Mickey in the sky with diamonds
(You got to be free!)
“Avanti,
nonna, prova a prendermi, se ci riesci!”
“Sono
troppo lenta per te, Mike, non ho più
vent’anni!”
“Ma
io ne ho soltanto sei, nonna!”
“Appunto!”
Correvo
veloce come una bicicletta nuova e bellissima, impossibile da
raggiungere, e mi sembrava che stessi correndo solo io in quella
distesa di erba, ma non ero sola: la nonna mi rincorreva ridendo, e
nonostante la sua età mi raggiunse, afferrandomi le caviglie
e facendomi cadere come un sacco di patate.
Questo
sacco di patate, però, cominciò a rotolare sul
prato, seguita dalla sua compagna, che però si era
dimenticata di un piccolissimo particolare,
e questo piccolissimo particolare, di nome Fernando, stava innaffiando
le piante e gli alberi del nostro giardino, e non voleva essere
disturbato da nessuno.
Infatti poco
dopo le nostre risate furono interrotte da un grido che sembrava molto
simile ad un ruggito.
“Ma
non avete nulla di meglio da fare durante il giorno? Fiordaliso, mi vergogno di te!”
“Sei
un rompipalle assurdo, Fernando! Sto semplicemente giocando con Mike,
non mi pare che ti stiamo dando tanto fastidio!”
“Devi
sapere che io ho bisogno di quiete
quando svolgo il mio
lavoro…”
“Certamente, allora a quest’ora
te ne saresti già andato!”
“Non
è questo il punto!”
Rimasi
a fissare la nonna e Fernando mentre litigavano: era uno spettacolo
unico, ed uno dei miei passatempi preferiti!
Litigavano
per qualunque cosa, e potevo godermi la loro rappresentazione ad ogni
ora della giornata, ogni giorno ed in qualsiasi luogo.
Ma
dopo le loro sfuriate ritornavano i sinceri amici di sempre, e la mamma
tirava un sospiro di sollievo, seguito dai miei applausi e dalle mie
grida.
Purtroppo
quel giorno il divertimento durò pochissimo,
poiché la nonna e Fernando riuscirono a trovare un
compromesso ragionevole: noi saremmo rientrate in casa, e lui sarebbe
rimasto solo soletto insieme alle sue amate piantine.
Io non
volevo assolutamente allontanarmi dal nostro bel giardino, ma la nonna
mi prese per mano e mi trascinò al portone di legno,
ignorando il mio disappunto; anche se la finta durezza dei suoi occhi
mi diceva che era molto dispiaciuta di vedermi così triste e
sola.
Poveri
adulti, soffrono così tanto nell’assolvere i loro
doveri!
Anche
io, però, non ero molto contenta di svolgere i miei: appena
misi piede sul tappeto dell’atrio ed osservai
l’attaccapanni in un angolo traboccante di abiti ed il
minuscolo e buio corridoio che conduceva in soggiorno, mi sentii
inghiottire dalle pareti fameliche della casa e scoppiai a piangere, in
preda al terrore di morire divorata dalla mia stessa casa.
Mia
nonna addolcì la stretta per consolarmi, anche se le sue
parole non mi aiutarono in alcun modo, anzi, le lacrime continuavano a
bagnare copiosamente le mie guance ed il vestitino bianco, impedendomi
addirittura di muovermi dalla mia scomoda posizione.
Fu in
quel momento che la nonna, stanca di vedermi piangere, mi prese in
braccio e mi fece sedere sul vecchio divano, chiedendomi di aspettarla.
Mi
voltai, e vidi le sue gambe salire velocemente le scale: mi chiesi cosa
avesse in serbo per una bambina triste che aveva bisogno di essere
consolata.
Lo
seppi qualche minuto dopo, quando la vidi comparire nel soggiorno con
una pila di polverosi LP tra le braccia, che posò subito
sulla coda del pianoforte, creando piccoli sbuffi di polvere che mi
fecero starnutire anche da una certa distanza.
“Avanti,
questi dischi così vecchi nascondono delle canzoni che
farebbero impallidire i compact disc di oggi! Scommetto che dopo aver
ascoltato una bella canzone ti sentirai subito meglio”
Con
una forza incredibile per una signora di quarant’anni suonati
come lei, si accinse a spingere il giradischi in un punto nel quale
l’acustica della stanza era migliore, spulciò con
cura i 45 giri, e ne scelse uno dalla copertina disegnata, che non
avevo mai visto rovistando tra i suoi dischi.
Però,
non appena la puntina cominciò a danzare tra i solchi del
vinile, riconobbi la canzone, che penetrò in me con una
folata di vento gelido, rigenerandomi fino alle ossa.
Come
tutte le volte che la musica si insinuava nel mio corpo, i miei piedi
iniziarono a muoversi da soli, arrivando a staccarsi da terra: volavo
nel cielo come Lucy, circondata da una miriade di diamanti e bambini
sorridenti, mentre mia nonna cantava nel coro, ondeggiando come un
budino all’amarena.
Mi
lasciai scappare un sorriso, vedendola: sembrava una mamma che voleva
somigliare alla figlia, e la figlia la sgridava per il suo
comportamento infantile, con una aria
da saputella impareggiabile, dicendole che il suo comportamento non era
consono a quello di una donna grande e grossa come lei.
Ma la
mamma non la ascoltava, e pensava a prendere
in prestito i suoi dischi, ignorando gli urli ed i lamenti
della povera figlia.
Somigliava
molto alla storia che mia nonna mi raccontava spesso per tenermi buona,
insieme ad altre di sua invenzione, oppure ai vari ricordi della mamma,
quando era ancora una bambina spensierata e imprudente, che amava far
impazzire la povera nonna.
Quante
ne aveva combinate la mamma prima che io nascessi!
Le mie
risate si allontanarono con le ultime note della canzone, lasciandomi
stranamente felice: aveva ragione, quella canzone, non si doveva essere
pessimisti, bensì rendere le situazioni tristi migliori di
quel che sono.
“Allora,
ti senti meglio,
tesoro?”
“Benissimo,
nonna! Ma che ne dici se ascoltiamo uno dei dischi della mamma?”
“Non
possiamo tesoro, se la prenderà con me e con la mia
incorreggibile immaturità! E poi, ci sono altri album molto
più belli di quelli della mamma, che ne so… Ti
andrebbe bene Elvis?”
“Io
voglio Michael, non Elvis!”
“Uffa,
e va bene, ma solo per cinque minuti!” sbuffò, mia
nonna, che esaudiva tutti i miei desideri per il solo piacere di
vedermi sorridere.
“Evvai!”
La
nonna salì le scale ancora una volta, stavolta decisamente
più imbronciata, mentre io saltavo avanti e indietro per la
stanza, arrivando addirittura sul divano e dietro le tende delle
finestre, e fingendomi un ladruncolo che non voleva farsi scovare dai
padroni di casa.
Quando
ritornò, stavolta trasportando pochissimi vinili rispetto al
primo viaggio, mi catapultai davanti al pianoforte con un sorrisone
disegnato in viso e le mani dietro la schiena, dondolandomi sui talloni.
Finalmente,
dopo tante ore di noia, potevo divertirmi ballando al ritmo delle mie
canzoni preferite!
“Hai
preso Bad, vero?” chiesi
eccitata alla nonna.
“Sì,
l’ho preso, tesoro, non preoccuparti” rispose
stancamente lei.
“Lo
mettiamo?”
“È
quello che sto facendo, un po’ di pazienza”
“Va
bene”
Continuai
a sorridere fin quando la musica attaccò, e lì mi
lanciai in pista assieme a Michael ed alla sua banda di delinquenti,
cantando a squarciagola Bad, che
ormai sapevo a memoria, mentre mia nonna mi guardava con le lacrime
agli occhi, accennando a malapena dei complimenti.
Ogni
volta che mi vedeva ballare per lei era un’emozione
grandissima, ed a stento riusciva a controllarla, sciogliendosi fino a
creare una montagnola di fazzoletti di fronte a sé, rigonfi
di tutte quelle lacrime che le procuravo: era strano, il suo
comportamento, ma la sua gioia mi faceva sentire importante.
Cercavo
perciò di dare il meglio di me stessa per renderla ancora
più orgogliosa della sua unica nipotina, e come compito era
abbastanza facile, visto che si emozionava per un fiore sbocciato tra
l’asfalto od un tramonto sull’oceano.
Stavo
giusto completando una giravolta, quando sentii la porta sbattere
violentemente e dei passi inconfondibili che si avvicinavano al
soggiorno.
Bastò
un attimo, un’occhiata fulminante e delle sopracciglia
pericolosamente aggrottate a scatenare l’inferno: mia madre
si diresse velocemente verso mia nonna, lanciando la cartella piena di
libroni sul pavimento, facendomi sobbalzare, e la aggredì
guardandola dritta negli occhi.
“Mamma,
ti ho detto di non toccare i miei dischi centinaia
di volte! E tu cosa fai?
Li tocchi! E
li ascolti!”
“Ma
era solo per far contenta Mike, non scaldarti così,
tesoro…”
“Io
non mi sto scaldando! Ora, rimetti subito a posto Bad,
ed esci da questa stanza!”
“Su
- subito, cara…”
La
nonna obbedì ai voleri della mamma come se fosse stata sua
schiava, raccogliendo tutti i dischi e riportandoli al piano superiore,
sbuffando e mormorando insulti contro destinatari sconosciuti.
Faceva
davvero una brutta impressione, la mamma che obbediva alla
figlia…
Per
fortuna nel mio caso non era così: non mi piace comandare,
soprattutto chi ha molta più esperienza di me, e potrebbe aiutarmi
molto.
Mia
mamma ne
approfittò per coccolarmi, e per domandarmi come era andata
la giornata: le raccontai le solite cose, rimanere tutto il giorno in
casa con qualche minuto di gioco all’aperto a disposizione
non riservava molte sorprese.
Lei
invece, al college, aveva sempre tante cose da fare, e non si annoiava
mai!
Per
fare un esempio, era la miglior giocatrice di baseball della scuola, e
tutti i suoi compagni maschi la ammiravano in modo smisurato: volevano
addirittura che si candidasse come presidente del consiglio studentesco
o come capitano della squadra di baseball dell’istituto, ma
mia madre aveva cose più importanti a cui pensare, tra le quali io.
Terminare
il liceo per lei era stata un impresa
immane, e solo ora che ero cresciuta poteva sorridere come una volta,
stringendomi forte al petto, e dimenticando tutto quello che aveva
passato per rendermi felice.
Il
college era una scusa per mantenere tutta la famiglia una volta
laureatasi, e per lasciare, un giorno, quella vecchia casa di Beverly
Hills.
Come
era bello andare a scuola. Se solo avessi potuto anche io…
Quelle
poche volte che uscivo di casa, accompagnata da qualche famigliare,
naturalmente, chiedevo di andare al parco affinché potessi
vedere i bambini divertirsi e giocare insieme, con tutte le
libertà concesse alla loro età, ed anche per
sentirmi meno sola.
Io non
potevo avvicinarmi, poiché secondo mia madre o mia nonna era
pericoloso: non sapevo bene cosa ci
vedessero di pericoloso, fatto sta che morivo dalla voglia di lasciare
le loro mani, e correre verso quei bambini sconosciuti, ma non di certo
pericolosi.
I
bambini possono essere qualunque cosa, ma non cattivi.
Cattivi
è una parola troppo grande per loro, poiché non
sanno ancora cosa sia la cattiveria, né, nel migliore dei
casi, l’hanno ancora sperimentata.
La
cattiveria verso un bambino è terribile, se facessero
qualcosa di simile a me non so come reagirei: probabilmente diventerei
pazza, e dovrei andare in giro con uno psicologo, diventando via via un
vegetale, costretta a
vivere senza pensare.
E
questa non è vita.
Farei
meglio a non pensare a queste cose, ma la sofferenza del mondo
è tanta, e pochi uomini di buona fede non bastano per
cancellarla.
Forse
sono troppo altruista, e mi preoccupo troppo per gli abitanti di questo
pianeta, ma la mia natura me lo
impone.
Non
posso farci nulla.
Soltanto
trovare una via di uscita dalla mia prigione dorata, e fuggire verso il
mondo, in modo da placare la mia sofferenza, e poter finalmente aiutare
qualcuno.
L’occasione
giusta mi si presentò verso gli inizi di giugno, quando mia
madre era molto impegnata con gli ultimi compiti in classe, mia nonna
rimaneva tutto il giorno a mollo nella vasca per colpa del caldo
straziante, e Fernando si occupava ancor di più del suo
adorato giardino, che in estate si riduceva ad un deserto, cercando di
salvarne il più possibile.
Gli
unici ingressi della casa erano quello principale ed una porta sul
retro della cucina, che però non veniva mai usata, e che
purtroppo dava sul giardino, ma per mia fortuna ero molto agile, e
riuscii ad arrampicarmi sul tetto dalla finestra della mia cameretta,
atterrando infine sull’erba spinosa del retro, evitando il
pericolo di essere scorta da qualche guardone e da mia nonna, che
sguazzava nella vasca al piano superiore, con la finestra aperta.
Ero
caduta come un sacco di patate, rovinandomi le mani e le ginocchia, e
sporcandomi il vestito di polvere e fango, ma non mi importava molto
della mia salute: ero libera.
Mi
pulii il vestito con cura ed in punta di piedi raggiunsi la spaventosa
staccionata in ferro battuto, che riuscii a scavalcare dopo vari
tentativi, visto che le mie gambe erano molto corte
e la trama piuttosto rada e scivolosa.
Dovetti
sbilanciarmi pericolosamente per arrivare dall’altra parte, e
rischiai quasi di cadere un paio di volte, ma quando toccai terra ero
sana e salva, pronta per continuare la mia avventura.
Sbucai
probabilmente nella proprietà di qualche altro riccone, ma
non mi importava molto: non ero assolutamente spaventata da
ciò che avrei potuto incontrare nelle vie di Los Angeles,
né tanto meno ero preoccupata di farmi scoprire da qualche
essere umano ciarlone.
Il
vento dell’avventura soffiava in me ad una
velocità costante e potente, e finché non si
fosse esaurito non avrei avuto paura di nulla.
Fu
così che mi ritrovai a camminare per il viale parallelo a
quello nel quale si trovava la mia casa, e man mano che il mio cammino
proseguiva, aumentavo il passo, fino a correre verso il centro della
città in aperta discesa, schivando le macchine come
un’antilope rincorsa dai leoni.
Non mi
accorsi, però, di dove stavo andando, e mi ritrovai in un
posto alquanto particolare per me: qui le case erano molto
più sobrie che a Beverly Hills, e la gente decisamente meno
bizzarra.
Era
tutto così strano: non sapevo neanche che esistessero luoghi
così spogli ed ordinari in una città ricca di
stravaganze come quella in cui vivevo io.
La
curiosità, tuttavia, era molto forte, e decisi di andare
oltre quelle case, per scoprire se ce n’erano altre e dove
finivano.
Man
mano che proseguivo il mio cammino, stando sempre all’erta
come può farlo una bambina di quasi sette anni,
l’ambiente si fece meno silenzioso, e le case meno grigie,
mostrandomi ciò che contenevano, ovvero un luminoso tripudio
di persone dalla pelle ambrata e dagli abiti variopinti, che si
affaccendavano negli impegni più disparati: c’era
chi faceva il bucato in una tinozza piena d’acqua, chi
chiacchierava senza posa mentre tagliavano delle verdure in una
bacinella, chi cuciva con grande impegno, e chi si limitava a leggere
il giornale o a fumare una bella sigaretta.
Tra
tutto questo putiferio, mi attirarono le voci e le risate dei bambini
che giocavano lungo la strada, provvisti soltanto di un pallone di
cuoio e di tanta allegria.
Avvertii
una strana sensazione all’altezza del petto: quei bambini dai
capelli scuri non erano gli stessi che incontravo passeggiando mano
nella mano con mia nonna, e che si lagnavano per un ginocchio sbucciato
o per un’unghia rotta, richiamando all’attenzione i
loro fedeli babysitter che si apprestavano a soccorrerli.
Erano
bambini veri, bambini vivi e palpitanti di gioia, ai quali non importava cadere o
scivolare, ma rialzarsi e continuare a giocare, spensierati e puri come
agnellini al pascolo.
Ma a
quanto pare non tutti erano così.
Poco
lontano dal gruppo di piccoli giocatori, scorsi una sagoma seduta sul
ciglio del marciapiede, intenta a guardarsi i piedi, ed incuriosita, mi
avvicinai.
Scoprii
che era una bambina, all’incirca della mia età, ed
anche lei aveva la pelle ambrata ed i capelli neri come gli altri
abitanti della via, ma possedeva qualcosa di strano
che non riuscivo a comprendere.
Forse
era una falsa impressione, ma era così evidente la sua
particolarità…
“Ciao”
le dissi, dopo svariati ripensamenti e dopo una lotta contro la mia
temibile curiosità.
“Ciao”
mi rispose lei dopo qualche minuto, alzando il viso magro per poter
vedere il suo interlocutore.
Ma
dopo neanche cinque secondi ritornò al suo compito di
ammirare i sandali di pelle ai suoi piedi, e si dimenticò di
me.
Piuttosto
offesa, decisi di far
ragionare quella bambina tanto strana che si stava prendendo gioco di
me.
“Che
cosa stai facendo?”
“Sto
contando quanti granelli di terra ci sono in questo punto”
“E
come ci riesci?”
“Non
lo so. Ci riesco e basta”
Rimasi
piuttosto interdetta dall’affermazione della bambina: come
faceva a contare dei granelli di terra osservando semplicemente il
terreno sotto di sé, oltretutto non sapendo neanche da dove
provenissero i suoi poteri?
La
situazione si stava facendo veramente interessante, ed ero curiosissima
di saperne di più sul conto della piccola maga.
“Riesci
a contare soltanto quanti granelli ha questa parte di strada?”
“No.
Riesco anche a contare le stelle nel cielo, e le formiche in un
formicaio. Riesco a far muovere gli oggetti semplicemente ordinando
loro di spostarsi, e riesco a chiamare la mamma da una stanza
all’altra senza alzare la voce”
“Fantastico”
dissi, senza alcuna intonazione particolare: ero talmente sbigottita
dalle rivelazioni di quella ragazzina che non sapevo come risponderle.
Io non
avevo mai avuto talenti particolari, anche se andavo molto fiera di
ciò che sapevo fare: ero una brava ballerina, suonavo il
pianoforte e cantavo a squarciagola tutte le canzoni che ascoltavo,
senza sbagliare una nota al primo tentativo; ma non avevo mai provato a
spostare degli oggetti con la forza del pensiero, né
riuscivo a comunicare con mia mamma
telepaticamente.
Erano,
per me, delle facoltà inarrivabili.
Ed ora
incontro una bambina che possiede una forza psichica incredibile!
“Ah,
che stupida, non mi sono presentata! Sono Michael Diana Josefina, ma tu
puoi chiamarmi solo Mike!”
Porgo
la mano alla mia interlocutrice, che alza la testa solo per guardarmi
profondamente con le sue iridi nocciola, ma non ricambia il saluto.
Accenna
soltanto una caustica risposta.
“Io
mi chiamo Isabel, ma mia
mamma mi chiama Manasvi, che nella sua lingua significa intelligente”
“Fico!
Di che nazionalità
è, tua madre?”
“È
indiana”
“E
tuo padre?”
“Lui
viene dal Messico, e prima di venire qui
abitavamo nella Penisola della California”
“Davvero?
Il mio maggiordomo è californiano, si chiama Fernando!
Cucina benissimo, le sue
tortillas sono deliziose!”
Sentendo
le mie ultime parole, Isabel si scosse dal suo etereo torpore, ed il
suo naso arrivò a toccare il mio nel giro di neanche due
secondi: era bastato il ricordo del cibo a svegliarla dal suo
impegnativo lavoro, e mi stupiva che una bambina così
speciale e provvista di una mente eccezionale potesse essere attaccata
ai beni materiali in modo così maniacale!
“Come
hai detto che si chiama il tuo maggiordomo?”
“Fe-fernando…”
“Oh…Okay”
Isabel
si allontanò lentamente da me, senza distogliere i propri
occhi dai miei, ritornando alla sua silenziosa occupazione.
Io
arricciai il naso stupita: quella bambina era davvero strana!
Ma
c’era qualcosa in lei che mi attraeva: non era una semplice
simpatia, e neanche un fatto mentale.
La mia
anima e la sua erano molto simili, quasi gemelle.
Anche
lei era diversa dalle altre, possedeva abilità innate ed una
voce molto matura per una bambina, così tanto da far paura.
Cominciavo
ad affezionarmi a lei, nonostante la conoscessi da qualche minuto.
“Ehi,
se vuoi assaggiare le tortillas di Fernando posso anche accompagnarti a
casa mia…Solo che non so come ritornarci…”
“Ti
aiuto io a ritrovare la strada, seguimi”
Isabel
si alzò finalmente dal bordo del marciapiede e mi prese per
mano: quel gesto così semplice trasformò il mio
corpo, rendendolo incandescente come lava viva, e facendomi mancare il
respiro per la grande forza che si stava addentrando in me, fino al
centro esatto del cuore, facendone accelerare i battiti.
Quando
mi ripresi, faticosamente, il visino di Isabel mi fissava perplesso,
stringendo ancora la mia mano.
“La
tua pelle è molto fresca: sembra la carezza di un vento di
montagna”
Sembrava
non essersi accorta del mio mancamento, anche se nel suo sguardo si
leggeva il suo turbamento, mentre la voce era profonda e dolce come
sempre.
Non
seppi come rispondere: le sue poche parole mi lasciavano muta, con un
grande punto interrogativo al posto del cervello.
Sapevo
soltanto che dovevo fidarmi di lei, che mi avrebbe condotta fino a
casa, e che avremmo mangiato tante tortillas da far scoppiare i nostri
pancini.
Fu
così che ci incamminammo per le vie della città,
mano nella mano, in assoluto silenzio: i passanti ci osservavano
curiosi, alcuni si fermavano addirittura ad ammirare lo spettacolo,
altri rimanevano immobili, a bocca aperta, altri inciampavano sui
propri passi, altri ancora andavano a sbattere contro un lampione, ma
io e la mia nuova amica (perché di
questo si trattava) non badavamo molto a loro, e continuavamo
imperterrite il nostro cammino.
Arrivammo
davanti al cancello della mia villa in pochissimo tempo: il tempo in
compagnia di Isabel era volato.
Ed il
tempo con mia nonna e mia madre che mi sgridavano per essere fuggita di
casa sarebbe stato simile ad un macigno sulla mia piccola
testa… Se un fattore estraneo non sarebbe incorso a salvarmi
la vita.
Quando
spinsi il cancello per entrare, nessuno di mia conoscenza mi
assalì, anzi! Fernando sfoggiava un sorrisone degno di Louis
Armstrong, e mi salutò calorosamente, chiedendomi chi fosse
la bambina di fianco a me.
“Si
chiama Isabel” gli risposi “L’ho
incontrata poco distante da qui, e quando ha saputo che cucini delle
tortillas formidabili non ha perso tempo e mi ha chiesto di
accompagnarla a casa mia!”
“Hai
fatto proprio bene, cara! Ora finisco di potare le aiuole e sono da
voi. Intanto potete accomodarvi in
cucina”
Non mi
sembrava vero che Fernando, un tipo scostante e sempre imbronciato,
potesse essere così gentile con una sconosciuta, oltretutto
con una mia amica!
Era
qualcosa di incredibilmente meraviglioso, anche se non sapevo spiegarmi
il perché del suo strano comportamento: magari non si era
accorto veramente della mia scomparsa, e pensava che avessi fatto il
giro della casa, entrando così dal cancello
principale…
Purtroppo
le mie ipotesi erano deboli, e ben presto mi arresi all’idea
che i miei erano così stupidi da non essersi accorti dalla
mia fuga (meglio così, in fondo!) e che potevo presentare
Isabel alla mamma ed alla nonna senza troppi intoppi.
In
effetti erano
molto felici di conoscerla, e la ritenevano “davvero una
bambina brava e carina!”, e si offrirono anche di riportarla
a casa dopo la nostra merenda, ma lei declinò
l’invito con gentilezza, e dopo avermi indirizzato un altro
sguardo indagatore, spinse il pesante portone principale della nostra
casa e si incamminò verso il cancello, con una calma a dir
poco innaturale.
L’ultima
cosa che vidi di lei fu la sua treccia scura dondolare sul vestito
variopinto, muovendosi al ritmo dei passi della padrona.
Da
quello strano giorno Isabel venne spesso a trovarmi: talvolta mi
aspettava seduta sul marciapiede intenta a contare i suoi innumerevoli
capelli intrecciati e profumati, altre volte suonava direttamente il
campanello e chiedeva di me.
Quante
sere mi sono addormentata con il desiderio di risvegliarmi la mattina
successiva con la voce di Fernando che annunciava il suo arrivo! Non
ero mai stata così felice in tutta la mia vita: finalmente
avevo un’amica, una vera amica,
e con lei il mondo non mi sembrava più così
ingiusto come una volta.
Con
lei potevo parlare di qualsiasi cosa: aveva un’intelligenza
sconfinata.
Aveva
imparato a leggere a quattro anni, ed ora che ne aveva sei, le sue
letture preferite erano antichi scritti in sanscrito o in farsi, che
traduceva e comprendeva molto velocemente, grazie anche
all’aiuto della mamma, originaria di un paesino sperduto tra
il verde vicino Mumbay, oppure poesie e testi di filosofia
orientale, alcuni dei quali mi leggeva spesso ad alta
voce, facendomi emozionare moltissimo per la toccante interpretazione.
Isabel
aveva una voce meravigliosa, ma nonostante ciò non amava
cantare, e neanche ballare.
Si
riteneva piuttosto goffa, e preferiva leggere sdraiata sul divano che
giocare con i suoi coetanei, i quali la ritenevano piuttosto strana:
lei però, non dava molto peso alle loro chiacchiere, e
riusciva quasi sempre a vendicarsi di chi la prendeva in giro.
Mi
raccontò che, una volta, quando era ancora molto piccola ed
abitava nella California, un bambino più grande
l’aveva insultata per via dei suoi lunghi capelli ondulati,
che teneva sempre sciolti lungo la schiena, dicendole che era troppo
piccola per poter sopportare il peso dei capelli sulla testa.
Lei
all’inizio non mostrò alcun interesse per le
parole del ragazzino, rimanendo immobile e zitta a fissare
l’orizzonte del mare primaverile, ma dopo qualche minuto lo
stesso si sentì sollevare in aria per i capelli, per poi
essere trascinato per tutto il paese, urlando e lamentandosi, senza
tuttavia capire da dove provenisse la misteriosa forza che lo stava
sfottendo.
Non si
era infatti accorto che
la piccola Isabel lo seguiva a debita distanza, mantenendo lo sguardo
fisso su di lui, una selvaggia gioia che brillava nei suoi occhi
sinceri.
Grazie
ai suoi poteri poteva vendicarsi senza far del male a nessuno, e ne era
molto soddisfatta: odiava la violenza, soprattutto se per puro
divertimento.
Non
capiva cosa gli uomini ci vedessero di così bello nelle armi
e nelle uniformi militari, pomposo sfoggio di macabre azioni compiute
per il bene della patria e per la gioia delle famiglie.
Io
appoggiavo appieno le sue idee, ritenevo la guerra un crimine
dell’intera umanità: gli uomini erano molto
stupidi se non riuscivano a risolvere i propri problemi con altri Stati
utilizzando la diplomazia.
Mi
pare che non abbia fatto male a nessuno…
La
guerra, invece, provoca solo dolore, ed è ingiusto
combattere se si ha davanti un nemico più debole ed
impreparato, ma la maggior parte delle volte è stato
così.
Non
posso far altro che vergognarmi per i soprusi che il mio Paese ha
compiuto in passato verso chi non era capace di difendersi, oltretutto
idolatrando gli artefici di certi scempi.
Sono
avvenimenti orribili, sui quali molti onesti cittadini americani
dovrebbero riflettere.
E se
non riuscivano a riflettere da soli, c’era Isabel che li
aiutava: era capace di controllare i pensieri e perciò le
azioni degli altri, ma usava questo potere solo nei casi di emergenza,
e quando riteneva fosse opportuno non creare ulteriori impicci da parte
di persone cocciute o imprudenti al danno di individui ragionevoli e
dotati di un ottimo cervello.
Era la
stessa tecnica che aveva adottato con la mia famiglia, e quando me lo
disse ci rimasi di stucco! Non avevo minimamente pensato che i suoi
poteri psichici potessero essere così potenti, e neanche che
li avesse usati per non farmi sgridare da mia
mamma o da Fernando; ma dopo lo sconcerto iniziale, capii
che l’aveva fatto solamente
perché mi voleva bene, e naturalmente per permettermi di
incontrarla altre volte.
Era
molto gentile e generosa, nonostante il suo apparente mutismo, e sapeva
riempirti la giornata in pochi minuti.
Riuscivamo
a capirci anche senza parlare, sia oralmente che mentalmente, anche
perché la mia mente non era così sviluppata da
permettermi di comunicare con Isabel senza alzare la voce.
Lei,
invece, poteva vedere cosa passava per la mia testa, e me ne accorgevo
avvertendo una sgradevole sensazione ai lati della testa: come se mi
stessero aprendo il cervello e vi frugassero con le mani senza alcuna
pietà.
Infatti,
dopo neanche due volte, Isabel smise di osservare i miei pensieri, e si
concentrò di più sul mio aspetto: mi riteneva una
bambina molto fortunata, e soprattutto ricca.
Io le
rispondevo che non era così, ma lei insisteva, e mi invitava
a guardarmi allo specchio, poiché molte volte chi ha delle
grandi qualità o una montagna di soldi tende a nasconderli,
negando sempre la verità.
Eppure
ogni volta che mi specchiavo, non vedevo una bambina fortunata e ricca:
vedevo Mike, punto e basta.
O al
massimo, una bambina felice.
Nulla
più.
Un’altra
curiosa caratteristica di Isabel era il suo insaziabile appetito:
adorava mangiare, soprattutto i dolci, e non disdegnava nessun piatto,
neanche il più apparentemente disgustoso.
Ed il
bello era che non ingrassava di un chilo, rimaneva sempre magra e
leggera come un fuscello.
Forse
il cibo era l’unico appiglio al mondo terreno, che le
impediva di volar via con la mente, poiché ogni volta che si
trovava a tavola si trasformava in una bambina normale, senza alcun
potere sovrannaturale, e perdeva quella bella voce profonda che tanto
mi piaceva.
Ma non
appena si alzava dalla sedia e non vi era più traccia di
cibo nel suo piatto, ritornava la Isabel
silenziosa e sincera di sempre, quell’amica di cui potevo
sempre fidarmi.
Quell’amica
che non mi avrebbe mai tradito.
Piccola
e magra, ma con una grande mente,
un grande stomaco, e soprattutto un grande cuore.
Rieccomi,
signorineeeeeeeeeeeeeeeeee *___*
Allora, vi
sono mancata?=D Spero di sì, perché voi vi siete
mancate tantissimo!
Non vedevo
l’ora di pubblicare questa seconda parte per leggere i vostri
commenti e scoprire cosa ne pensiate!XD Purtroppo non
aggiornerò con cadenza regolare, la scuola non mi permette
certi svaghi -.-“ Ma
sappiate che ora mi sono ingegnata!ù__ù Ho
già scritto tre capitoli (di cui l’ultimo
è da finire) e pubblicherò il secondo non appena
avrò iniziato il quarto.
Perciò
non manca molto, abbiate un po’ di pazienza!XD Vi chiedo
anche di pazientare in questi mesi, per i motivi che già vi
ho esposto.
Per favore,
non prendetevela con me e con la mia pigrizia, perché tanto
non servirà a nulla! Prendetevela con la mia maledetta
scuola!ù__ù
Vabbè,
ora è arrivato il momento di spiegarvi un po’ di
cosette: innanzitutto la narratrice sarà Mike, la nipote di
Fiorellino, come lei lo fu a suo tempo, ma alcune volte
userò la terza persona per descrivere luoghi e situazioni diversi dalla
prospettiva di Mike. Inoltre, non parlerò propriamente di
Michael, ma anche di altri artisti molto importanti, e tutto
ciò per un motivo preciso, che vi spiegherò
successivamente XD
Ah,
un’altra cosa: proprio perché compariranno artisti
differenti da Michael, non sarà propriamente una storia su
di lui… Perciò, starà a voi decidere
se inserirla o meno
nelle crossover =D Naturalmente i primi capitoli non sono
così importanti da questo punto di vista, ma col tempo
potrete inviarmi delle proposte!
Okay, ho
detto tutto!XD Ringrazio tutti coloro che hanno seguito la prima parte
di Will You Be There (e spero seguano anche la seconda XD) e tutti i
nuovi fan che mi farò ù__ù (che
modestia!)
Ringrazio
inoltre le care Rò (GioTanner)
ed Ale (_Ticket) per avermi aiutato
a scegliere titolo e sottotitolo di questo capitolo: grazie infinite,
ragazze! Senza di voi non so come farei!*__*
Ancora
tantissimi abbracci pelosi e ricciolosi =D
La vostra Looney resuscitata!**