla appena nelle spalle.
“Ci vuole poco a
immaginarlo.”
“Ce l’ha con il
mondo intero. Non credevo che un nobody potesse essere così irascibile e
irritante.”
Il giovane raccatta un
altro ciottolo e lo scaglia in acqua.
“Ha fatto del
male a qualcuno?”
“In realtà, per
la maggior parte delle volte riserva a tutti il trattamento del silenzio. Sembra
tornato indietro di nove mesi. La differenza è che allora non sapeva parlare,
ora non vuole. Nessuno osa interrogare Xemnas, ma tra loro qualcosa è successo
di sicuro. Non si trovano mai, da soli, nella stessa stanza e, nelle rare
occasioni in cui si parlano direttamente, Xemnas si limita dare ordini e Roxas a
obbedire. Ogni volta che a qualcuno tocca venire qui, Roxas si offre volontario.
Finora, gli è sempre stato rifiutato.”
“Bene. Qui Roxas
non deve mettere piede.”
Sasso e lancio in
mare.
“E Xemnas?”
chiede ancora Zexion.
“Si è chiuso nei
suoi alloggi. Al di fuori del lavoro, non lo si vede quasi più. Sembra avere
paura di parlare con chiunque.”
“Ha paura di
ascoltare. Ha paura di trovare una ragione convincente per cambiare idea.”
Di nuovo silenzio. Si prolunga quel tanto che Luxord comincia a sentirsi a disagio.
E’ così poco da Zexion quel modo di parlare. Non proprio a monosillabi, ma dicendo solo lo stretto essenziale.
Lui non parla mai poco. Intesse incantesimi di parole e pensieri ed espressioni e si rende sempre comprensibile, cosicché il suo interlocutore intenda
proprio quello che lui vuole fargli intendere.
Non è neanche una recita, quella di Zexion. E’ mimetismo.
Luxord non se la sente di biasimarlo. E’ la sua natura.
Non è neppure male. Fra gente come loro, non è solo un inganno. E’ una necessità di comunicazione.
Così, invece, fra silenzio e gesti inspiegabili, ha l’impressione di avere di fronte uno sconosciuto. Uno che non è in grado di decifrare.
Luxord muove qualche
passo verso uno degli ammassi di alghe. Appena si avvicina, uno stormo di animali si alza in volo, lanciando grida indignate.
Si è sbagliato. Non
sono uccelli, non come lui definisce gli uccelli. Non hanno piume né becchi.
Sono più simili a pipistrelli.
Ci sono anche altri esseri, di svariate forme. Alcuni che riconosce come granchi, altri che non riconosce affatto.
Si allontana e le
creature alate atterrano di nuovo nel groviglio di vegetali putrefatti. Molte
di esse gli lanciano occhiate diffidenti, ma, rassicurate dal suo comportamento, tornano alla loro occupazione, con la pragmaticità degli animali
di tutti gli universi.
Ignora quello
che non ti fa male.
Ignora quello che
non puoi mangiare.
Certo hanno migliorato
le tecniche di replicazione.
La prima volta che si
è trovato nel castello, a effettuare l’analisi preliminare, le sale lo avevano
confuso con ombre e immagini ambigue, in continuo mutare.
La seconda volta il
disordine si era dissipato, ma le simulazioni avevano la plasticità artificiosa
di un set teatrale.
Tutto questo, invece,
è concreto, perfetto. Vero.
Quasi vero. Quasi
perfetto. Quasi concreto.
“Zexion, mi hai chiamato
qui per sapere di Roxas?”
Dubita lo abbia fatto solo per passare
un po’ di tempo a lanciare sassi in mare.
“Anche. Quando
sono partito, era in pessime condizioni.”
“Perché non sei
tornato al castello? Potevi chiederglielo di persona.”
“Io sono quello
che non muove un dito, se posso convincere un altro a fare il lavoro al mio
posto.” il giovane recupera un cristallo di memoria dalla tasca del camice e glielo porge “Ho una cosa che lo riguarda.”
“Cos’è?”
“Un elenco di
pianeti e relative posizioni nella Rete dei Mondi. Gliel’ho promesso da
parecchio.”
“E te ne sei
ricordato adesso?”
“Ho preferito
dargli il tempo necessario perché non gli serva più. L’ultima cosa di cui Roxas
ha bisogno è diventare dipendente dalle azioni altrui, comprese le mie. Non deve
convincersi che ci sarà sempre qualcuno a risolvere i suoi problemi. Meglio
si abitui all’idea che otterrà solo quello che è in grado di ottenere senza
alcun aiuto.”
Luxord indica il
modulo di memoria. Il luminoso color zaffiro colmo di particelle dorate è quasi
ipnotico. Il cristallo sintetico è bello come un gioiello, più prezioso di
qualsiasi gemma per le proprietà che gli permettono di accumulare immense
quantità di dati.
“Devo
darglielo?”
Zexion non ha detto
questo. Ha detto solo che riguarda Roxas.
“Daglielo, oppure no. Decidi tu.”
“Devo fargli
credere che lo hai dimenticato?”
“Non comunico
con Roxas da quasi due mesi. Non posso sapere cosa fare per lui. Lasciagli
credere quello che ti pare meglio. Mi fido di te.”
Il cielo è nuvoloso
quanto quello del pianeta di Oblio. Nubi altrettanto spesse e composte. Di tanto
in tanto, nel loro scorrere, lasciano intravedere un sole rosato e non molto
alto all’orizzonte. In quei momenti, dove è bagnata, la sabbia sembra uno
specchio colpito dalla luce e le pozze di acqua marine fra gli scogli diventano
fari accecanti.
“Roxas sta
crescendo, vero?” chiede Luxord, ponendo in tasca il cristallo.
“La tua non è
una domanda.”
“Una
constatazione.”
“Secondo te,
qual è la nostra età?”
“Non riesco a
definirla, se è questo che intendi. Non si tratta di un ammontare di tempo,
quindi è fuori dai miei calcoli. Di solito, ci riferiamo all’età che le nostre
controparti avevano nel momento della loro morte, ma, logicamente, la cosa non
ha senso. A maggior ragione per Roxas.”
“Vorrei sapere
una cosa da te, Luxord. C’è continuità tra la nostra esistenza e quella della
nostra controparte?”
“Nel passato,
non ci sono interruzioni. Posso dirti quando una vita finisce, ma non quando
inizia, perché è una linea diramata e continua con quella dell’organismo che la
genera. Ma vale per ogni essere vivente, non solo per noi.”
“Peccato. Mi
avresti risolto un problema.”
Il tono, così poco sorpreso, smentisce le parole di delusione.
In realtà, a volte Luxord si è aspettato di sentirsi porre una domanda simile, ma Zexion non lo ha mai fatto. Inutile chiedere quando si conosce già la risposta.
Semmai, la cosa strana è che abbia chiesto ora.
“Invece, temo ti
toccherà giocare senza certezze.”
“Vuoi dire mi
toccherà scommettere. Quando ti sei accorto che Roxas cresce?”
“Da poco.”
risponde Luxord “Ne ho avuto conferma giù in quel vostro antro, quando mi hai
detto che Vexen ha rispolverato il suo progetto per ottenere nobody artificiali.
Se non crescessero, otterreste solo una serie di entità perpetuamente fissate a
varie vasi di sviluppo embrionale e non credo sia quello che volete.”
“Poi si chiedono
perché tu mi piaci.” esclama Zexion allegramente “Lo scopo del
progetto originario non era incrementare il nostro numero, ma uno studio
approfondito della nostra natura biologica. Tra le varie cose, ci ha chiarito che,
nonostante la nostra apparente mancanza di processi di invecchiamento, la
crescita non è altrettanto inibita. Un nobody adulto resta tale, ma se il suo
organismo ha ancora un potenziale di crescita, si sviluppa.”
“Quindi, Vexen aveva
ottenuto i corrispettivi neonati dei crepuscolari.”
“Già. Alquanto
bizzarri, te lo garantisco.”
“Poi?”
“Si
sviluppavano. Negli anni, abbiamo trovato anche qualche crepuscolare naturale
non adulto. Pochissimi, e non abbiamo mai ottenuto nobody superiori, ma, da un
punto di vista strutturale, non ci sono queste grandi differenze fra le varie
classi di nobody, noi compresi. Per analogia, è stato ragionevole supporre che
un nobody umanoide immaturo crescesse. Ovviamente, sempre in via teorica.”
“E’ stata una
sorpresa?”
Zexion scrolla le
spalle.
“Non troppo. A parte che, a quei tempi, non sapevamo molto su di noi e qualsiasi scoperta in
merito era sorprendente quanto le altre, ci aspettavamo qualcosa di simile. Abbiamo un metabolismo completo, possiamo ferirci e guarire e scommetto che tu ti tagli la barba.
D’altronde, se i nostri corpi non fossero soggetti a variazioni, non potremmo muoverci né pensare. Il resto era solo una deduzione logica. Hai ragione. L’età
di un nobody non ha molto a che fare con quella di un essere umano, né
con quella di altri nobody. Il realtà, non è possibile precisare un sistema
univoco per definire la nostra età. L’età dell’essere umano, quella con noi
nasciamo, gli anni trascorsi da quel momento, le esperienze accumulate e quelle
ricordate, in entrambe le vite. Tutto forma una combinazione individuale. Tra
l’altro, non sempre il nobody nasce con l’età della sua controparte. Xigbar e
Vexen appaiono più anziani di quanto non lo fossero Braig ed Even. In ogni caso,
è solo un’età morfologica apparente. Da un punto di vista funzionale, tutti noi
condividiamo la stessa età, che non è riscontrabile in nessun essere completo.
Quella di individui privi di qualsiasi principio di senescenza e ancora in grado di
avere ricambio cellulare in ogni tessuto, ma, anche, completamente adulti. Roxas
è l’eccezione. Escludendo Naminé, lui è il solo nobody superiore conosciuto nato
in forma ancora immatura. Il suo organismo ha la stessa potenzialità di sviluppo
di quello di un ragazzo umano di età corrispondente, che è inferiore a quella di
Sora. Considerati i parametri di crescita della specie di origine, al momento
della nascita Roxas non aveva più di undici o dodici dei nostri anni. E’ un’età
biologica da cui non si può esulare, visto che ne influenza il carattere.
D’altro canto, non ha ereditato esperienze coscienti da Sora e possiede solo
quelle accumulate in poco più di nove mesi di esistenza come nobody. E ha tutte
le conoscenze accademiche che ho potuto forzare in lui. Quindi, non so dirti
qual è la sua età. Di sicuro, posso dirti che cresce. Mentalmente,
spiritualmente e, sì, anche fisicamente.”
“Noi però non
siamo invecchiati.”
“L’invecchiamento
è un progressivo accumulo di errori e ossidazioni nello svolgimento dei processi
vitali e, per buona parte degli esseri completi, è un andamento inevitabile. Però
i nostri corpi, anche se esistono nel mondo fisico e hanno una precisa realtà
biologica, sono espressioni della volontà di sopravvivenza. Non sarei sorpreso
se fossero opportunamente liberi di ciò che causa l’invecchiamento, tanto da
evitare errori. O, perlomeno, commetterne in una percentuale molto bassa. La
perfezione è una condizione innaturale. Se fossimo perfetti, Xigbar e Saïx non
avrebbero cicatrici di ferite ricevute come nobody. Non escludo che, a lungo
andare, invecchieremo. In fin dei conti, i più anziani di
noi esistono da soli dieci anni. E’ un tempo breve, anche se fossimo ancora
umani. La crescita è una cosa ben diversa. E’ lo svolgersi di un programma
innescato al momento della nascita al fine di raggiungere un determinato
traguardo. Un organismo adulto.”
Luxord ha quasi voglia
di ridere. Si è perso sul suo stesso terreno.
“Fra tutti, io
avrei dovuto rendermene subito conto. Immagino sia la riprova che non siamo
perfetti.”
“E’ solo la
riprova che abbiamo ragione quando insistiamo che voi impariate. Se vedi una
cosa, ma non sei in grado di riconoscerla o di comprenderla, vedere non ti
servirà a niente.”
A questo non può proprio obiettare. Però ha una cosa da dire, perché la spiegazione è
comprensibile. Corretta, anche, è pronto a scommettere.
Qualcos’altro, invece,
è molto meno chiaro.
“Zexion, perché
non lo sa nessuno?”
“Non è un
segreto, solo un’altra informazione che abbiamo... convenientemente dimenticato
di diffondere. Anche se, presumo, Marluxia se ne sia reso conto. Quanto agli
altri, ben pochi hanno interesse in cose simili tanto da pensarci o sospettarlo
e chi si preoccupa realmente di crepuscolari o eterei? E noi abbiamo potuto
metterci in pace la coscienza con una semplice considerazione. Non avevamo
prove. La sola cosa che sapevamo era che, se riuscivamo a ottenere un
crepuscolare immaturo, quello si sviluppava.”
“Credevo che la
scienza non mentisse.”
“La scienza non
mente. La scienza è solo un metodo. Come ne vengono usati i risultati, non ha
nulla a che vedere con essa e riguarda le persone.”
“Lo hai detto a
Roxas?”
“No.”
“E’ un
particolare importante.”
“Molto importante.”
“Quindi?”
“Mi aspetto che
lo capisca da solo. Prima o poi dovrebbe farlo. Fosse solo che, tra un po’, i
vestiti gli staranno stretti.”
“Almeno, adesso so come
moriremo. Abbiamo fra le mani un caso di pubertà capace di
disintegrare una stella. Ci ucciderà lui.”
Ora arrivano le
domande difficili. Quelle che potrebbero sfociare fin troppo facilmente
nell’invadenza. Troppo simili a esigere da Zexion le ragioni delle sue azioni.
E’ vero che, in
teoria, tutti loro sono uguali. Ma è anche più vero che alcuni sono uguali su un
gradino più alto.
fa la domanda
giusta
Con Zexion, le parole assumono significati diversi da quelli che hanno con chiunque altro. Lui non tace e non mente,
neppure quando vuole nascondere la verità. La ammanta invece di così tante parole e significati che rivelarla diventa un’impresa.
Talvolta, ci si dimentica cosa si voleva sapere.
Bisogna sapere cosa chiedere e tenersi bene in mente cosa si è chiesto. Come quando ci si muove attraverso questo
castello.
fa la domanda
giusta
E’ un modo come un altro per ottenere informazioni.
Anche lui è bravo in questo gioco. Immagina sia il motivo per cui Zexion accetta di
giocare.
“Zexion, ricordi
cosa ti ho detto? La crisi sarebbe avvenuta a causa di tensioni interne.”
“Ricordo.”
“Ed eri
d’accordo. Eppure sei qui, sei fra coloro che hanno causato una delle tensioni.
Si potrebbe dire persino che tu hai alimentato la tensione. Se non avessi
espresso la tua teoria di fronte a tutti, Marluxia non avrebbe chiesto di
scindere il gruppo.”
“Tu mi hai
avvertito, eppure non lo hai capito?”
“Io sono un
imbroglione. So quello che farà la gente o come andranno le cose, ma non sempre
capisco perché.”
“No, Marluxia non
avrebbe chiesto nulla. Sarebbe solo rimasto ad aspettare la prossima buona
occasione per agire. Marluxia studia Xemnas praticamente
da quando è arrivato. Cerca una breccia, qualsiasi indizio di
debolezza e vulnerabilità, e il momento è arrivato, con o senza di me. Xemnas
mostra sintomi ascrivibili a uno stato psicotico. Non sto a farti il quadro
clinico, ma non è una situazione salutare, te lo assicuro. Marluxia ha fiutato
il cambio di equilibrio e ne avrebbe approfittato comunque. Se non avessi fatto
nulla, non si sarebbe certo fermato.”
“Tu non saresti
stato coinvolto così direttamente.”
“Sai che
vantaggio, a quel punto. Non si tratta solo di Marluxia e Larxene. Molti altri
sono esasperati dalla nostra situazione. Io stesso mi rendo conto che fatico
sempre più a tollerare questa forma di reclusione. Marluxia e Larxene sono solo
i più decisi e intraprendenti. I meno prudenti, se preferisci, ma non sono i
soli. Viviamo sul filo di un equilibrio instabile. Dipendiamo l’uno dall’altro,
più di qualsiasi razza umana conosciuta, e i legami fra noi sono la sola cosa ci
permette di vivere in un universo ostile alla nostra stessa esistenza, su un
pianeta inabitabile a qualsiasi altra forma di vita superiore a quella di
qualche vegetale. Legami che non ci sono per niente naturali. L’unione per noi è
una fatica. Ci è persino difficile restare in presenza l’uno dell’altro per
tempi prolungati. Il vincolo più saldo fra nobody è quello che lo unisce ai suoi
famigli e quello è fondato su principi non applicabili fra noi. Le emozioni, i
sentimenti... i popoli dei Mondi li venerano, ma essi sono solo uno strumento di
sopravvivenza delle specie dotate di un sistema nervoso adeguato. Uno strumento
estremamente potente, grazie alla loro immediatezza e meccanicità, frutto di
un’evoluzione adattativa. Un percorso già tracciato, breve e rapido, battuto più
volte, con meno errori, meno spazio dove il circuito può interrompersi.
Immediatezza e meccanicità sono proprio le cose che ci mancano. La nostra
capacità di formare vincoli emotivi con gente che non conoscevamo in precedenza
è compromessa e la genesi di questi vincoli è complessa. Quegli stessi ricordi
che dominano la nostra esistenza sono da ostacolo alla formazione di nuove
relazioni. Così, abbiamo dovuto sederci a tavolino per trovare le soluzioni
necessarie alla sopravvivenza. Abbiamo formato legami per necessità, come gli
esseri umani, ma abbiamo dovuto crearli con la ragione e dobbiamo metterli in
pratica senza sconti e facilitazioni e sono comunque fragili. Basterebbe poco e
tutto andrebbe all’aria. Venire qui era arginare, almeno in parte, il disastro.
Se fosse scoppiato al castello, in inverno, quando già le condizioni aumentano
tensioni e attriti, con limitate valvole di sfogo, avrebbe coinvolto tutti.
Compreso te. Non saresti riuscito a restare in disparte. Tu odi combattere
persino i tuoi veri nemici. Come ti saresti comportato, di fronte ai tuoi
simili?”
“Mi piace
credere che non lo scoprirò.”
Zexion ammicca, come
abbagliato da una luce che non esiste.
“Vorrei credere
che non lo scoprirai.”
Zexion si siede nella
sabbia, a poca distanza dal vassoio pieno di frutta. Sfila il camice, lo appallottola e se lo mette in grembo, tormentando la stoffa.
Annoda insieme le
maniche del camice, poi disfa i nodi. Ripete il gesto in continuazione.
“Potresti
muoverti contro Marluxia.” ipotizza Luxord “Forse sono in tanti a non essere soddisfatti della
nostra situazione, ma indubbiamente è Marluxia a catalizzare il malcontento.”
Zexion scuote la
testa.
“Pensa che ho
anche avuto la buona occasione. Qualche mese fa, ho perso la pazienza con lui.
L’ho sorpreso con la guardia abbassata. Un gesto stupido, che rimpiango. Avrei
potuto realmente ucciderlo o incapacitarlo permanentemente e questa è una
soluzione che non posso neppure prendere in considerazione. Non è che non
voglio. Non posso.”
“Perché no?”
Zexion sbuffa e Luxord
capisce di avere fatto la domanda sbagliata.
fa la domanda
giusta
Non gli viene la
giusta domanda per chiedere perché Marluxia si è guadagnato il privilegio
dell’immunità.
“E la strada
opposta, allora? Unirti a Marluxia. Con te ci sarebbe sicuramente Lex e, con il
vostro appoggio, forse riuscirebbe a ottenere quello che vuole.”
“E poi? Dimmelo,
Luxord, accetto suggerimenti. Uccidere Xemnas, Saïx, Xaldin,
Xigbar... Vexen, anche. E quanti altri? Xemnas non può obbligare nessuno
che non voglia essere obbligato. Non farebbe altro che incrementare i dissensi
da parte di coloro che, per ora, restano neutrali o sono indecisi. Ma è lo
stesso per chiunque sia al suo posto, o credi che tutti seguirebbero
spontaneamente Marluxia?”
No. Certo che no. Non
tutti. Forse nemmeno la maggioranza. Però parecchi sì, non ne dubita.
“Demyx è fermato solo dalla paura di farsi male, ma la supererà.” prosegue Zexion “In fin dei conti, quello che noi abbiamo fatto è stato solo formalizzare e dare dignità scientifica a quello che lui ripete da sei anni. E Roxas? E’ probabile che, in un eventuale scontro,
affiancherebbe me, ma è anche più probabile che non saprebbe cosa fare e si troverebbe coinvolto in modo distruttivo solo per lui stesso. Gli altri, anche. A Xigbar non frega niente del Cuore o dell’umanità,
starebbe benissimo così com’è. Lex, invece, vorrebbe tornare umano. Eppure, per entrambi, ci sono cose più importanti dell’essere umani e dello stare bene. Hanno scelto, ma perderebbero in ogni caso. Poi ci sono le nostre corti. Sarebbero spinte al conflitto, lo vogliano o meno, e cosa succederebbe loro nel caso di una nostra fine? I miei eterei si adattano
a tutto e troverebbero subito una nuova guida, ma i danzatori di Demyx no e i guerrieri di Roxas si ribellerebbero a chiunque non sia il loro signore, e la stessa cosa vale per i
famigli di Xemnas e Saïx. Sono quasi come noi, loro. Sarebbero capaci di organizzare una rivolta. Ammesso che sopravvivrebbero alla fine delle loro
guide. Questo non lo sappiamo, perché, finora, non è mai
morto un nobody umanoide primo di una propria corte. Sono tanti, sono troppi. Potrei anche accettare di sacrificare una persona, due, tre... ma se il sacrificio diventa superiore al beneficio, allora non c’è senso nel farlo.”
“Zexion, anche
venendo qui, non hai eliminato il malcontento. Prima o poi qualcuno lo farà
scoppiare, da una parte, dall’altra o da entrambe. Cosa hai risolto?”
Zexion ha raccolto
nella sabbia qualcosa che sembra una scheggia di pietra e ora è intento a usarla
per piegare in modo sistematico e distruttivo i denti della lampo del camice.
Ancora azioni senza
senso evidente, senza evidente ragione.
“Ti racconto una fiaba, Luxord.
L’ho trovata su uno dei mondi che ho visitato. Un capitano deve condurre la sua
nave attraverso un mare infestato da esseri che, con il canto, ammaliano gli
uomini e li spingono a gettarsi in acqua o a far schiantare le imbarcazioni
sugli scogli. Allora, il capitano ordina ai marinai di chiudersi le orecchie con
la cera, in modo da essere sordi, al sicuro dai pericoli. Ma lui non è un uomo
che fugge o si nasconde. E’ un re, ha sfidato i cieli, i mari. La
sua mente e la sua volontà sono le sue armi. E’ curioso, la sua sete di
conoscenza insaziabile. Vuole sapere come sono quelle voci che hanno un tale potere. Vuole capire. Così, si fa legare a uno degli alberi
della nave, senza chiudersi le orecchie. Mentre attraversano il mare, ascolta il
canto che lo attira verso l’abisso, ma non può fare nulla. Supplica e urla per
essere slegato, ma il suo equipaggio non sente.”
“Come finisce?”
“Questo dipende
da che punto di vista la consideri, ti pare? Comunque, finisce bene per i
marinai. Attraversano il mare e le creature, disperate per avere fallito, si
uccidono. Nelle fiabe, così come vengono raccontate, l’eroe vince sempre il
mostro. La storia perderebbe il suo scopo, altrimenti.”
“Zexion,
Xehanort scelse da solo cosa fare. Scelse lui di gettarsi nello strapiombo.
Nessuno lo ha costretto.”
“Tu non capisci.
Roxas mi ha chiesto se lo rifarei. Ho risposto che sarebbe probabile.”
“Credendo che, questa volta, andrebbe meglio?”
“Non ricordi, Luxord? Tu stesso hai detto che sono stati errori evitabili.”
“Ricordo, certo. Alla fine, il vero problema è quello. Si fanno sempre le scelte più azzardate, e le si rifanno, anche sapendo cosa si rischia. E’ che credono sempre tutti che le cose andranno meglio, la volta successiva.”
“Già. Credere è la tragedia degli universi.”
Zexion ha detto una cosa,
prima.
la nostra capacità
di formare vincoli emotivi con gente che non conoscevamo in precedenza è
compromessa
Non impossibile, questo no.
Luxord ha avute troppe prove che non è impossibile. Lui stesso ne è una prova. Ma compromessa sì.
Vale anche al contrario.
Deve essere altrettanto difficile spezzare un legame fra gente che si è conosciuta nella vita precedente. Non impossibile, ma difficile. E più si condivide, più è difficile.
Quando condividono, fra loro, i sei? Quali legami hanno stretto? Luxord non è neppure in grado di immaginarlo, perché lui non condivide così tanto con nessuno.
Non crede che nei
Mondi ci siano altri esseri che condividano così tanto. Legami forgiati con vite
ed eventi. Con azioni che non hanno nome e dubita persino che abbiano mai avuto
nome, in qualsiasi lingua degli universi.
“Xemnas non è
solo la voce che parla per prima, Luxord. E’ un re. Voi lo dimenticate sempre.
Un re con il ricordo di avere distrutto il mondo del quale avrebbe dovuto essere
il padre e il Cuore incarnato.”
“Vuoi che non
porti più il peso della vita di Xehanort? Vuoi che non sia più l’uomo che ha
distrutto il suo mondo?”
“Quello che
voglio io è ininfluente. Non posso strappare a Xemnas quello che stringe
con tale forza. I suoi ricordi non li lascerà, né a me, né ad altri. Forse sarò
in grado di fare qualcosa per voi, ma non per lui, non in queste condizioni. Non
so neppure di cosa soffre. Ho gli stessi problemi che ha Vexen quando si
trova per la prima volta di fronte a un nostro stato patologico. Non sa cosa ha
davanti, come io non so cosa ho davanti. Non posso applicare i principi di una
scienza valida per esseri completamente differenti. La psiche di un nobody è
diversa da quella umana e, nonostante tutto, non conosco abbastanza di quello
che siamo. Non so come aiutare Xemnas e non ho tempo per scoprirlo. E’
davanti all’abisso e presto l’abisso lo tirerà a sé.”
L’abisso.
I fondatori chiamano
così la pazzia, l’irragionevolezza, l’insanità.
La chiamano come gente
di altri mondi chiama l’inferno.
Loro non hanno dei e
demoni. Credono solo nel proprio pensiero e nella propria volontà e l’individuo
è misura di ogni cosa. Credono solo in loro stessi. Per questo, credono che ognuno
porta il proprio inferno in sé. La propria personale dannazione, pronta a
divorare il suo stesso creatore. Un inferno per ogni uomo, un luogo dove
perdersi e dimorare soli. Nella propria anima.
Luxord è convinto che
ogni demone e abisso degli universi è solo il riflesso sbiadito dell’inferno di
quella gente senza dei e senza demoni, che nessun mondo ha mai creato un abisso
tanto spaventoso e oscuro della voragine demente del popolo della Luce. E la
cosa più orribile è che il loro inferno esiste davvero.
“Zexion, nella
tua favola, cosa succede davvero al capitano?”
“Non lo so, ma
forse... forse la sua mente si è spezzata. Avere quello che desidera così a
portata di mano, eppure irraggiungibile... Quando hanno superato quella tratta
di mare e lo hanno sciolto, forse ha ucciso tutti i suoi compagni
per avergli impedito di ottenere quello che voleva.”
Zexion termina,
finalmente, il suo vandalico sfogo di energia nei confronti del camice, ridotto
adesso a un groviglio sfilacciato.
“Questa è una
trappola.” afferma Luxord.
Zexion annuisce.
Una trappola. Una dove
tutte le parti in gioco sanno che è una trappola.
Zexion, Xemnas.
Marluxia, anche, ci scommette.
Una recita dove tutti
sanno cosa faranno e ancora non si saltano alla gola solo per contenere la
deflagrazione. Obbligati a muovere con prudenza dalla stessa consapevolezza che
una mossa azzardata farà dilagare il conflitto anche a coloro estranei alla
vicenda.
No. Non estranei. Non
ci sono estranei, in questo.
Indecisi, o ignari.
Demyx, Roxas.
E lui stesso. Che non
ha nulla di ignaro, non ha nulla di indeciso.
Solo in tre, ma su
tredici, anche uno è troppo.
E i tre hanno il peso
dei loro famigli.
“Forse sei
proprio come i mostri di quella fiaba, Zexion. Non puoi fare a meno di tentare
gli uomini, perché non farlo, o fallire, sarebbe la tua fine.”
“Credi che lo
abbia cercato, un modo per fare altro?” sibila Zexion, e scaglia il camice
appallottolato il mare.
Non è un gran tiro. Il
vento lo cattura subito e l’indumento si spiega, ondeggia trascinato
dall’aria e, alla fine, cade in acqua, vicino alla riva.
“Dimmi che sono
un pazzo, Luxord. Dimmi che non avevo voglia di pensare ad altro, che non sono
stato capace di fare niente di meglio, che ho sbagliato, che ho sognato. Oppure
sta zitto, se preferisci. Ma non dirmi che siamo in questo casino solo perché
non potevo fare altro. Non azzardarti a giustificarmi. Non voglio
la tua comprensione.”
Non ha tentato di immaginarsi la reazione di Zexion a quello che ha detto, ma l’animosità della risposta lo stupisce.
“Cosa vuoi,
allora? Onestamente, non ti capisco. A quanto ne so, non ti sei degnato di
incontrare nessuno degli altri che sono passati qui.”
“Ho voglia di
giocare a scacchi. Vexen è un giocatore tremendo e Lex... con lui riesco sempre
a fare il penultimo errore.”
“Insomma, ti
sentivi solo.”
Zexion si allunga
verso il piatto colmo di frutti, ne raccoglie un paio e ne lancia uno a Luxord.
“Questi li porti
con te. Sono un’ottima fonte di proteine e zuccheri.”
Un frutto curioso. Le
dimensioni e la forma generale sono quelle di una mela, ma ha la buccia
lievemente traslucida, come quella di un chicco d’uva. Ed è blu.
Non ha mai visto
nulla di simile.
E’ certo che questo,
almeno, sia concreto. Un vero frutto, non un’illusione, non una simulazione.
Lo gira fra le dita,
lo preme leggermente con il pollice. Non è molle, come suggerisce l’aspetto. Ha
una consistenza compatta, proprio come quella di una mela.
Certo, ci sono molti
Mondi e moltissime specie di frutta, ma non ricorda niente del genere originario
di questo pianeta e, a quanto ne sa, la gente di Oblio è esentata dalla ricerca di eventuali forme di vita utili
nei mondi alieni.
Ma, naturalmente, loro
non hanno bisogno di cercare nuove forme di vita.
Tutto è chiaro,
adesso. Così evidente, così semplice e logico, che Luxord si vergogna per non
essere stato capace di capire immediatamente. Per avere addirittura cercato risposta
a quella che non è neanche degna di essere una domanda.
“Quei cloni non
sono vivi.” sospira Luxord “Questo sì. E’ la ragione per cui non puoi muoverti
contro Marluxia. Non puoi neppure mettere a rischio la sua esistenza.”
“Vedi che
capisci, quando ti impegni? Marluxia non è solo in grado di manipolare la vita
preesistente, può generarla partendo dagli elementi base, lo ha provato. Sono
solo organismi semplici, è vero, ma sono vivi. I nostri cloni no e, finora, nessuno dei
nostri tentativi di far nascere nobody in un modo meno incerto, devastante e
incidentale di come siamo nati noi, ha avuto successo. La vita è la
questione primaria e la vita la controlla Marluxia. Senza di lui, andremmo
avanti come prima, lungo un vicolo cieco, a caccia di qualcosa che, prima o poi,
finirà per distruggerci.”
“Allora perché
non vi aiuta?”
“Lo fa, almeno è
convinto di farlo. Ma non ha esperienza. Non farti ingannare dalla sua
sicurezza. Quello che ha ottenuto è notevole, perché anche la più elementare
manifestazione del suo potere è incomparabilmente più complessa di qualsiasi
espressione del mondo non vivente, ma non basta. Dovrebbe imparare quello che
può fare, invece di intrigare. Non sarà mai in grado di padroneggiare appieno le
sue capacità, se non sa come applicarle e la conoscenza empirica non basta, nel
suo caso meno che per chiunque.”
“Eppure, non mi
sembra così disinteressato.”
“Non lo è
affatto, ma non si fida di noi. Marluxia è stato un altro sbaglio, il peggiore.
Forse il nobody più importante mai apparso, colui che avrebbe potuto risolvere
il nostro principale problema, ma proviene da un pianeta retrogrado. Un
ragazzino ignorante e arrogante, che si rifiuta di capire cosa è e cosa potrebbe
fare, con il potere più straordinario dei Mondi. Dovevamo porre rimedio. Vexen
aveva chiesto di occuparsene e nessuno interferisce con le decisioni altrui, se
non ne è coinvolto. Così, nessuno ha contestato la sua scelta.”
“Marluxia lo sa?”
“Fin troppo
bene. Marluxia ha molto chiara la sua importanza, ma è impaziente,
indisciplinato. Infantile. Si preoccupa di cose senza importanza e di altre cose
che dovrebbe lasciare ad altri. E’ convinto che nessuno ha nulla da insegnargli
ed è testardo, persino più di Xemnas, abituato a dare ordini, non a obbedire.
E noi lo abbiamo lasciato proprio a Vexen. Eravamo così sicuri che per un nobody
le emozioni personali non contassero... e non lo avevano fatto, sino a quel
momento. Orgoglio, voglia di libertà, indipendenza, rabbia, tutte quelle cose
che non avrebbero dovuto esistere, o esistere solo come ombre inconsistenti...
Errore, ancora! Quando me ne sono reso conto, era troppo tardi. Marluxia era già
nostro nemico.”
“Quindi, ci troviamo esattamente in mezzo a un brutto carattere e a un’ostinazione. Che fortuna.”
Zexion fa una risata che sembra quasi un colpo di tosse e scrolla la testa.
Una raffica di vento
porta odore di un mare sconosciuto.
Il castello replica
ambienti partendo dalle memorie. Quindi, è il ricordo di qualcuno. Cammina nella
mente di un’altra persona. Si chiede se è questo che prova Zexion quando invade
i pensieri altrui.
Luxord ne dubita. Troppo
semplice immaginare qualcosa di così figurato.
E’ certo di sapere di
quale pianeta si tratta.
“Così, hai dato
a tutti una scelta fra una strada incerta che promette di farli tornate umani e
una altrettanto incerta che garantisce che resteranno come sono. Cosa pensavi
avrebbero scelto?”
“Il problema è
proprio che non c’è una scelta unanime, non ti sembra? C’era la possibilità che
accettassero. Che Marluxia accettasse di aspettare, che Xemnas accettasse una
soluzione diversa dalla sua.”
Lo sperava.
Anche se Luxord sa con certezza che lo scienziato non lo dirà mai. Come non lo dirà lui, come nessuno dirà mai niente di simile, se non nascondendolo sotto la parola possibilità.
Anche se tutti loro vivono solo sul filo della speranza.
Si augura che Zexion non raccolga i suoi pensieri. Sostiene di non potere leggere la mente di un nobody umanoide non consenziente se non con la violenza, ma questo non comprende i pensieri sfuggiti e Luxord ha molti dubbi sulle sue capacità di controllo. Fino a pochi anni prima, i lettori della mente erano relegati fra i personaggi dei romanzi e delle favole.
Sì, come molte altre cose.
Guarda il giovane di fronte a lui, che ostenta nel volto e nei colori la sua differenza.
Sul suo pianeta non avrebbero certo considerato umano Zexion, ma sul suo pianeta non avrebbero considerato umano nessuno di coloro che, nei Mondi, si definisce tale. Sempre ammesso che ne avessero mai riconosciuto l’esistenza.
Soltanto loro erano umani. Tutti gli altri sarebbero stati, al massimo, strane cose. Alieni.
Sono uguali, tutti. Gli abitanti di ogni pianeta di ogni universo. Resi identici dall’ossessione per le definizioni, che ognuno usa come vuole, dà a esse il significato che preferisce, che ritiene opportuno, che serve.
E Luxord, adesso, è seduto sulla sabbia di un qualche sconosciuto mondo, di una qualche sconosciuta dimensione, nemmeno fosse impegnato in una scampagnata, in compagnia di una creatura aliena.
Lui stesso è diventato uno degli alieni.
“Eppure, proprio tu mi hai confermato che non ci hai mai creduto.”
“Ma perché a tutti
importa tanto quello in cui credo?” sbotta Zexion “Dovevo provarci comunque. Tu
dimentichi una cosa. Io creo illusioni.”
“Lo so.”
“Sì, lo sai, ma
forse non ti è chiaro che significa. Credi che voglia dire far vedere i mostri
che escono dall’armadio? Quelle sono solo allucinazioni. Significa che Axel ha
spinto Roxas a sfidarmi, ma lui non lo fa. Nessuno lo fa. A volte, faccio
credere alla gente che mi circonda che ho sempre, necessariamente, ragione. Che
sono infallibile, imbattibile, onnisciente. Che... ascoltarmi è la sola strada,
perché non posso sbagliare.”
“Non è così?”
“Se lo fossi, il
trucco funzionerebbe sempre. Ma, se lo fossi, non avrei neppure bisogno di
trucchi. Questa volta, quando davvero era importante, è andata male. Non so cosa
fare, Luxord. Non ne ho idea. Quello che faccio mi sembra inutile e se non
faccio niente è ancora più inutile. Non posso lasciare andare le cose e non so
come trattenerle. Temo di avere esaurito tutte le alternative. Forse non farò
niente e quando mi deciderò, sarà ancora tardi.”
Luxord ha ancora il
frutto blu in mano.
Lo fiuta, ma, per
quanto lo riguarda, è inodore.
Gli dà un morso
esitante, lecca il poco succo che ne esce. La polpa è di un tono di azzurro più
chiaro. Dolciastra, asciutta e un po’ pastosa. Gradevole, ma, al momento, non ha
voglia di mangiare e abbandona la mela a terra.
“Perché non ha
funzionato, questa volta?”
“Perché la
nostra realtà quotidiana è rappresentata da una condizione delirante cronica e
questo implica l'incapacità di valutare oggettivamente il complesso illusorio
che dà origine al delirio. Il delirio stesso è strutturato in modo coerente,
con incorporate tanto di spiegazioni per risolvere ogni situazione conflittuale
che finirebbe per contraddirlo. Ogni evidenza contraria, anche se
sperimentata, viene automaticamente classificata come riflesso di un ricordo,
condizione che non solo non nega l’affermazione della nostra incapacità emotiva,
ma, anzi, la rafforza. Quindi, diventa parte della contesto che dovrebbe
invalidare. E quello è convinzione e la convinzione non la combatti con la ragione. E’ come
combattere un incendio chiedendogli gentilmente di spegnersi.”
Il vento si è fatto
più intenso, le nubi addensate. All’orizzonte, torreggiano pesanti nembi color
porpora.
Aria di tempesta.
Questa, almeno, è come
quella del suo mondo.
“Avrei potuto
dirti subito che non avrebbe funzionato.”
“Avrei tentato
lo stesso. Non sono mai stato bravo ad ascoltare consigli. Ho riattivato la
vecchia base, quella sulla Terra del Crepuscolo. Tutto quello che abbiamo
imparato in questi anni, ogni risultato che ognuno di noi ha ottenuto e ottiene,
mi affretto ad archiviarlo anche là. Le scoperte mediche di Vexen, quelle
astronomiche di Saïx, la musica di Demyx, i tuoi racconti, la mia biblioteca,
tutta la nostra storia. Ma non è solo per salvaguardare le nostre ricerche. E’
un eventuale rifugio. La usavamo prima che ti unissi a noi, ma sai dove si trova
e come accedervi. Se non sei sicuro, chiedi a Roxas.”
“Zexion...”
“Sì, lo so, non
serve. Tu prova lo stesso.”
Alla fine, sono sempre
lì. Davanti a quell’ostinazione che lui non comprende e Zexion non può
abbandonare. Che, immagina, per il giovane non è neppure ostinazione.
“Mi hai mai
creduto?”
“Ho agito in
seguito a un tuo intervento.” risponde Zexion, mordendo la mela blu.
“Per
confutarlo.”
“Per confutarlo,
sì. E’ già una dimostrazione che ho sempre considerato con serietà i tuoi
avvertimenti. Li considero ancora. Ma crederti, no.”
“Zexion, non è
un trucco, come quando Roxas ha combattuto con Xemnas. Quando sei in
navigazione, devi tenere conto di tutte le forze che agiscono sul corpo del
vascello. E’ lo stesso con il tempo. Se sei troppo vicino a un evento, puoi
anche virare, ci finirai dentro comunque, perché sarai già stato catturato dal
suo campo gravitazionale, oppure l’inerzia residua non ti permetterà di
allontanarti abbastanza da non essere catturato. Noi siamo già nel campo di
quell’evento.”
“Tutti i giorni, noi
pieghiamo ogni aspetto dell’universo con la nostra volontà. Perché il tempo
dovrebbe essere diverso? E’ vero, virare non serve, ma posso mettere una
barriera sulla rotta della nave. Posso farla esplodere. Certo, non è una soluzione molto intelligente, ma, come vedi, ci
sono modi per non proseguire su una rotta che credi inevitabile. Dici che è
inutile, che solo Roxas, forse, supererà questa crisi. Va bene. Poi? Cosa
farà, da solo, in un universo che lo cercherà unicamente per distruggerlo? I
problemi che avrà saranno quelli che abbiamo noi. Gli ho dato le armi che avevo per permettergli di sopravvivere. Non ho avuto modo di
insegnargli tutto quello che avrei voluto, ma ho fatto del mio meglio con il
tempo a disposizione. Quindi, come vedi, ho rispettato la mia parte. Chiedermi
di crederti... è davvero pretendere troppo. Dici che è inevitabile. Io dico
che fino a quando non sarà successo, nulla è certo.”
“Cerchi ancora
di salvare qualcosa che è già finito.”
“Io vi fiuto, Luxord,
ed è odore di vita. Vi tocco, vi sento, vi vedo. Non riesco, in
nessun modo, pensare come se fosse tutto distrutto. Non riesco a credere che
siete già morti, non quando i miei sensi dicono che esistete, ora, qui. Noi non
siamo morti.”
“E’ solo
un’illusione, un’eco inversa. Qualcosa che si diffonde prima dell’urlo.”
“Un’eco non è
un’illusione. Non parlare a me di illusioni. Io non sono soggetto alle
illusioni.”
E tu non parlare a
me di tempo.
Ma non ha senso,
dirlo. Non cambierebbe niente.
Non ha senso neanche avere insistito fino a questo momento. Immagina sia solo per l’abitudine del giocatore a non volere perdere, neppure quando si tratta di una discussione che non vuole neppure vincere.
Luxord si inginocchia sul bagnasciuga. Le onde rotolano sulla spiaggia e quando scivolano di nuovo al mare, lasciano veli di schiuma sulla sabbia.
Immerge le mani nell’onda montante.
L’acqua entra nei guanti. Quando li sfila, la pelle è ricoperta di grani nerastri, ruvidi come frammenti di smeriglio, come schegge di ossidiana.
“Come mai questo scenario? Solo per il panorama?”
“Non ti piace?”
“E’ freddo.”
“Tu hai freddo,
Luxord. Pensa che è piena estate.”
Con un cenno del capo, il giovane indica la scogliera. E’ alta e ripida, e la
roccia sembra composta da una serie di colonne strette assieme, come le canne di
un organo. La scalinata che la
risale è scavata nella pietra viva ed è delimitata da un corrimano di elementi
di quarzo grigio e scolpito, come i pali nel mare.
“Quella scala
porta a un sentiero che attraversa l’altopiano e finisce su un fiordo. La c’è
una casa. Poi, il fiordo si inoltra nella costa e forma un lago coperto di
canneti.”
“Anche
tutto quello è replicato?” chiede Luxord.
“Non saprei. Non
ho seguito il sentiero. In teoria, le repliche proseguono con la memoria di
coloro che le generano. Esistono nel momento in cui ci pensiamo. Questo ambiente
è solo un esperimento. Volevo capire se funziona anche con me.”
“E funziona?”
“No. Semmai,
funziona anche meno, adesso.”
Appoggia la mani a
palmi allargati sulla sabbia bagnata.
Acqua e limo scorrono
lungo le sue dita.
Ogni volta che le onde
frangono e si ritirano, sprofonda un po’ di più in quel fango scuro.
E’ viscido, freddo, un
po’ adesivo.
Ha la sensazione di
essere risucchiato.
“A me sembra
tutto molto realistico.”
“Il problema non
è quello che sembra a te. E’ quello che so io. Ci sono troppe cose che rivelano
la simulazione.”
Luxord si porta un
dito alla bocca.
Nemmeno il sapore è il
sapore del mare che conosce.
“Perché ti sei
dato tanto da fare per Roxas e... anche per me?” gli chiede Zexion, in tono
colloquiale.
Luxord si rialza. Gli sembra di sentire l’umidità penetrata persino attraverso gli
strati di abiti impermeabili e termici anche al gelo a all’acqua del pianeta
nero.
Si siede su uno degli
scogli. Uno abbastanza lontano dal mare da essere asciutto, fuori dal raggio degli schizzi di acqua salata portati dal vento.
“Non lo hai
capito? Che razza di telepate sei?”
“Sei un amico,
Luxord. Considerala una cortesia, quella di darti la possibilità di dirmelo di
tua spontanea volontà.”
Il tono è scherzoso,
ma non così tanto per cui Luxord non valuti seriamente l’avvertimento.
E’ un amico, certo.
Fino a quando non gli converrà essergli nemico.
In fin dei conti, per
chi ha causato la fine di miliardi di esseri viventi, che differenza fa uno in
più o in meno?
Non è sicuro,
presumere di sapere come si comporterà.
“Dovevo pur
occupare il tempo da qui alla fine.” risponde il giocatore.
“Vero. Che
altro?”
“Né tu né il
ragazzo mi avete mai fatto nulla di male.”
“Sei convinto di
morire. Cosa ti importa di quello che succede a Roxas o a me?”
“Morirò in ogni
caso. Non ho motivo per volere morti tutti, se so che per altri ci sono
possibilità.”
“Lo stesso
principio per cui tu non usi i tuoi poteri? I tuoi veri poteri, non quei trucchi
da baraccone che fai passare per tali.”
“Lo sai?”
“Che forse
potresti riportare il tempo a prima dell’esperimento? L’ho sempre sospettato.
Non sai barare così bene come credi. Poi, durante la battaglia di Kā’h’onua, hai
alterato i parametri temporali di salto nel passato di una delle navi. A quel
punto, ne ho avuto la prova.”
“Una mia
disattenzione.” ammette Luxord.
Il giovane annuisce.
“Sì, dovresti
stare più attento. Anche Xigbar era presente e le sue capacità sono le più
sintonizzate con le tue. La prossima volta potrebbe non essere tanto distratto.
Anche se, presumo, spostare indietro il tempo di dieci anni sarebbe un po’
diverso che spostarlo di qualche istante.”
“Non so.
Sollevare un libro o una montagna non è la stessa cosa. Non sono neppure sicuro
che potrei riuscirci, anche se provassi, ma la possibilità esiste, sì. Non lo
hai detto a nessuno?”
“A cosa sarebbe
servito? Nessuno ti avrebbe mai convinto a recedere dalla tua decisione e se
Xemnas sapesse quello che saresti in grado di fare, volendo, cercherebbe di
obbligarti e lui sa essere molto testardo, quando si mette in testa qualcosa.”
“Suppongo di
doverti ringraziare.”
“Per moltissime
cose, ma non per questa.”
Zexion mordicchia
pensierosamente la sua mela.
“Tutti devono la
loro esistenza alla coscienza di un nobody. Sono fortunati che sei tu ad avere
un simile potere, Luxord.”
“Adesso credi
nella fortuna?”
“Credo nella
possibilità
di contingenze favorevoli a un certo numero di esseri viventi. Visto che questa
contingenza è favorevole a tutti gli esseri viventi, non considero inappropriato
chiamarla fortuna.”
“Tu che faresti
al posto mio?”
“Non so. Dovrei
trovarmi o essermi trovato nella tua situazione
per darti una risposta con un qualche senso.”
“Non lo faresti
neppure tu. Non sarebbe logico farlo.”
“Sarebbe logico
esattamente come non farlo. La logica non c’entra niente, in questo caso,
Luxord. E’ una questione di scelta e tu scegli ogni giorno di non fare qualcosa.
Adesso, per favore, mi spieghi perché?”
Questa è proprio una delle cose di cui Luxord farebbe volentieri a meno di parlare.
Per i suoi gusti, è un po’ troppo simile al volere attirare l’attenzione su di sé,
mentre lui ha fatto di tutto per restare sempre in disparte, sempre quello
che non agisce, che non conta, che è ignorato, sperando che bastasse per scivolare fra gli eventi senza esserne coinvolto. Ma, tanto, ha finito solo per essere uno di coloro per
cui gli eventi si muovono.
Nascondersi ancora non ha proprio senso, se mai lo ha avuto.
Comunque, dubita che Zexion gli permetterà di cavarsela senza aver ottenuto una risposta.
“Ricordi quella
volta che Demyx ha cercato di interferire con le piogge, per controllare le
condizioni meteorologiche?”
“Molto bene.” risponde lo scienziato “Sono uno di quelli che ne ha risentito di più.”
“Esatto. Il suo intervento ha alterato gli schemi climatici planetari e questi hanno generato un colpo di rimbalzo che si
è ripercosso su quelli di noi in qualche modo legati a un elemento che fa parte dell’equilibrio del mondo.
Tutti hanno patito emicranie e disorientamenti e, presumo, gli affetti su di noi hanno causato un colpo di rimbalzo su di te. Le conseguenze di un piccolo intervento sull’acqua
di una piccolissima zona di un unico mondo si sono manifestate con effetto valanga e solo io, Xigbar e Saïx ne siamo stati quasi risparmiati.”
“Brutta cosa. Io,
almeno, sono solo caduto in coma per tre giorni.”
“Zexion, io
interferisco con il tempo. Non so quale potrebbe essere il colpo di rimbalzo e
quanto esteso, e non sono disposto a fare la prova. Non ho un controllo
così completo delle mie capacità.”
“Sei solo troppo
giovane e disinteressato. Non hai esperienza e non ti applichi a sufficienza. E
sei stato quello per cui l’adattamento alla nostra condizione è stato il più
difficile. Onestamente, mi stupisco di quanto tu sia equilibrato.”
“Comunque sia,
posso conoscere le linee temporali che si dipartono dal presente con tutte le
loro relative probabilità di avverarsi, ammesso che vedere sia il termine
giusto, ma non è un processo continuo e costante. Qualche volta capita
spontaneamente, ma la maggior parte delle volte devo sforzarmi. Ma c’è un’altra
cosa. Le linee temporali non sono equivalenti, né lineari. Ogni singola linea si
dirama a ogni istante di progressione e ogni diramazione si moltiplica a sua
volta. Più esse sono probabili, più sono definite e più la mia possibilità di
calcolo si estende nel futuro, comprese le loro varie diramazioni, che, a loro
volta, possono essere più o meno probabili, quindi chiare, o confondersi
subito nella nebbia. Adesso, la mia azione ha fatto sì che imboccassimo
una linea che, al momento in cui ti ho portato Roxas, era estremamente
improbabile, quindi unitaria e molto indefinita. Naturalmente, adesso è
diventata più probabile, il che significa molto più chiara, con un intero
nuovo vaglio di possibilità che prima non vedevo, perché erano probabilità
infinitesime di una probabilità molto bassa. Ho inserito un’incognita che non
avevo potuto prevedere. Capisci quello che intendo?”
“Capisco, sì. La
linea che permetteva a Roxas di sopravvivere era tanto improbabile che, allora,
non potevi valutare quali sarebbero state le sue possibili conseguenze e le
eventuali diramazioni, né come fare ad avverarle. Significa che non puoi sempre,
forse mai, inserire nelle estrapolazioni primitive l’interferenza dovuta ai tuoi
interventi. Quindi, quando hai agito, portando Roxas da me...”
“Ho tentato, sperando
di fare la cosa giusta, esattamente come fa chiunque. E’ stata una scommessa con
il destino. D’altro canto, il passato è determinato. Posso dirti cosa sarebbe
successo a imboccare una strada piuttosto che un’altra, però è solo una quella
che si è concretizzata. Il tempo ha una certa... elasticità. Risalire il passato
di qualche istante per cambiarlo è possibile, ma diventa più difficile man mano
si torna indietro. Temo che l’elasticità abbia un limite e forzarla... si
finirebbe solo per frantumare il tutto. Se poi è vero che siamo nati dal vostro lavoro, se lo impedissi come potrei esistere per annullare l’evento che mi ha generato?
Ma, se anche fosse possibile modificare
gli eventi per imboccare una strada che non abbiamo preso nella linea originale, non so cosa potrebbe succedere e,
questa volta, non per mancanza di controllo, ma per natura stessa del tempo. E la
cosa peggiore è che non so quante altre cose non conosco. Come vedi, il mio
potere è, alla resa dei conti, una fregatura.”
“Continui a
sfuggirmi, Luxord. Conosco benissimo la ragione concreta del perché non usi il
tuo potere. Quello che voglio sapere è perché prendi questa decisione. Voglio le
ragioni tue. Perché tieni alla sopravvivenza dei Mondi, anche se per te non fa
alcuna differenza che sopravvivano o meno?”
“Perché non
dovrei?”
“Perché
dovresti.”
“Che beneficio
mi porterebbe distruggere tutto fin dall’inizio?”
“Quale
svantaggio ti porterebbe, visto che tu stesso sei convinto di morire fra poco.”
Luxord si mette a
ridere apertamente e scuote la testa.
“Se ti dico che
non voglio farlo, ti basta?”
Lo scienziato annuisce
appena.
“Allora ho
ragione. Vedi, nemmeno noi siamo solo logica e calcolo, per il semplice fatto
che si arriva a un punto dove non c’è alcuna logica né alcun calcolo e la
differenza è fatta solo dalla nostra volontà. E’ questo che ci rende persone. Sei la
buona fortuna dei Mondi, Luxord.”
Dovrebbe sentirsi
lusingato. Nella voce di Zexion, per una volta, risuona un sincero rispetto. Non
il freddo disinteresse o la caustica ironia a cui è abituato.
Poi l’espressione di
Zexion cambia in una di pura voracità.
“Come ci riesci?”
mormora “Sei convinto di sapere quando morirai, eppure...”
Ha fatto come hanno
fatto tutti. Si è adattato.
La vita di un nobody è
come camminare su una serie di galleggianti alla deriva su un mare in tempesta.
Instabilità su tutto. Un mondo instabile, un’esistenza instabile. E’ solo un
continuo, inarrestabile adattarsi a condizioni che non perdurano più del tempo
necessario a essere percepite. A volte meno.
Manca la sicurezza che
qualcosa vada come programmato, come previsto, come considerato. La semplice
certezza che l’istante seguente si possa riconoscere il proprio corpo, il
proprio pensiero, sé stessi.
E’ stremante vivere
in un continuo stato di allerta, sempre pronti ad affrontare la prossima
emergenza, il prossimo cambiamento, con la sola certezza che emergenze e
cambiamenti avverranno, ma nessuna idea di quali e come.
Manca la monotonia,
tranne la monotonia dell’imprevisto.
Deve essere questa
l’origine dell’ossessione di controllo che pervade tutti loro, ognuno a suo
modo. La smania di conoscere e dare ordine, per avere un punto fermo, per quando
esiguo. E il problema è che ognuno, a suo modo, si rende conto di quanto ogni
forma di controllo e prevedibilità sia, in realtà, una semplice illusione.
E’ la vera misura
della loro disumanità questa, perché, nonostante tutto, resistono.
Alla fine, non crede
proprio di fare qualcosa di diverso da chiunque altro.
Cosa cambia?
La sola certezza che
ha è che il traguardo si avvicina e a questo avrebbe volentieri rinunciato. Ma
la strada per arrivare a quel punto, quella è tutta un’incognita. A non sapere, avrebbe
solo un grado di indeterminazione in meno.
Non abbastanza per
fare differenza.
Ma qualcosa di diverso
c’è. Lui non ha una realtà. Ne ha tante da non poterle contare. Sempre che siano
realtà e non i postumi di una brutta ubriacatura.
Il suo sistema di
controllo è l’indifferenza. Incominci con l’ignorare una realtà ipotetica, poi
due, poi infinite. Alla fine, l’indifferenza non è più nemmeno qualcosa da
indossare. E’ diventata la tua pelle.
Forse vive solo di
energia residua, l’inerzia dell’anima. E’ ancora troppo umano per rinunciare
alla sua stolida prosaicità ed è già troppo nobody per stupirsi.
Osserva l’universo con
lo spirito del turista che visita qualche ignoto paese, senza lasciarsi
coinvolgere. Con l’indifferenza, ha ottenuto un punto di squilibrio diverso
rispetto a tutti. Fuori, non dentro di sé.
Per molti suoi
compagni, l’incubo è in sé stessi. Lui, invece, si sente semplicemente un
naufrago in uno strano mondo.
“Ne sono
convinto, sì, ma fino a quel momento sono vivo. Dovrei mettermi sul balcone a
parlare alla luna? Sarei poco originale e sprecherei solo il tempo che mi
resta.”
“Io ho paura,
Luxord. Vorrei chiamare qui Roxas e Lex e Xemnas, usarli come come scudo per
tenere lontano tutti quelli che mi minacciano, mentre mi metto al sicuro, e se
fossero distrutti per questo, ne varrebbe la pena. Supplicherei, striscerei ai
piedi del mio nemico. Venderei uno di voi, o anche tutti voi, e non escludere
che non lo farò, all’occorrenza. Vorrei fuggire nel più lontano degli universi
e continuare a correre, lontano da tutti e tutto, per nascondermi dove nessuno
possa trovarmi. Io voglio vivere. La mia vita è stata troppo breve perché la dia
via senza rimpianto. Non basta, non è neppure vicina a bastare.”
“Allora fallo.”
“Scusa?”
“Vattene. Puoi
ingannare chiunque. Puoi fingere la tua morte. Puoi nasconderti. Puoi... poi
provare a fingere di essere umano. E se anche non puoi riuscirci, puoi
tentare.”
Non funzionerebbe, lo
sanno entrambi.
Zexion può fingere,
certo, ma non può fingere per sempre. Anche lui si stanca e anche lui esaurisce
le forze e, a quel punto, la maschera cade.
“Se proprio tu
sei certo che non possiamo esulare dal tempo, ora mi dici una cosa simile?”
chiede Zexion.
“Sto cercando di
ragionare come fai tu. Onestamente, non mi riesce troppo bene.”
“Ma è la prima volta
che ti sento ammettere la possibilità che io sfugga al mio destino.”
“Forse, a furia di
frequentarti, comincio a crederti. Oppure, sei talmente convinto di
potere determinare gli eventi che, per te, è davvero così.”
“Per te, invece, è
bastato portarmi Roxas per metterti l’animo in pace e dirti che hai fatto tutto
quanto era in tuo potere? Dimmi una cosa. Quando hai visto, o
sentito, o calcolato, o come vuoi chiamarlo, che lui, forse, aveva
un possibilità, ci hai creduto? Tu che dai tanta importanza al credere, hai mai creduto, e credi, che possa sopravvivere? Credi in quello che hai
fatto?”
Credere? In cosa?
In una possibilità
così esigua da essere quasi inesistente?
Una possibilità che,
anche adesso, dopo essere state coltivata, può definire al massimo, a essere
davvero ottimisti, estremamente improbabile?
Luxord scuote la
testa.
“No.”
“Allora
perché me lo hai portato?”
“Perché...
non scegliamo le carte con le quali giocare, ma quello che facciamo con quelle
carte è una scelta nostra.”
Zexion gli sorride.
“Sei un truffatore, Luxord, e un bugiardo, e menti anche con te stesso. Vale la pena
tentare, sempre, qualunque siano le possibilità, perché, considerate tutte le
alternative, non c’è niente di meglio da fare. Lo sai benissimo. Sai che il
destino lo facciamo noi. Ti sei rivolto a me proprio perché ero il tuo strumento
per modificarlo. Credere non ha importanza. La logica non ha importanza.
Rassegnarsi va bene per quelli che muoiono nel silenzio e nell’oblio, incapaci
di rinascere. Non per noi, per nessuno di noi. Nemmeno per te, o non saresti
qui.”
Che può dire? E’ vero.
Anche questa volta,
non c’è logica per quello che ha fatto. C’è solo una scelta. C’è solo lui.
“Se
non fosse stato così, mi avresti fatto fare la fine di Naminé, immagino.”
“Probabilmente.
O ti avrei ucciso. Dipende dal livello di utilità.”
Zexion si butta
pesantemente a terra di schiena, sollevando uno sbuffo di sabbia.
“Quindi, la tua
soluzione, per me, è scappare.” esclama.
“In certi casi,
è la mossa migliore.”
“Sto cercando di
insegnarlo anche a Roxas. Che arrendersi o scappare è una scelta.
A volte, la più redditizia.”
“Non è solo
Roxas che deve convincersene. Ricordalo anche tu.”
Zexion non ribatte.
Qualcosa grida, in
lontananza. Un suono animalesco. Organico. Vivo.
Luxord solleva lo
sguardo.
Due grosse creature
volteggiano in cielo, in rotte circolari. Sono troppo in alto per vederle in
dettaglio. Sono solo sagome nere contro le nuvole grigie. Non sbattono le ali e
sembrano sostenute dal nulla. Ondeggiano come
aquiloni.
Si ritrova a
osservarle, cercando inconsciamente di immaginare di quanto si sposteranno il
giro seguente.
Solo simulazioni.
Parti
di una simulazione. Ma sono così determinati nel loro volo. Così indipendenti
nella loro esistenza fittizia.
Come gli altri
animali, che brulicano nelle alghe e corrono sulla spiaggia.
Simulazione. Una simulazione di pianeta. Un’idea di mondo, freddo, desolato e tempestoso.
Realtà. Il freddo che sente è vero. I brividi sono veri.
L’esistenza temporale di queste cose rivelano la loro immaterialità, ma i sensi urlano altrimenti.
Le informazioni afferenti si intrecciano in chiasmi troppo complessi per essere risolti. Sapere e provare si contraddicono e lui non è Zexion, non trova coerenza tra quello che sa e quello che prova. Non sa trovare le strade giuste nel territorio nebulosi dei sogni e delle illusioni e delle percezioni.
Comincia a perdere di vista la linea che separa le fantasie dalla realtà, cosa è vero e cosa è vero solo per lui.
Ammesso che una simile differenza abbia senso, in un universo che è il regno incontrastato del relativismo.
E questi animali esistono nel territorio di mezzo.
Forse, una volta che si raggiunge sufficiente complessità, una simulazione smette di essere tale e ottiene vita autonoma. E’ un po’ quello che è successo a loro e non ha senso credere che quello che è già capitato non può capitare di nuovo. Non ha senso negare quello che esce dai suoi schemi abituali, o arrendersi ai pregiudizi dei Mondi.
Guarda Zexion. Non si
è mosso, la mela appoggiata al torace imprigionata mollemente fra le dita.
Potrebbe dire
che il giovane si sia addormentato, se non avesse gli occhi aperti e lo stesse
fissando.
“Non mi hai detto
perché tu lo fai.” mormora Luxord.
“Perché mi hai
chiesto di farlo.” la voce di Zexion è lenta e assonnata. Distratta.
“Non mi credi,
quindi perché ti sei preso tanto disturbo per Roxas?”
“Se lo domandano
in tanti. Tu sei il solo ad avermelo chiesto apertamente. Fino a questo momento,
le ipotesi più accreditate sono che l’ho fatto per assicurarmi una guardia del
corpo, oppure perché voglio mettere le mani sul trono e Roxas è il solo che ha
qualche speranza di tenere testa a Xemnas.”
“E la risposta
giusta?”
“Quella che
hanno sentito tutti. Dalla mente di Roxas c’è la possibilità della nostra
salvezza.”
“Una volta
ottenuto quello, potevi anche lasciar perdere il ragazzo. Invece, hai continuato
a occupartene.”
Tutte le espressioni
che Zexion ha mostrato fino a questo momento, finte o vere che siano, si
ritirano dal suo volto, dal suo corpo, dalla sua postura. Assorbite, come
l’acqua è assorbita dalla sabbia quando l’onda è passata.
Luxord ha ancora quella
sensazione di non riconoscimento, come prima, appena arrivati su questa
spiaggia. Anche se adesso c’è immobilità, invece di attività nevrotica. Ma è
altrettanto straniante.
Sospetta che,
questa volta, ha fatto una domanda inutile. Spera solo di non avere
inavvertitamente superato anche un qualche bizzarro limite.
E’ una sorpresa
sentirsi rispondere.
“La figlia di
Ienzo è morta a due anni come diretta conseguenza delle azioni di suo padre.”
dice Zexion, la voce estranea quanto la sua espressione “Una cosa nera, che fino
a qualche minuto prima aveva un nome e un’anima, strisciava trascinandosi dietro
gambe simili a tentacoli sfilacciati. Tendeva le mani, come quando chiedeva di
essere presa in braccio, ma quelle mani erano diventate zampe palmate, con
artigli come uncini di ferro. Non ho più voluto ricordarla, così. Non
ho quasi proprio più voluto ricordarla, in realtà. Ora penso a lei e non provo
nulla di diverso dal pensare a una qualsiasi delle innumerevoli persone che ho
ucciso da quel momento in poi.”
“Zexion, Roxas
non è tuo...”
“Lo è, invece.
Non nella carne e nel sangue, ma è mio nella mente e nello spirito. Siamo esseri
nati da un pensiero di vita, da un desiderio di vita. Forse anche i nostri figli
non nasceranno dai nostri corpi, questo non li renderà meno nostri.”
“E, questa
volta, non volevi restare a guardare mentre striscia verso la propria
distruzione?”
Zexion ha gli occhi
immobili e indecifrabili di un rapace notturno.
alieno
Non conosceva nemmeno
il vero significato di quel termine, fino a pochi anni prima. Quando lo ha
scoperto, il suo intero mondo lo ha scoperto con lui, il giorno in cui si è
aperto il cielo, il giorno dell’arrivo delle ombre.
“Luxord,
io ho valutato l’ipotesi di ucciderlo, una volta formulata e formalizzata
la mia teoria.”
Fa la domanda
giusta.
C’è una sola domanda
giusta, questa volta.
Spera che ci sia anche
una risposta giusta.
“Perché?”
“Per forzare la
mano a Xemnas.”
“Non... questa
volta non ti capisco proprio.” ammette Luxord, e la sua voce è poco meno di un sibilo.
“Eppure è davvero
molto semplice. Arrivati a questo punto, per Xemnas è indispensabile la presenza di
un custode. O, perlomeno, è indispensabile alla sua
credibilità. Eliminiamo i custodi, allora. Chi resta?”
“Tu.”
“Lo hai appena
detto, Luxord. Una volta ottenuto quello che volevo, potevo lasciare perdere
Roxas.
Ma, meglio ancora, potevo togliere di mezzo la speranza di Xemnas. Io, d’altra
parte, non ne ho più bisogno. Scomparsi i custodi, rivolgersi a me sarebbe
stata quasi una scelta obbligata.”
alienoalienoalienoalienoalienoalieno
Non ha la pretesa di
capirlo più di quanto vuole farsi capire Zexion stesso.
Non importa quello che
sembra. Conta quello che è e, alla fine, sfrondato di tutti gli orpelli
dell’Apparire di cui si ammanta, è sempre l’ombra che attende in cime alle
scale.
“Però non lo
hai fatto.”
“Incertezza del
risultato. Troppe incognite negative. Tanto per cominciare, avrei dovuto provvedere anche alla
soppressione di Sora e quello non è un obiettivo facile. Ma, soprattutto, non l’ho
fatto a causa di Xemnas. Non posso prevedere con ragionevole certezza cosa
sarebbe davvero in grado di capire o sospettare e le sue condizioni psicologiche
sono estremamente volatili. Te lo ripeto. Non conosco abbastanza della psiche
dei nobody. Quello che so è che in situazioni in cui non vediamo via di fuga, il
nostro meccanismo di difesa è aggressivo e, a quel punto, il livello di
aggressione continua semplicemente a crescere, senza raggiungere il limite di
rottura. Forse questo limite non esiste o, se esiste, è talmente alto da essere
virtualmente inutile, perché successivo al punto in cui rilasciamo completamente
e incontrollatamente la nostra capacità di alterare la realtà fisica. Se Xemnas
si sentisse sufficientemente minacciato, e presumo che la scomparsa del suo
custode domestico verrebbe interpretata come una minaccia, potrebbe arrivare a
misure estreme e nessuno conosce il livello del suo pieno potere. Sommando tutti
questi fattori, il rischio risultante era sufficientemente alto da non volerlo
tentare, superiore alla probabilità che Roxas sia la nostra solo speranza di
sopravvivenza.”
“Allora ci hai
pensato realmente.”
Zexion annuisce con il
movimento meccanico di un automa.
“L’eventualità che lo
facessi c’è stata. E non è neppure una soluzione così impensabile. Non
sono l’unico a cui Roxas non serve, anzi, è un ostacolo. E’ una delle ragioni
per cui deve stare lontano da questo posto. Tranne me e probabilmente Axel,
chiunque altro, qui, prima o poi arriverà alle mie conclusioni e vorrà la morte
di Roxas, così come Xemnas vorrà necessariamente la morte di Marluxia.”
“Non credi che
potresti fermarli?”
“Potrei
convincere Vexen, presumo, ma non Lex. Non se pensasse che la cosa aiuterebbe me. Di
certo, non potrei convincere Marluxia e Larxene e, come ti ho detto, Marluxia mi
è indispensabile. Se dovessi sceglierei fra i due, non so cosa farei.
Le mie attuali decisioni non si basano su presupposti tanto consolidati da avere certezza di come reagirei in caso di imprevisti.
E Roxas è indifeso contro di noi, anche con tutta la sua forza e il suo potere.
Si combatte un nemico solo se lo si riconosce
come tale. Quanto credi sarebbe difficile uccidere un bambino inesperto che si
fida ciecamente?”
Non difficile.
Talmente facile che
persino lui, ben lontano dall’essere l’assassino più abile e che non è mai
riuscito a trovare la volontà di uccidere, riesce a pensare a più di un modo.
Basta le volte che scendono insieme sul campo di battaglia. I guerrieri cadono ogni giorno e non c’è nessuno da incolpare, se non la casualità della guerra.
E anche nulla da scoprire, perché di un nobody morto resta solo, al massimo,
il ricordo in chi lo ha conosciuto e i ricordi sono materia ingannevole.
“All’inizio,
quello che mi interessava di Roxas era solo la particolarità della sua
configurazione mentale. Non mi importava cosa fosse. I Cuori, i keyblade... per
quanto mi riguarda, sono sempre stati solo aspetti dello stato delirante di
Xemnas. La sua utilità come custode per me era, ed è, nulla. Lui,
non mi importava. E, siccome non mi importava, non mi importava di quello che
gli sarebbe successo. Tanto, per me non era diverso da uno di quei crepuscolari
che Vexen ha fatto nascere. Ero solo curioso, ecco tutto. Quando me lo hai
portato, Roxas non aveva ricordi coscienti di Sora. E se avessi reciso anche il
patrimonio mentale inconscio, quello che incatena noi alla vita passata? Così,
ho cominciato a lavorare su quei ricordi. E’ stato difficile ed è stato...
interessante. Potare selettivamente il suo inconscio. Lasciare solo i ricordi
che nutrono la sua curiosità, quelli che sostengono le sue conoscenze pratiche.
Combattere, parlare, leggere. Eliminare il resto, eliminare Sora.
Purtroppo, non potevo fare indiscriminata piazza pulita di tutta quella zavorra
mnemonica e cominciare dal principio. Non si possono spazzare via ricordi come
la polvere da un tavolo. Se mai ho avuto riguardi, è stato solo per paura di
Xemnas e per paura di perdere troppo presto un soggetto così interessante. Una
paura facile da superare. Mi aspettavo di vederlo
dissolversi o degenerare. Invece, diventava di volta in volta più forte, non più
fragile. Alla fine, ho visto nascere una nuova anima.”
“Cosa hai fatto,
allora?”
“L’ho...
coltivato. Molti credono che Roxas sia solo una mia creazione. Non è vero. Io
l’ho solo sottoposto alle giuste condizioni perché sviluppasse al meglio
tutte quelle qualità che lo rendono degno di vivere. Ogni legame disfatto con la
vita di Sora, lo sostituivo con qualcos’altro. Ho insistito perché ci restasse
vicino, che passasse più tempo possibile con ognuno di noi, anche se non capiva,
anche se ora non capisce. Non volevo il riflesso alterato di un essere umano.
Volevo liberarlo per quanto è possibile dalla sua influenza.”
“Per legarlo a
noi.”
“Al mondo a cui
appartiene, alla gente a cui appartiene. Che appartengono a lui. Nessun essere
vivente funzionale esiste solo per sé stesso. Altrimenti, diventa un mostro. Fra
gli esseri umani, Roxas è un’aberrazione. Fra noi, è come deve essere. Non ha
senso che sia la vita di un nemico a determinare la sua personalità. Non ha
senso che sia legato ad alieni ostili, neppure in ricordi non consapevoli,
minato e indebolito da concetti, principi e condizionamenti acquisiti, elaborati
e validi in ambiente e condizioni ben diversi dai suoi. Capisci,
Luxord?”
“Non ne sono
sicuro.”
“Ma mi
credi?”
“Credo che tu
sappia quello che hai fatto. O, perlomeno, credo che tu sia convinto di saperlo.
Date le circostanze, non posso chiedere di più.”
Zexion sospira. Un
suono che potrebbe essere fastidio, noia, esasperazione.
Non è decifrabile, ma,
almeno, è qualcosa.
“Roxas è stata
una completa incognita anche per me. Niente mi ha preparato a un caso simile
perché, a nostra conoscenza, un caso simile non è mai esistito. Tu, forse, non hai
idea dei danni che avrei potuto causargli, né di quello che gli ho fatto. Non
possiamo usare altro che noi stessi per esplorare la nostra natura e ognuno di
noi è un caso unico. E’ stato la cavia dei miei tentativi dilettanteschi di
capire. Ho cercato di risparmiargli il massimo disagio possibile, ma questo non
significa che mi è stato possibile risparmiarlo del tutto.”
è un amico
A volte, è difficile
ricordarlo.
“Non vuoi la mia
comprensione.” mormora Luxord “Ma qualcosa vuoi. Cosa? Cerchi qualcuno che ti
accusi? Cerca da un’altra parte. Io te l’ho portato e io sapevo chi eri e cosa
eri.”
“Lo so.”
“E Roxas non ti
biasima.”
“Biasimarmi?
Avrei potuto legarlo su un tavolo settorio e vivisezionarlo e quello che ho
fatto non è stato molto diverso. Solo perché non lavoro con bisturi e laser come
Vexen, non vuol dire che i miei interventi possano essere meno dolorosi. Si è
ribellato, quando ho esagerato, ma non mi ha mai biasimato per quello. Per
biasimare occorre un sistema di riferimento e il suo sistema di riferimento gli
dice che sbagliato è non cercare la verità, con qualsiasi mezzo
possibile, anche se questo vuol dire soffrire. Lui mi biasima per quello che gli
taccio, non perché gli ho fatto male.”
“Lo fai per
farlo sopravvivere.”
“Lo faccio
perché sono convinto che ne valga la pena, come Ienzo.”
Gli ha già detto
qualcosa del genere, in una situazione del genere.
Dovrei essere
compiaciuto...
Zexion è coerente con
sé stesso. Tutto questo è solo lo sviluppo della condizione iniziata il giorno
in cui lui gli ha portato Roxas.
... per avere
mostrato a un bambino la strada più diretta per la sua distruzione?
No, certo che no. Ha
fatto quello che ha voluto. Che ha considerato appropriato fare.
Non ha niente a che
vedere con quello che gli sarebbe piaciuto fare.
“Ho fatto tutto
perché potevo farlo. Perché non avevo motivo per non farlo. Perché è qualcosa
che non avevo mai fatto prima. Perché Roxas non è la chiave del destino. E’
quella del futuro e il futuro va costruito. Perché se una chiave può chiudere
una porta, la stessa chiave può riaprirla. Vedi quanti perché, Luxord? Scegli
quello che preferisci.”
Il camice alla deriva
rotola sulla spiaggia. L’onda defluisce, lo trascina un po’ indietro, verso il
mare, poi lo abbandona a riva.
Acqua e sabbia lo
hanno sporcato. Lo hanno reso meno bianco.
Non c’è bianco, in
questo mondo. Nero, viola, rosa, un’infinità di grigi. Niente bianco.
Persino la schiuma del
mare non è bianca. Non bianca davvero.
“Sei cambiato,
Zexion.”
Il giovane tenta un
sorriso
tirato, ma ottiene solo una debole smorfia.
Con quello, il velo
mimetico torna al suo posto e davanti a Luxord non c’è più un estraneo.
“Tu come credi
che sia?”
“Complicato.
Molto più di prima.”
“Mi stupisci
sempre, Luxord. Nessuno degli altri ci ha pensato.”
“Eppure, è una
conseguenza facile da prevedere. E’ solo logico che sia così, basta guardare
Roxas. E’ talmente... vitale. Così passionale.”
“Già. Ma quasi
tutti dicono, o credono, che dipende dal fatto che Sora ha mantenuto la sua umanità.”
“Sora ha mantenuto la sua umanità quanto Xehanort, ma Xemnas è il più apatico di tutti noi. Avevi ragione,
Zexion. Non guardano, o non guardano quello che dovrebbero.”
Lo scienziato si
solleva seduto a gambe incrociate e ricomincia a mangiucchiare la mela, con
gesti svogliati.
“Temono tutti
che, tagliando via i ricordi umani, diventeremmo anche più distaccati di quanto
già non siamo. Non è vero. E’ proprio il contrario. Tutte le illusioni sono
cadute. Adesso, così, resta solo la realtà e la realtà è che questo è il mio
mondo, che esisto, che è la mia situazione e che le cose hanno importanza. Non è
più così astratto come prima. Questo lo rende più...”
“Più difficile?”
suggerisce Luxord.
“Più
dannatamente concreto. E sì, difficile. Tanto più difficile. Chi entra qui deve
abbandonare qualcosa. Ero convinto sarebbe stata la mia umanità residua.”
“Eri convinto o
lo speravi?”
“Lo volevo,
invece ho lasciato la mia certezza. La verità è che invidio Roxas. Avrebbe
dovuto essere preparato a continuare il nostro lavoro, non a mordere e
combattere come una bestia. Avrebbe portato una nuova prospettiva, differente,
libera dalle vestigia dell’umanità. Non posso neppure immaginare a cosa sarebbe
stato in grado di pensare perché io, invece, non sono libero e non potrò mai
esserlo davvero, non come lui, perché, comunque, ricordo.”
“Avresti sempre
potuto cancellare le memorie di Ienzo.”
“Continui a
consigliarmi di scappare, Luxord.”
Sì, presume di sì. In
fin dei conti, quella è la sua tecnica. Evitare ciò che non gli piace.
E’ un vero peccato che
non si può evitare tutto.
“Sai, all’inizio non
avevamo capito che i crepuscolari e gli altri erano come noi.” confessa lo
scienziato “Eravamo su un altro pianeta, come potevano sapere che quelle strane
creature non erano solo esseri originari di quel mondo?”
“Non li
sentivate?”
“Non sapevamo
cosa stavamo sentendo.”
“Non sapevate o
non volevate sapere?” chiede Luxord e si rende conto che la sua voce è più
tagliente di quanto vorrebbe.
Il giovane annuisce
debolmente.
“Tutti noi,
prima o poi, ne abbiamo avuto il sospetto, ma, allora, abbiamo avuto paura di
accettarlo. Poi abbiamo trovato Saïx. Lo
avevano massacrato, non sembrava possibile sopravvivesse. Volevamo ucciderlo.
Per compassione, ci siamo detti. La verità è che ci spaventava. Ci metteva di
fronte a qualcosa che non potevamo negare. Xemnas si è opposto e lo ha salvato.
Ed è cambiato tutto.”
Si passa
la mano sinistra fra i capelli, scostandoli dal volto. Un gesto reso inutile dal
primo refolo di vento, ma Luxord si rende conto adesso che manca qualcosa, in
Zexion. L’impianto metallico simile a un bracciale con cui si è abituato a
vederlo. E non solo quello. Mancano anche i segni della sua presenza.
Negli ultimi mesi non lo ha quasi mai visto privo di esso e anche quelle rare volte in cui non lo portava, c’era una cicatrice stellata sul dorso della mano e altre lungo le dita e il polso, sempre arrossate, marchi di ferite fresche.
Adesso la pelle è
completamente integra, come se fosse passato abbastanza tempo perché le
cicatrici svanissero, senza che venissero riaperte.
Un altro cambiamento.
Questo, forse, non ha effetti collaterali negativi.
Il giovane si accorge
della sua attenzione e si sfrega pensosamente il palmo.
“Vexen non
voleva che accettassimo i neofiti.” mormora, guardandosi la mano dove portava
l’innesto “Diceva che ci avrebbero distrutti. Aveva ragione. Fin dall’inizio,
abbiamo vissuto fra noi, convinti di non potere più provare nulla, ma il solo
metro di paragone che abbiamo avuto sono stati i nostri compagni e siamo troppo
diversi gli uni dagli altri. Abbiamo un diverso modo di pensare, di elaborare,
di relazionarci al mondo. Diversi sistemi di riferimento, un diverso modo di
intendere le emozioni. Non possiamo riconoscere quello che cerchiamo negli
altri, non possiamo fare riconoscere quello che gli altri cercano in noi. Siamo
sempre stati come un gruppo di persone cieche e sorde, prive di un linguaggio
comune e con linguaggi talvolta diametralmente opposti, che cercano di
comunicare le une con le altre, tentando di capire se quello che dicono ha un
senso. Finché eravamo solo noi sei, poteva anche funzionare, ma voi altri,
quelli venuti dopo... avete spezzato il nostro equilibrio. Prima del vostro
arrivo, cercavamo solo di adattarci alla situazione e sopravvivere. Dopo, non è
più bastato. C’era qualcuno a cui rispondere per quello che avevamo fatto.”
“Sii coerente
con te stesso, Zexion. Se hai ragione e non siamo gli esseri umani del passato,
senza quello che hanno fatto i sei non saremmo mai nati. Quindi, semmai,
dovremmo ringraziarli, visto che dobbiamo loro la vita. Ma, se hai ragione, voi
non dovete rispondere a noi, perché sareste innocenti, come Roxas, come tutti.”
Continua a riversargli addosso un’indulgenza che Zexion
rifiuta, ma non ha intenzione di lasciargli il completo controllo dei suoi
pensieri e delle sue parole.
Si aspetta di vederlo ancora rivoltarsi. Invece, nella voce di Zexion c’è qualcosa di simile alla disperazione.
“Xemnas non si
nasconde da Xehanort. Forse, colui che davvero non può sopportare il peso del
passato sono io. Forse, nonostante le mie pretese, ho fatto tutto solo per
convincermi che non sono Ienzo. Ci ho pensato, sai?”
“E’ così?”
“Pensa quello
che vuoi. Ma quello che è venuto dopo? Quello che ho fatto a voi? E’ una
tentazione troppo facile dare colpa a Ienzo. Marluxia ha sempre avuto ragione,
in tutto. Potevo esplorare le dimensioni e i mondi racchiusi nei pensieri
degli uomini, più grandi e numerosi di tutti gli universi materiali. Intanto,
guardavo voi altri affannarvi per sopravvivere e quando mi degnavo di aiutarvi,
lo facevo solo per garantire la continuità del mio stato di grazia. Vi ho
ignorati, vi ho fatto del male, più di quanto immaginiate. Ho lasciato che loro
dirigessero le cose, Xemnas e Xaldin e Saïx. Perché non me ne fregava niente,
quindi non ho mai neppure pensato di darmi da fare.”
“Sei così
arrogante da credere che tu, da solo, avresti potuto cambiare la nostra storia?”
“Sì, sono così
arrogante. Sono sicuro che avrei cambiato tutto e, comunque, avrei dovuto
tentare. Avrei dovuto capire chi eravate e cosa. Interessarmi a voi,
interessarmi prima. Invece, nemmeno mi ero reso conto di Roxas, prima che me lo
portassi. Ti lamenti per non esserti accorto che cresce? Tu non sapevi cosa
stavi vedendo. Io non ho proprio guardato. Le mie azioni sono state una serie di
idiozie legate l’una all’altra solo dalla loro inutilità.
Adesso raccolgo il frutto della mia indifferenza.”
“Allora sono in molti
a essere colpevoli nello stesso modo, me compreso. Sono arrivato
prima di Marluxia.”
“Sono il solo
responsabile delle mie azioni. Se anche fossero compiute, identiche, da un
intero universo, non diminuirebbe la responsabilità di ogni singolo. Mi chiedi
se provo colpa per le azioni di Ienzo? Cosa vuoi che mi importi degli errori e
dell’incapacità di un altro uomo? I miei bastano e avanzano.”
Si è tagliato fuori
dai ricordi della vita umana. La loro maledizione e, insieme, il loro
anestetico.
Perché se è vero che
le loro emozioni sono così smorzate, così poco avvertibili, fino a quando quei
ricordi regalano loro l’ottundimento da drogati in cui vivono, non c’è vera
felicità, vero affetto, vera gioia, ma neppure vero dolore, vera paura, vera
disperazione.
Ora, i suoi legami con
il passato non servono più a creare quel cuscinetto di beata, o necessaria,
inconsapevolezza.
Ma ha lasciato i
ricordi, sempre lì, monumento di un’altra vita.
perché?
per non scappare
Proprio il contrario,
semmai.
“Zexion...”
Il giovane solleva lo
sguardo, interrogativo.
fa la domanda giusta
“Sul serio non sai più
cosa fare?”
“Tatticamente
no.”
e decifra la risposta giusta
Con Zexion, le parole hanno un peso
tutto loro. A volte
cela la verità dicendo troppo. A volte, invece, il significato delle sue parole è così evidente, così scoperto, da essere più nascosto
di quanto non lo sarebbe se mentisse.
No, non sa cosa fare, tatticamente.
Ma quando per la tattica non ci sono più mosse, allora entra in gioco la
strategia.
Luxord ha quasi voglia di ridere.
Il lupo nella
pelle della pecora. Solo che tu non sei un lupo, Zexion. Sei una tigre. Va bene
così. E’ quello che serve, imparare a essere tigri.
“Sono lieto che
Vexen non vi abbia convinti.” brontola il giocatore.
“Anch’io.
Marluxia mi ha detto che senza un mondo a cui appartenere non avremmo legami con
la vita. In questo, almeno, si è sbagliato. Non basta un mondo. Senza di voi,
saremmo stati soltanto incidenti.” Zexion sorride e, per una volta, Luxord è convinto che quel sorriso non sia l’involucro di qualche nuova insidia
“Hai visto quei corpi, giù nel laboratorio. Fallimenti, li hai chiamati. Ma ognuno di essi permette di capire una cosa in più. Non sono fallimenti, sono passi avanti.
Roxas non è solo mio figlio. E’ il figlio di tutti noi. Lavoriamo perché ce ne siano altri. Per ora, lui rappresenta tutta la nuova generazione.”
“Una generazione
di una sola persona. Così poco.”
“Noi siamo
qualcosa con cui l’universo non ha mai fatto i conti, prima. Se serve, una
persona sola basterà.”
La prospettiva slitta,
qualcosa cambia. Come in un’immagine ambigua, la vecchia diventa una ragazza.
Zexion si trasforma,
restando lo stesso. Non più alieno, non più incomprensibile. Parla, e Luxord si
accorge di capirlo. Capire la volontà di muoversi avanti, contro corrente, lungo
una strada che si sgretola alla cieca. Ignorare deliberatamente gli eventi a
sfavore e le promesse di fallimento.
Pensano, parlano, sono
vivi. Non è più una condizione residuale. E’ un inizio. Un buon inizio. Tutto il
resto, possono costruirlo.
Gli viene da pensare
che impossibile, per loro, è un termine molto indeterminato.
Ogni certezza l’hanno
rigettata in faccia ai Mondi.
In sei hanno infranto
il Cuore stesso dell’universo e scavato a mani nude il ghiaccio del mondo nero.
Esistono.
Forse, tutto sommato,
non è impensabile che sconfiggano anche il tempo.
Forse, per quelli come
loro, estremamente improbabile è una possibilità più che
sufficiente.
“Devo proprio
trovare il tempo di seguire quel sentiero.” mormora lo scienziato.
“Anche se non
funziona?”
“E’ sempre
qualcosa che non ho ancora fatto.”
Zexion si rialza, si
spolvera i vestiti dalla sabbia e si avvicina alla scacchiera.
“Devo riferire
qualcosa a Roxas?” chiede Luxord.
Il giovane si limita a
scuotere il capo.
E’ finita e, anche se Luxord sa da molto tempo che la loro amicizia vive giorni presi a prestito, si
stupisce di quanto sia difficile rinunciarvi.
Soprattutto adesso,
che, finalmente, non è più uno straniero.
“Grazie.”
“Per cosa?”
esclama perplesso Zexion.
“Per quello che
hai detto. Lo terrò per la fine, quando sarò tentato di usare quel potere. Vedrò
di ricordare le tue parole per continuare a essere la buona fortuna. Sarebbe un
peccato rovinare una così bella definizione.”
Zexion aggrotta
aggraziatamente le sopracciglia azzurro cenere.
“Questo,
decisamente, non è logico.”
“No. Decisamente
non lo è.”
Zexion si stringe
nelle spalle, depone nella sabbia la mela quasi intera e comincia a disporre i
pezzi sulla scacchiera.
“Vogliamo fare
questa partita? Abbiamo solo poche ore. A meno che tu...”
“Non lo faccio,
lo sai.”
Zexion gli sorride e
il suo sorriso è aperto e allegro come quello del ragazzino che sembra e non è.
Tende verso di lui i pugni stretti dove nasconde i due pedoni.
“Allora meglio
cominciare subito, o non riusciremmo a finirla.”
Luxord non ama
particolarmente gli scacchi. C’è una componente di casualità troppo bassa perché
siano di suo completo gradimento.
Naturalmente, sono il
gioco prediletto del suo rivale.
Magari, prima della
fine della notte, riuscirà a convincerlo a fare anche un’ultima partita a carte.
Indica la mano destra
ed è un sollievo scoprire che colore gli è toccato. Anche se ha perso il
vantaggio di tratto.
nero
*
* * * * * * * * * * * *
‘Vince la partita chi fa il penultimo errore’ è una
frase del Gran Maestro di scacchi Ksawery Tartakower. Ce ne sono altre.
In realtà, l’intero capitolo è pieno di riferimenti agli scacchi. Compreso il titolo.
Ok, stavolta glisso
proprio sui tempi di aggiornamento, vi ringrazio tutti collettivamente e passo a
qualche risposta ^__^
Giodan:
carissimo, gentile come al solito. Vedrai che Demyx avrà il suo momento, come
tutti, prima o poi. Persino la povera e semi ignorata Kairi avrà i suoi momenti.
Quello di Demyx sarà un momento di gloria, te lo assicuro. Nessuno, in senso
letterale e figurato, oserà prenderlo sotto gamba ;-)
Chris: ti ho
fatto amare i nobody minori? Grazie, è molto più lusinghiero che sentire dire
che ho fatto piacere Zexion o Roxas ^__^
E’ che i 13 giocano
avvantaggiati. Hanno dalla loro argomenti per cui è facile farseli amare, anche
irrazionalmente, ma i nobody inferiori sono incomprensibili, orribili, non
mostrano paura né sofferenza, né niente di quello che incanta facilmente gli
umani e che i loro fratelli maggiori sono così bravi a esprimere. Nel canon
persino gli heartless godono di più rispetto. Nei loro confronti non serpeggia
quel disprezzo e quella repulsione che sono riservate ai nobody. Sono
combattuti, ma non odiati. I nobody non hanno nemmeno quella grazia e neppure
nel fandom viene resa loro giustizia. Ho letto decine di fanfiction dove i
nobody tornano in vita, ottengono un cuore, si fanno una vita al fianco degli
eroi. Sì, i 13. Gli altri no, oppure tornano, ma niente cuore e restano molto
più malvagi di quanto non siano realmente (ci vuol poco. Il mio gattino è più
malvagio di un nobody. E’ anche vero che il mio è un gattino molto malvagio).
Io li adoro, forse
più di quelli umani. O meglio, mi piacciono e li ammiro nello stesso modo, solo
che, siccome nessuno si preoccupa per loro, ho un occhio di riguardo. Hanno
bisogno di qualcuno che li difenda. Purtroppo, mi
sarebbe un po’ difficile portare avanti una storia intera con un dusk
protagonista. Non ho la capacità di tenere a lungo il registro di un punto di
vista completamente alieno. Mi uscirebbe solo la caricatura di un umano. Però
ritaglio loro un ruolo importante. Perlomeno, se leggete fra le righe, vi
renderete conto di quanto siano importanti.
Kalahari:
eh, Riku... che triste fine, ha fatto. Una delle peggiori di tutto il gioco. Purtroppo,
lo considero un caso perso.
Troppo affondato nel suo compiaciuto masochismo, nella rete di rifiuto e
negazione. No, non vedo speranza, non per ‘Riku’, perlomeno ^__^
Peccato. I buoni cervelli sono rari. vederli sprecati mi fa male. E Riku è uno dei miei
amori, anche se non si direbbe, visto che lo ammazzo in continuazione. Solo che,
come per i nobody, non tollero la sua incarnazione da fanon. Mi spiace che viene
spesso e volentieri liquidato semplicemente con il
cattivo ragazzo, blablabla, la sua amicizia con l’Eroe, blablabla, redenzione,
tornano a casa, vivono felici e contenti... ^O^
Lui e Roxas sono
davvero gli opposti, luce e oscurità, Yin e Yang. Quello che vuoi. Roxas perde tutto
solo perché l’intero universo sembra aver congiurato contro di lui. Nasce nobody
in un mondo dove essere nobody è essere bersagli mobili per qualsiasi idiota col
cervello flippato, gli danno la caccia in mille, gli mentono, persino la gente
che proclama di volerlo aiutare compie azioni a lui fatali e favorevoli al
massimo per i suoi nemici. Qualcuno,
prima o poi, lo beccava. Eppure, con questo, continua a combattere. Perde, ma non
cede. Lo chiamerei Eroe se solo non fossi allergica agli eroi.
Riku è l’esatto
opposto. Il modello dell’uomo che fa scelte dissennate e autolesioniste,
nonostante non ci sia nulla di avverso sua strada, anzi, ha tutto o quasi a suo
favore. Riku perde perché, scientemente, decide di farsi male. Rigetta
l’evidente intelligenza critica che possiede, abbandona la strada del dubbio e
lo scetticismo per rifugiarsi nelle tenere braccia di mamma certezza, in una
gabbia a cui non appartiene e a cui vuole fingere appartenere con una
disperazione quasi fideistica. Hai ragione tu. La
sola possibilità è che Sora abbia influenze negative su chi lo circonda. Una
specie di radiazione di fondo. Rincoglionisce anche Axel, in fondo. Suppongo sia
lo stesso per Riku. Ma lo amo troppo per giustificarlo. Ha fatto una scelta di
vita disastrosa. Se ne assuma la responsabilità. Poi è troppo divertente
progettare il suo futuro nell’isoletta dei deficienti. In fin dei conti, io
‘sono’ sadica ^__^
Stray: non
tornerà tutto come prima. Per principio, non sono una di quelle che fa la sagra
della resurrezione random così per fare. La possibilità deve esserci dall’inizio
e non essere un trucco tirato fuori dal cassetti. I soli che
‘rivivono’ sono quelli per cui il canon mi ha lasciato una finestrella aperta.
Il che vuol dire che non posso far tornare Xemnas, Saïx, Marluxia e Larxene, e
se non posso far risorgere loro, che adoro, figuriamoci se faccio risorgere
Sora, che non posso soffrire e mi fa una paura barbina. Sora è morto, scomparso,
stoppato per sempre. Roxas, tanto per andare sul sicuro, quando è riuscito a
strapparsi di dosso la pelle di Sora (e qui lasciatemi godere un secondo
immaginandomi una scena stile Alien), per prima cosa è andato a cercare il suo
heartless e lo ha disintegrato. No, in effetti è stata la seconda cosa che ha
fatto ^__^
Quanto a Kairi, le
ha semplicemente fatto venire un infarto e questo esclude la possibilità che
Kairi abbia lasciato un nobody, il solo modo concepibile perché riviva. Tra
parentesi, ha fatto una cosa simile proprio per scongiurare un improbabile ma
possibile ritorno di Naminé. Resta Riku e
quello che farò di lui non è poi difficile da immaginare. Vincere però è un
po’ dura, ti pare? Sta cuocendo al sole con la schiena spezzata e il torace
sfondato. Dall’altra parte abbiamo il guerriero nobody d’élite nel pieno del suo
vigore e incarognimento. E’ un po’ come mettere un coniglietto monco contro una
tigre affamata. Magari vince il coniglio, ma personalmente ne dubito parecchio. Esiste un solo modo
concepibile perché Riku vinca, ed è che Roxas decide che ha voglia di un
incontro ravvicinato con il suo stesso keyblade. Vedi un po’ tu, valutando dal
carattere che ho dato a Rox, le probabilità che abbia voglia di suicidarsi.
Comunque, non salverebbe Riku che, in pratica, è già bell’e morto ^__^
Vero che odio la
tragedia e amo i lieto fine, ma non tollero i lieto fine obbligati di regime.
Cioè quelli dove finisce bene per tutti eccetto per quelli destinati a finire
male per dare alla storia quel tocco malinconicamente e fascinosamente angst. Le
cose finiranno bene. Come intendo io ^___^
Dragana: che
graditissima sorpresa mi hai fatto ^__^
Per due cose ti ho
lovvato come una scema. Beh, un po’ per tutto, a dire il vero. Ma in particolare
che ti piacciono le caratterizzazioni, visto che sono una mia fissazione. Poi, tu vuoi bene a Vexen, io voglio bene a te. E’
inevitabile. Adesso, almeno, nel suo fanclub siamo in due ^__^
se te lo
chiedi qualcosa sarai, cretino!
E scolpiamo in
bronzo, ‘sta frase, e appendiamo la targa davanti ai loro lettini e sullo
specchio del bagno, così se la leggono appena svegli.
La traggggedia
no!!!! La odio! Già devo trovare millemila fanfiction dove il tono è ‘Non esisto
davvero, non dovrei esistere, non ho diritto di esistere, è giusto che scompaia,
sono niente, sono nessuno...” e via Andante Allegro con Brio. Dopo due righe del
genere, ho voglia di picchiare la testa su uno spigolo. Dopo cinque, di
commettere un omicidio random. Così.
Ok alle pippe
mentali, ma che abbiano un senso. I miei perlomeno hanno buone ragione per
menarsela.
Però devo ammettere
che, nonostante le pippe, i nobody mi sono entrati nel cuore. Suppongo con
intenzione di rubarmelo, ma, ahiloro, a me in quel campo c’è poco da portare
via.
Un po’ perché, con buona pace del fandom, non sono tremebonde, fragili,
sensibili creature che scrivono le loro pene sul diario del cuore e vivono in
eterno stato di depressione. Sono accidenti che se ne tiri uno sotto con un
tir+rimorchio, poi devi raccattare i pezzi del tir, mentre il nobody si spolvera
il cappotto e va avanti per la sua strada.
Soprattutto, mi piacciono perché si
danno da fare. Sono in 13 contro un fottìo di mondi e, invece di sedersi a
frignare o aspettare l’arrivo del salvatore, siccome l’universo ha deciso che
non devono esistere, loro decidono di prendere l’universo e torcergli il collo.
Mi pare equo e giusto ^__^
Purtroppo non
finisce bene e non ti dico quanto male ci sono rimasta io. Anche se era quasi
inevitabile. In fondo, sono gli antagonisti in un videogioco. Ma almeno si
portano dietro, o mandano avanti a mo’ di apripista, uno sproposito di gente.
Loro sì, piagnucolosi figuri che non trovano niente di meglio che pararsi il
culo dietro un bambino.
Dirò, se c’è
qualcuno che mi sta sullo stomaco più di tragedie ed eroi, sono quelli che hanno
bisogno di eroi.
Max: beh,
troppi commenti per rispondere qui. Alle domande e curiosità rispondo via mail.
Ti lascio solo un grazie di cuore ^__^
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