Partecipa
al “A
Year Together”
del Collection
of Starlight.
91.
~ Ora di libertà
Ora
di libertà
»Ore di
libertà.
Questo
sono, quei minuti passati a stare bene,
bene per davvero.
Ore
di libertà dalla vita.
E
nient’altro.
Faceva
caldo lì fuori nel Mondo,
lo vedeva: il paesaggio di villette aggraziate e viottoli ordinati
ondeggiava
ad una forza invisibile, come un miraggio immerso in un deserto
incandescente.
Joe
appoggiò la fronte accaldata
al vetro fresco, con gli occhi fissi sulla strada assolata; nonostante
i piedi
scalzi, la schiena nuda velata di sudore e i pantaloni appiccicati alle
gambe,
non sentiva caldo. O meglio, quello
c’era
– lo avvertiva tutt’intorno – ma una
membrana invisibile sembrava preservarlo
dal sentirlo.
Era
strano da spiegare.
Ad
esempio, sapeva che la
televisione in cucina era accesa e per di più ad alto
volume, mentre
trasmetteva quello stupido programma sulla
“gioventù bruciata”, tuttavia non la
sentiva realmente. Le sue orecchie captavano più una sorta
di ‘bzz’ attutito,
come se il volume interno del suo cervello si fosse abbassato di colpo.
Con
uno sbuffo smorzato, si passò
velocemente una mano nei capelli biondi: quello che stava pensando non
aveva
molto senso, supponeva.
Un
‘biip’ e il nastro della
segreteria telefonica, buttata in un angolo del tavolino ingombro di
fogli da
disegno, cominciò a girare.
«Jay,
il tuo turno è cambiato.
Janis aveva bisogno del pomeriggio libero per non so che cazzi, ci
vediamo alle
due» la voce di Mia nella segreteria risultava sempre
titubante, come se non
sapesse esattamente cosa dire. Probabilmente pensava a quanto fosse
stupido
parlare con un aggeggio elettronico.
Comunque,
due secondi dopo, la
voce della stessa Janis lo raggiunse con tanto di sottofondo fastidioso
«Tesoro,
non so se Mia ti ha avvisato… sono ancora
in facoltà perché c’è stato
il solito casino con quello stronzo di Harkinson, poi
ti spiego! Ti ricambierò il favore, ti amo!»
Gli
altri messaggi erano un po’
sempre uguali, tra i folli del corso d’arte e i vari clienti
fissi che avevano
il suo numero.
Beh,
sicuramente la voce che
avrebbe voluto sentire non c’era, tra quelle.
Joe
fece un sorrisetto che sapeva
tanto di autocommiserazione, poi si portò le ginocchia al
petto: quel bastardo
di Kurt era partito per chissà quale giro con gli sfigati
del suo gruppo e
neanche l’aveva chiamato; la notte prima lo aveva mollato al
locale in mezzo al
casino del Venerdì, dopo un breve e schifoso saluto di
circostanza.
Era
un vero idiota. E
all’apice del proprio masochismo sapeva che lo
avrebbe perdonato ancora e ancora, sempre, solo perché gli
era entrato dentro
come una specie di parassita.
«Dovrò
ricominciare col progetto
o non ce la farò per l’esame» fece atono
a se stesso, mentre le vibrazioni
della sua voce venivano assorbite dal silenzio che impregnava quella
stanza. Non
poteva permettere che tutto quello lo immobilizzasse, non di nuovo, non
in modo
così indolore
– quasi non si era accorto
di come era cambiato il loro rapporto. Si alzò lentamente,
le piante nude sul
parquet lucido e compatto, muovendosi verso la cucina nel frattempo che
lanciava uno sguardo critico al bozzetto che campeggiava al centro del
foglio
A4: la struttura base per disegnare un viso, un accenno di una mano,
nient’altro.
Mentre
in quel momento il foglio
gli sembrava immenso, un tempo era sempre riuscito a berne centinaia,
migliaia
di spazi bianchi come quelli: un foglio vuoto era come la sua anima
lasciata un
po’ incompleta, disegnarci sopra era un modo per riempirla. Ora, il bianco gli inghiottiva
l’aria.
Senza
una parola, lasciò che il
disegno scivolasse sul pavimento chiaro, poi riempì la tazza
di tè bollente,
appoggiandosi al candido ripiano della cucina.
Il
mal di testa della notte prima
– misto di musica, disordine, lavoro frenetico e alcool
– gli pulsava nel
cervello, impedendogli di pensare. In realtà non era
abituato a bere,
nonostante fosse un barman: non c’era mai il tempo
né la voglia di farlo.
Tuttavia,
solo qualche ora prima,
aveva deciso che non gliene fregava niente, che stava troppo male per
pensare
anche solo lontanamente all’Università, ai corsi e
alle strafottutissime buone
maniere.
Un
tonfo lo avvisò che il grosso
elefante che giaceva in salotto si stava muovendo; con un sorriso si
sporse a
guardare il divano, dove Brian ronfava sfidando la forza di
gravità.
Quella
casa era fatta su misura –
piccola, funzionale e scombinata –, uno come lui non ci si
incastrava molto
bene.
Non
ricordava molto di quello che
era successo solo poche ore prima, però era sicuro che ad un
certo punto lui
fosse spuntato fuori col suo mantello e la tuta da supereroe. Brian era
sempre
una specie di supereroe, pronto a salvare il Mondo col suo fare rude.
Joe
sospirò, poi si mise
comodamente a guardare il suo ospite che calciava via l’unica
coperta decente
che aveva raccattato in casa, scoprendosi e rivelandosi totalmente
vestito. Gli
dispiaceva che fosse crollato sul divano, per di più senza
cambiarsi – lui e i
suoi fanatismi da “stropicciamento vestiti” -, solo
perché quell’imbecille di
Kurt aveva deciso di piantarlo per l’ennesima volta.
Si
sentiva debole e allo
scoperto, con le sue difese tutte abbassate a lasciarlo disarmato
contro gli
attacchi esterni.
Mentre
era perso a guardare
attraverso la portafinestra che dava sul cortile incendiato dalla luce
del sole,
una voce arrochita dal sonno gli s’infilò tra gli
ingarbugliati pensieri.
«Che
o-o-ore sono?» Biascicò
Brian, sbadigliando.
Joe
lanciò un’occhiata al grosso
orologio in alto «Mezzogiorno e venti. Direi che è
l’alba!» Ironizzò, con voce
pacata; usare più voce significava anche alzare il volume
della sua emicrania.
Brian
ghignò, ma a quell’ora il
suo collaudato ghignetto da rompipalle non gli veniva poi
così bene, e si passò
una mano tra gli arruffati capelli lunghi «Come va il mal di
testa?»
Il
biondo scrollò le spalle
«Sopravvivrò anche per oggi...»
commentò, spostandosi verso i fornelli. «Vuoi
tè?» Domandò, mentre l’altro
si alzava stiracchiandosi veementemente.
«Io non ho bevuto, quindi direi che voglio
del forte e potenzialmente
dannoso caffè!» Esclamò, sottolineando
la prima parola con fare quasi rabbioso.
Joe
roteò gli occhi, mordendosi
la lingua per non irrompere in una rispostaccia, poi si girò
con un sorriso a
quartantadue denti «Ma te lo fai tu»
cinguettò, trovandoselo fin troppo vicino.
La
prima regola della buona
convivenza con Brian Ward recitava qualcosa come “mai stargli
troppo vicino
quando non ha dormito bene, bevuto prima un buon caffè e, soprattutto, quando
può essere
presumibilmente incazzato”. E visto che lui faceva i compiti
a casa, decise di
saltare via dalla traiettoria del fuoco, posizionandosi dietro al
tavolo, come
se fosse uno scudo.
Brian
seguì i suoi movimenti con
la coda dell’occhio e rise, scuotendo il capo.
«Tu
hai paura ragazzino» commentò
mentre sistemava la moka.
Fu
soprattutto a causa della vena
superba del suo tono, che Joe reagì quasi con rabbia
«Non è vero!»
Brian
annuì come a dargli
ragione, usò quasi tutti i neuroni per caricare il
“caffè più buono
dell’Universo”,
poi si appoggiò al ripiano, incrociando le braccia
«Come stiamo stamattina?»
Gli chiese, fissandolo.
Il
biondo scrollò le spalle «Ti
ho detto... un po’ di mal di testa, ma sta
passando».
«Chissenefrega
del tuo mal di
testa, che cazzo è successo ieri?»
Joe
sbuffò «Niente».
«Non
fare ‘niente’ con me. Ho
visto quel celebroleso di un musicista che ti urlava in faccia e deve
ringraziare la sua buona stella che avevo troppo da fare per staccargli
la
testa di cazzo che si ritrova» grugnì, mentre la
voce gli si abbassava di
qualche tono.
Joe
capì che aveva passato tutta
la notte prima a pensarci e sicuramente farsi vedere ubriaco marcio non
era
stata una mossa brillante.
«Abbiamo
solo discusso un po’,
capita nelle coppie... poi però sono tornato a lavoro,
no?» Spiegò,
minimizzando quanto più possibile. Comunque quando mentiva
si sentiva sempre a
disagio e non riusciva a guardarlo in faccia; strusciò un
piede nudo contro una
caviglia e ficcò le mani in tasca, decidendo
all’istante che l’angolo destro
completamente bianco della stanza era decisamente una roba interessante.
Brian
rimase in silenzio per un
po’, sorvolando con una smorfia mentale sulla parola
“coppie” – decisamente
fuori luogo – mentre l’aroma penetrante del
caffè già si diffondeva nell’aria.
«Non
mi piace quando bevi» fece
solo, sentendo che la rabbia della notte precedente, sbollita nel
sonno, stava
ritornando a scorrergli addosso, assieme all’irritazione di
vederselo di fronte
così: pallido, senza forze per mancanza di cibo e con delle
occhiaie da far
spavento.
E
ubriaco.
Diosanto,
quella notte quasi non
lo riconosceva tanto era fuori.
«Può
succedere! Di bere, dico.
Non sono un ragazzino, quindi posso fare come mi pare e quella sera
avevo
voglia di bere» mugugnò Joe, senza tanta
convinzione ma con voce ferma.
Ora
lo guardava ed era pure
incazzato: si era rotto le palle del fatto che tutti gli dicessero cosa
fare,
come comportarsi e come gestire la sua fottuta vita.
Peccato
che con Brian un discorso
del genere non poteva essere fatto; non con Mister Comando-Tutto-Io.
Infatti
si limitò a guardarlo,
senza muovere muscolo: gli occhi scuri e stretti piantati su di lui e
le labbra
serrate.
«Non
voglio che bevi» replicò
laconico.
Joe
strinse i pugni, il cuore
sembrava pompargli il sangue direttamente nelle tempie, che gli
pulsavano
furiosamente; sapeva che voleva aiutarlo, tuttavia era troppo stanco,
incazzato, deluso e debole per dargli retta.
Improvvisamente
desiderò stare da
solo in quella casa che normalmente amava riempire di gente.
«Non
sono cazzi tuoi» sibilò,
cercando di controllare il tremito della voce.
«Io
non voglio che bevi» ripeté
Brian, questa volta staccandosi dal ripiano, abbandonando il
caffè al
raffreddamento e con gli occhi solo per lui, solo per il suo pallore,
il viso
tirato e le mani tremanti.
«E
io ti ripeto che non sono
affari tuoi!» Sbottò il biondo, poi si
portò le dita alle tempie e chiuse gli
occhi con un sospiro. «Senti, non ho voglia adesso. Mi fanno
male persino le
orecchie, ho voglia di tornare a dormire e dimenticare...»
Sentì
la voce dura di Brian a
pochi passi da lui, di fronte a sé, che gli parlava con la
sua solita
intonazione bassissima e ferma, come se si stesse trattenendo con la
forza.
«Tu
non bevi mai e ieri eri
talmente ubriaco da rischiare di farti ammazzare dalle macchine in
strada. Io
non dovevo esserci ma, fortunatamente per te, c’ero e ti ho
trascinato a casa
quasi in spalla. Ora, questo è successo perché
quello stronzo ti tratta peggio
di una puttana» spiegò.
Joe
sgranò gli occhi chiari « Ma
vaffanculo!»
«Beh,
è vero. Ti prende e ti
molla come gli pare e tu, tutte le volte, lo fai entrare nel tuo letto.
Magari
è tanto bravo da farti scodinzolare, ma non ti facevo
così bisognoso di essere
fottuto».
Lo
schiaffo gli partì in automatico,
come se fosse sempre stato lì –
sull’orlo del burrone. Brian era la spinta,
neppure tanto forte, che lo aveva gettato nel vuoto.
«Sei
un bastardo, non ho di certo
bisogno delle tue frasi ad effetto da rompicazzo!»
Urlò, questa volta con la
voce che tremava di rancore e odio represso; si morse le labbra per
evitare di
piangere, ma sentiva le lacrime appannargli lo sguardo, in attesa. Se
solo
avesse battuto le palpebre, sarebbero venute giù senza freni.
Si
arrischiò a guardarlo di nuovo
quando i minuti di silenzio divennero troppi, e il suo sguardo non
nascondeva
la voglia di colpirlo a sua volta, magari mandandolo a dormire una
volta per
tutte.
Brian
alla fine non era uno
violento e il suo autocontrollo era quasi invidiabile.
«D’accordo,
forse ho esagerato, ma tu sei un
dannato egoista» replicò, dopo un
paio di respiri profondi.
«Sì
certo, perché appena uno
decide di essersi stancato di farsi calpestare tutte le volte e
finalmente fa
quello che gli pare è egoista!» Partì
Joe, cominciando a muoversi per la stanza
come un invasato. Praticamente stava piangendo e urlando
contemporaneamente, ma
la cosa non lo preoccupava; ormai che l’argine si era rotto,
era impossibile
frenare la massa d’acqua che scorreva. «Beh mi sono
rotto, d’accordo? E non è
solo Kurt, tutti mi dicono cosa fare! L’Università
è una merda e lì tutti a
dare lezioni di morale, quel bastardo di Fred
che decide di fare il padre spuntando da chissà quelle
merdosa città, e anche
al locale non è che le cose vadano poi meglio! Cazzo, Mia
che rompe le palle come
se non avesse pure lei un sacco di problemi, James che fa
l’ipocrita e tu...»
Un
colpo secco del pugno sul
ripiano lo fece sussultare.
Brian
riaprì la mano, accigliato,
gli si avvicinò con poche lunghe falcate e se lo
tirò per il braccio sottile, stringendolo
tanto stretto da fargli male «Credi che non le sappia tutte
queste cose? Ora ti
spiego meglio la situazione, stupido deficiente: se proprio vuoi
ammazzarti,
vedi di mettere un paio di Continenti o un Oceano tra di noi,
perché non ho
nessuna intenzione di passare il tempo a guardarti in questo stato. La
prossima
volta che sarò costretto a salvarti da qualche maniaco
perché ubriaco da fare
schifo, mi premunirò di atterrarti io stesso»
tirò, quasi senza prendere fiato.
Joe
poteva sentire le sue dita, e
quindi anche tutto il braccio, tremare sottilmente, mentre la sua voce
si
spezzava.
«Mi
sono preoccupato, mi sono spaventato.
Ho passato tutta la
maledetta notte a cercarti, dopo che quello stronzo se n’era
andato, e avevo
paura che fossi andato fuori».
«Lavoro
al locale da anni, mi
conoscono tutti e so come comportarmi...» replicò
Joe, questa volta a voce
bassa e timorosa.
«Non
mi interessa un cazzo!
Razionalmente io lo so, ma viverle è un’altra
cosa. Eri ubriaco, era Venerdì,
era notte fonda e non ti vedevo da nessuna parte. Non è
stato un bel quarto
d’ora, te lo assicuro» sbottò ancora
Brian, lasciandolo in modo violento, per
poi passarsi una mano nei capelli. «Se vuoi fare quello che
vuoi, almeno non
costringermi a guardare» sibilò alla fine,
allontanandosi da lui.
Joe
pensò che sentiva freddo, ora
che si era spostato, nonostante il calore persistente del suo tocco sul
braccio; lo guardò sedersi sul divano a fatica e perdersi in
chissà quali
pensieri.
S
stava già allontanando, come
tutte le volte che discutevano in quel modo. Quasi come se si
trovassero su
livelli di tempo diversi, nel momento in cui lui arrivava finalmente a
capire
cosa stava succedendo, afferrandone tutte le implicature, Brian
già era andato
via; risucchiato da qualche altro Mondo.
Il
risultato era che rimanevano
nella stessa stanza, magari anche a lungo, ma lontani anni luce
– dopo essersi
scontrati e sfiorati per qualche secondo.
Quel
fenomeno, poi, stava
diventando sempre più profondo, i suoi meccanismi sempre
più imperscrutabili ma
esatti, da quando i loro apporti erano drasticamente cambiati. Lui non
avrebbe
voluto, ma non sapeva cosa fare: l’unica cosa che interessava
a Brian era
difenderlo; quando lo guardava negli occhi, ci vedeva solo tenerezza e
voglia di
protezione, due sentimenti che aveva sempre cercato di avallare e in
cui si era
sempre crogiolato.
Tuttavia,
spesso, quelli non
bastavano.
Non
gli bastava più essere visto
come il fratellino casinista, asessuato e angelico, da proteggere come
se fosse
l’unica cosa pura rimasta al Mondo. Gli era piaciuto essere
idealizzato e
sentirsi speciale, ma la verità era che veniva lasciato
sempre lì in alto,
intoccabile da tutti, persino da Brian stesso.
«Ehi,
Rambo...» gli fece dopo un
po’, piazzandosi lentamente di fronte a
lui.
L’altro
lo fissò dal basso in
alto, seduto rigidamente sul divano chiaro «Senti,
ragazzino...»
Joe
scosse il capo «Hai ragione.
Forse dovrei lasciare perdere Kurt, sai... definitivamente»
lo interruppe,
soppesando le parole.
Brian
sorrise circospetto «Sarebbe
un buon inizio... almeno così dimostreresti di avere ancora
un cervello!»
La
risata gli morì in gola,
quando il biondo gli si sedette addosso, a cavalcioni.
«Che
diavolo fai?» Grugnì,
piazzandogli subito le mani sui fianchi sottili con la mezza idea di
alzarlo di
peso.
«Non
mandarmi via...» gli
sussurrò Joe, prima di appoggiare le
labbra sulle sue.
Rimasero
così per un bel po’, o
forse erano solo pochi secondi scanditi lentamente dal silenzio, poi
Joe
cominciò a muovere le labbra, delicatamente, come a sfiorare
le sue.
Sentì
i muscoli delle spalle di
Brian indurirsi dalla tensione, ma chiuse gli occhi cercando di non
pensarci:
la paura che, se solo si fosse staccato, sarebbe scappato per sempre.
Il
minuto in cui sentì tutto il
suo corpo irrigidirsi sotto di lui e le labbra ancora ferme e
completamente
serrate sulle sue, sembrò non passare mai.
Nonostante
quello, Joe non aprì
gli occhi e non osò fermarsi o spostarsi da quella
posizione; ormai che si era
buttato nel fuoco, sperò almeno di evitare che le fiamme si
propagassero troppo
velocemente fino a bruciarlo. Impercettibilmente sentì le
dita di Brian
stringere i fianchi dove si erano fermate poco prima, la bocca
schiudersi di
poco – quasi con timore – per saggiare le sue
labbra.
Con
una vertigine violenta alla
bocca dello stomaco, realizzò che Brian lo stava ricambiando.
Ironicamente,
quella
considerazione lo fece fermare per un attimo; l’idea che
qualcosa di
tremendamente sbagliato stava succedendo gli intorpidì tutto
il corpo.
Quando
le mani di Brian lo
tirarono per il bacino verso di sé, la mente
piombò nel buio totale. E, per una
volta, decise di assecondarla.
Alle
volte si era messo a
fantasticare su come poteva essere, stare con lui intendeva, e mai
avrebbe
creduto che fosse così delicato, anzi quasi dolce.
Joe
inarcò la schiena ad aderire
meglio contro di lui, mentre il bacio s’intensificava con un
semplice ma
vigoroso incontro di labbra e nient’altro; le mani scese ad
accarezzargli la
nuca e le gambe serrate attorno alle sue. Era cosciente che le mani di
Brian
non si erano mosse dai suoi fianchi, senza neanche accennare ad una
carezza, ma
la cosa non importava, non ancora.
Tutto
quello che voleva fare, era
assaggiarlo totalmente.
Brian
alzò le mani ad
accarezzargli la schiena nuda, per poi spingerlo verso di
sé; allungò il collo
a baciarlo con più forza, fino a mordergli le labbra,
facendogli sfuggire un
gemito.
La
sua voce rapita dalla
passione, ma delicata, gli penetrò il cervello come un colpo
di fucile.
Contemporaneamente
che un calore
istintivo gli attaccava il basso ventre, eccitandolo, la mente
tornò quasi
totalmente lucida: quello era Joe,
quel Joe.
Non
poteva farlo.
Brian
aprì gli occhi di scatto,
ritrovandosi a guardare il suo corpo caldo e arrossato addosso, gli
occhi lucidi
e le labbra turgide e fin troppo vicine.
Cazzo,
faceva male vederlo in
quello stato; quasi più che vederlo soffrire per qualcun
altro.
«Togliti»
fece, con tono tanto
secco da farlo trasalire.
Joe
sgranò per un attimo gli
occhi chiari, poi un sorrisino amaro gli si formò sulle
labbra, mentre si
girava per sedersi al suo fianco; quasi con fretta, si
spostò nell’angolo più
lontano del divano, raccogliendo le gambe al petto com’era
d’abitudine.
Brian
rimase fermo «Non volevo
essere così duro» disse, con un sussurro.
Joe
scrollò le spalle «Non
importa».
L’altro
gli lanciò un’occhiata
«Tu non vuoi questo».
Il
biondo alzò gli occhi al
cielo, reprimendo a stento un urlo: ancora la sua psicoanalisi da uomo
vissuto
che parlava con un adolescente in crisi ormonale; ancora la sua
superiorità,
ancora i suoi errori.
«Non
dirmi cosa voglio. Non farlo
di nuovo» replicò freddamente, senza neanche
guardarlo.
Brian
sospirò «Lo sai che non sei
abbastanza lucido adesso».
Joe
rise, suo malgrado, e si girò
a guardarlo «Cristo, Brian. E tu? Dimmi un po’, non
dovresti essere tu quello
lucido, mh?» Provò a chiedere, mentre
l’amarezza gli si srotolava sulla lingua
come acido.
Sentirsi
rifiutato faceva sempre
male, ma essere costantemente sottovalutato, considerato un ragazzino
che faceva
una marachella e non un adulto che prendeva le sue decisioni
coscienziosamente,
era ancora peggio.
E
ora si ritrovava a guardare la
sua espressione indecifrabile – a metà tra la
confusione, la rabbia e la paura
di ferirlo – con il suo sapore ancora addosso e la sua
eccitazione latente
sotto la delusione.
«Anch’io
posso perdere la
lucidità, ma è stato un errore»
replicò cautamente Brian, cercando di
avvicinarsi.
«No,
non toccarmi! Piantala di
trattarmi come se fossi una statua di cristallo o, peggio, come se
fossi un
idiota che non sa decidere! Io ho voluto farlo ed ero lucido, quando
l’ho
deciso. Kurt non centra un cazzo, centri tu! E se non vuoi ammetterlo,
allora
vaffanculo!» Sbottò, alzandosi di colpo.
Aveva
tanta elettricità addosso,
da doverla sfogare in qualche modo.
Joe
si girò a guardarlo, ancora
lì, piantato sul divano, con una stretta al cuore:
dannazione, gli sarebbe
saltato addosso di nuovo, cercando di tenerlo stretto il più
possibile per
assorbire quel calore che lo faceva stare così bene.
Una
sola ora, una sola ora per
avere tutto quello che aveva sempre voluto, per essere libero di essere
–
finalmente – come voleva. Con lui poteva succedere, voleva
che Brian vedesse
anche la parte più reale di sé, per una volta
senza accantonare i suoi difetti
come se fossero piccole intaccature di un capolavoro d’arte.
Per
una volta, voleva essere vero
– sbagliato, cattivo, infantile, imbranato, ma anche serio,
delicato, gentile –
e tutti quegli aggettivi veri e difettosi che compongono una persona.
«Io
non voglio condizionarti, tu
devi decidere da solo cosa fare» replicò Brian,
alzandosi.
Joe
rise nuovamente «Ma se lo fai
sempre! E comunque, se avessi deciso? Se avessi deciso che voglio
mollare
quello stronzo e volessi te?» Sbottò, quasi senza
accorgersene che erano
ritornati in cucina.
Brian
si arrestò sulla porta,
incredulo «Non è possibile che tu voglia
questo».
«Senti,
mi critichi sempre
dandomi dell’indeciso, quindi ora ti sto dicendo le cose che
penso. Fallo anche
tu. E, per favore, non addolcirmi la pillola: dimmi le cose come
stanno».
Tanta
decisione lo sconvolgeva,
in qualche modo; Brian doveva ammettere che non ci era abituato.
Cercando di
pensare velocemente, si crogiolò per qualche attimo nel
calore che gli aveva
lasciato addosso, senza però permettere
all’eccitazione che lo aveva colpito
improvvisamente di prendere il controllo su di lui.
«Le
cose stanno che è stato un
errore. Io non dovevo... non volevo farlo» rispose guardando,
con segreto
terrore, l’azzurro dei suoi occhi andare in pezzi.
«Una
temporanea mancanza di
lucidità, quindi» sussurrò Joe.
Se
il suo sguardo non fosse stato
puntato su quelle labbra, probabilmente non l’avrebbe nemmeno
sentito.
Brian
annuì «Già».
«Bene.
Allora. Vai a risposarti
anche tu, ne abbiamo bisogno entrambi, ci vediamo domani. A
lavoro» concluse,
superandolo per andarsene in camera – scappando dai ricordi
di solo pochi
minuti prima.
L’altro
annuì di nuovo, sebbene
ci fosse solo il vuoto a guardarlo, poi sospirò: poteva
dirgli che non era
fatto per lui, che avrebbe solo sofferto a farsi coinvolgere troppo in
profondità dalla sua vita; poteva dirgli che, se avesse
accettato, non avrebbe
potuto più difenderlo, perché i suoi problemi
futuri sarebbero stati colpa sua
e non voleva che accadesse. Poteva dirgli tante cose, ma dovette
ammettere che
aveva deciso di concludere quella cosa, qualsiasi cosa fosse, il
più
velocemente e indolore possibile.
Rivelargli
ciò che pensava,
significava dargli ulteriori speranze e, contemporaneamente, rendere
più
difficoltoso il suo proposito di stare fuori dalle complicazioni
sentimentali.
Gli
serviva quella difesa, per non
perdere il controllo e lasciarsi
trascinare inevitabilmente in qualcosa di troppo grosso da poterlo
gestire. Non
voleva perdere di nuovo l’orientamento, tanto da non vivere
che per qualcun
altro.
Con
un ultimo sguardo al divano e
uno all’imboccatura del piano superiore, gli
lasciò un biglietto sul ripiano
dei disegni, con una scrittura così frettolosa che quasi non
la riconobbe.
Poi
scappò. Di nuovo.
N/A
Puff
<.<
Sapete
già tutto il contorno di
“che cosa orrenda” e “bleah”
che già dirò, quindi andiamo avanti.
Vi
aspettavate il NC_17 eh? Eh?
Tsk, peccato, non c’è. *Schiva pietre*
No,
davvero.
Sarebbe
stato troppo, troppo, insomma.
Prima
o poi ci arriveranno. XD
Dunque,
dedico questa cosetta a Sorella Erba e
Memo che sono anche le due
pover’anime che leggono di questi due XD
Dai è quasi shonen ai!
Bon,
sperando che cominci a
scrivere più decentemente, alla prossima!
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