La Perenne Tentazione
Della Vita
E’ Quella Di Confondere
I Sogni Con La
Realtà
Jim Morrison
Capitolo
2: Ripetizioni Di Matematica
Amy ed io sfrecciavamo sulla
strada veloci
come al solito, mi piaceva andare veloce, mi donava
un’ebbrezza che niente
sapeva darmi.
Come ogni giorno non ci
stavamo dirigendo subito
a casa. Perché? Amy doveva sempre fare una piccola e,
secondo me, assurda e
morbosa deviazione: dovevamo controllare suo fratello.
Amy viene da una famiglia di
quattro figli: due
maschi e due femmine che si alternano, cioè maschio femmina
maschio femmina come
se i loro genitori lo avessero programmato.
Roberto era il maggiore,
più grande di noi di
tre anni, frequentava il secondo anno
all’università alla facoltà di
psicologia; Amy era la seconda e Caterina la più piccola di
soli sei anni.
Quello che interessava in questo momento a noi era però il
fratello di mezzo,
che veniva subito dopo Amy: Luca. Frequentava il secondo superiore al
Liceo
Scientifico De Giorgi. Pieno di sé e sofferente di smanie di
protagonismo, a
volte sapeva essere anche gentile. Amy lo adorava, però
aveva anche una strana
forma di iperprotezione verso di lui e nonostante avesse ormai quindici
anni
continuava a controllarlo peggio di una madre apprensiva. I loro
genitori
cercavano di dargli più spazio e lei cercava di toglierlo.
Probabilmente per uno
spettatore esterno, come
me, quella situazione era assolutamente assurda, ma per loro era del
tutto
normale, anzi ormai non ci facevano più caso. Tranne il
povero Luca che doveva
sopportare il comportamento idiota di Amy.
L’estate
precedente, quando ancora non mi ero
resa a conto a che livello fosse arrivata l’idiozia di Amy,
ero andata al mare
con tutta la famiglia Tarantino al completo. Insieme a noi
c’era anche qualche
amico di Luca.
Amy ed io ce ne stavamo in
acqua a fare bagno,
quando lei a un certo punto ha espresso il vivo desiderio di fare una
nuotata,
il che mi è sembrato strano visto che lei odiava nuotare, ma
ho accettato. Appena
siamo partite ha cominciato a nuotare come una pazza e andava anche
parecchio
di fretta; ci eravamo allontanate notevolmente dalla riva e avevo
cercato di
farglielo notare, ma lei non mi dava retta. Alla fine, quando ormai
stavo per
morire di stanchezza, siamo arrivate vicino ad un pedalò ed
Amy si è fermata di
colpo.
Mi sono voltata verso la
spiaggia e con sommo
terrore notai che era lontanissima, gli ombrelloni sembrava i piccoli
pezzi di
una scacchiera colorata.
Ad un tratto ho sentito la
voce imbestialita
di Luca che stava litigando con Amy. Luca? In mezzo al mare? Ovviamente
era sul
pedalò che aveva affittato insieme ai suoi amici e ce
l’aveva con Amy perché lo
aveva praticamente pedinato- già pedinare una persona sulla
terraferma denota
una certa assenza di neuroni ma seguirla a nuoto era troppo.
Senza pensarci due volte
diede subito ragione
a Luca, anche perché quella stupida aveva rischiato di farci
annegare tutte e
due a costo di seguirlo. Gli amici di Luca mi chiesero se volevo salire
a bordo
per riprendermi, dovevo sembrare un cadavere vivente; avevo accettato
con gioia
ma Luca urlò un secco “no”. A quel punto
non sapevo più se strozzare Amy o
annegare Luca, le mie priorità erano piuttosto confuse in
quel momento.
I suoi amici lo mandarono a
quel paese e mi
allungarono una mano per aiutarmi a salire, ma lui si era messo alla
postazione
di guida ed era partito a razzo, in pochi attimi era lontano centinai
di metri.
Annegare lui arrivò all’improvviso in cima alla
lista delle cose da fare appena
fossi riuscita a riprendermi dalla stanchezza.
Così io ed Amy,
lasciate a noi stesse senza un
briciolo di pietà, tornammo lentamente, ma molto lentamente,
a riva. Gliene
dissi così tante che tutti in spiaggia si voltarono a
guardarci, ma non me ne
importava niente, era già tanto se non la strozzavo davvero.
Da quel
giorno avevo deciso di non assecondare mai più Amy quando si
trattava di Luca,
ma lei mi aveva pregato di accompagnarla ogni tanto alla scuola di suo
fratello
per dargli un’occhiata visto che secondo lei si stava
comportando in modo insolito.
Inizialmente ero stata categorica, non avevo alcuna intenzione di
essere
coinvolta ancora, però alla fine anch’io avevo
notato qualche piccolo
cambiamento in Luca, niente che potesse preoccupare ma le paranoie di
Amy
avevano amplificato tutto a tal punto che avevo deciso di aiutarla.
Finché Luca
non si fosse accorto di niente sarebbe filato tutto il liscio, e se ci
avesse
scoperte, be’… avrei mollato Amy lì a
vedersela con le ire di suo fratello e
sarei scappata via alla velocità della luce. Ci mancava solo
che venissi rimproverata
da un ragazzino.
Come ogni giorno mi fermai
una ventina di
metri prima dell’ingresso dello Scientifico ed Amy scese
senza togliersi il
casco: aveva la ferma convinzione che se anche Luca l’avesse
vista non
l’avrebbe mai riconosciuta con indosso il casco. Io ero
altamente scettica su
questo punto, ma era inutile ribattere con lei quindi la lasciavo fare.
Luca non tardò ad
uscire, insieme al resto
dell’istituto, appena la campanella suonò. Amy si
nascose dietro un albero,
mentre io continuavo a starmene annoiata sul mio scooter.
-Vale, nasconditi anche tu-,
mi bisbigliò
contrariata.
-Come te lo devo dire che
non ne ho alcuna
intenzione. Io non sono tua complice, sono solo il tuo mezzo di
trasporto.-
-Ma se ti vede?-
-Tuo fratello vede solo le
ragazzine carine
che gli girano intorno, non ha occhi per vedere me ce li ha coperti da
fette di
falsa popolarità.-
-Proprio non lo sopporti
vero?- chiese lei ridendo.
-Mi ricorda troppo il figlio
della D’Arcangelo
e quell’altra cima del suo amico, hanno li stessi identici
atteggiamenti, quindi
perdonami se odio anche tuo fratello ma è nel mio DNA non
sopportare quelli
come lui.-
-Ah, figurati. Per me
l’importante è che quel
moccioso non si metta nei guai, per quanto mi riguarda lo puoi odiare a
vita. –
Luca era quasi arrivato
all’angolo da dove
avrebbe preso la strada per raggiungere la fermata
dell’autobus.
-Avanti, sali-, dissi alla
OO7 che stava
dietro l’angolo. –La tua preda ha appena svoltato
l’angolo.-
Mentre Amy saliva dietro di
me, il mio sguardo
si mosse quasi in modo automatico verso uno degli alberi che stava
più avanti
lungo il viale che portava alla caserma della cavalleria. Non sapevo
perché ma
avevo la spiacevole sensazione di essere osservata, era come essere
puntata
dalla luce di un faro.
-Ma che hai?- mi chiese Amy
notando che
tardavo a partire.
-Non hai una strana
sensazione?-
-Di che stai parlando? Non
ti starà mica
venendo la febbre?- domandò preoccupata.
Lanciai un ultimo sguardo a
quell’albero. La
sensazione continuava a persistere.
“Sto diventando
paranoica”, mi dissi mettendo
in moto lo scooter. “Ci mancava solo questa.”
Partii velocemente e
passando accanto
all’albero incriminato mi lasciai sfuggire un sorriso.
“Sto diventando
paranoica sul serio.”
Dietro l’albero
non c’era nessuno, o almeno
così mi era sembrato quel giorno.
Una volta arrivata a casa mi
sentii finalmente
solleva. Parcheggiai lo scooter nel nostro enorme garage, facendo
sempre
attenzione a non strisciarlo contro il muro altrimenti mio padre
avrebbe
riservato lo stesso trattamento a me. Aprii il bauletto e recuperai il
mio
zaino; salii i due piani di scale riscoprendo una nuova grinta in
quella
giornata quasi da incubo, e ritrovandomi a sorridere.
Ah, casa dolce casa!
Davanti alla porta mi fermai
un secondo
pensierosa. Ero in meditazione zen? Macché, non stavo
trovando le chiavi della
porta in nessuna delle mie tasche, il che fece volatilizzare il mio
sorriso
alla velocità della luce. Cominciai a tirare fuori di tutto,
avevo persino
trovato una caramella che doveva avere la stessa età di mia
nonna ma delle
chiavi neanche l’ombra.
Ora c’è
da dire che all’età di dieci anni ero
uscita tranquilla e felice con la mia bicicletta nuova dimenticandomi
le chiavi
a casa come una pera. I miei genitori erano a lavoro, quindi quando
tornai ero
rimasta fuori come un balcone: ero praticamente terrorizzata. Non
sapevo cosa
fare, non avevo cellulare e anche i miei vicini di casa non
c’erano. Avevo
guardato l’orologio e con il terrore che continuava a
scorrermi nelle vene mi
ero fatta un paio di conti veloci: mia madre sarebbe tornata dopo due
ore e mio
padre dopo quattro. Non so cosa mi abbia impedito di mettermi a
piangere, fatto
sta che mi sono messa in sella alla mia bici e ho cominciato a pedalare
verso
casa di mia nonna che era l’unica più vicina a
casa mia, più vicina poi… Erano
comunque una decina di chilometri con l’obbligo di passare
prima da una strada
di campagna non frequentata da nessuno e poi una strada principale con
le
macchine che sfrecciavano a velocità che superavano il
limite umano. Ero
riuscita ad arrivare sana e salva grazie all’aiuto di non so
quale santo e da
quel giorno avevo sempre avuto la paura di non avere le chiavi di casa.
Quindi notando che non erano
da nessuna parte,
cominciai ad andare letteralmente nel panico, nonostante non avessi
più dieci
anni ma diciotto suonati. Presi il cellulare dalla tasca, mi sedetti a
terra
con la schiena poggiata alla porta e composi velocemente il numero di
mia madre
mentre andavo in iperventilazione. Il telefono squillava libero.
-Mamma!- esclamai appena
sentii la voce di mia
madre che rispondeva.
-Tasca interna dello zaino-,
disse quella con
calma.
-Come?-
-Le chiavi di casa, sono
nella tasca interna
del tuo zaino-, continuò lei con comprensione.
Mollai il telefono a terra e
aprii lo zaino il
più velocemente possibile, lanciai in aria tutti i libri e
finalmente infilai
la mano in quella benedetta tasca. Appena la mia mano strinse qualcosa
di freddo
e metallico il mio cuore cominciò a battere dalla
felicità. La feci riemergere lentamente
e con giubilo notai che avevo afferrato le chiavi di casa con il mio
adorato
portachiavi a forma di piccolo infradito con i fiori, ricordo del mio
viaggio
in Spagna.
Presi il telefono e lo
riportai all’orecchio.
-Ma… Ma come
facevi a saperlo?-
-Stamattina quando ti sei
svegliata, in
ritardo come al solito aggiungerei, tra il lavaggio dei denti e
l’indossare i
calzini mi hai urlato di prendere le tue chiavi, che avevi lasciato sul
mobile
dell’ingresso, e di metterle nello zaino.-
Come un flashback tutta la
scena mi apparve
davanti agli occhi.
Stavo seduta sul letto con
lo spazzolino
ficcato in bocca, mentre cercavo di infilarmi i calzini alla
velocità della
luce. Lo sguardo che mi cadeva continuamente sulla sveglia, e quella
che mi sbeffeggiava
facendomi notare che avevo solo dieci minuti prima che le porte della
scuola si
chiudessero. Nel frattempo quell’anima candida di Amy
continuava a farmi
squilli per intimarmi di sbrigarmi, e io come una pazza avevo
cominciato a
gridare a mia madre di mettermi cose nello zaino. Tra cui libri di
latino,
quaderni, diario e alla fine anche le chiavi.
Mi sentii sprofondare.
-Scusa, se ti ho chiamata
per questa scemenza,
mamma-, dissi con voce mortificata.
-Figurati, sapevo che lo
avresti fatto-,
rispose lei divertita. –Di solito metti le chiavi nel
giubbotto, non ti saresti
mai ricordata di averle nello zaino.-
-Leggi nel futuro per caso?-
chiesi contenta.
-No, conosco quella pazzoide
di mia figlia.-
- Anch’io ti
voglio bene, mammina-, odiava
essere chiamata mammina, era più o meno come per me con il
cognome.
-Riattacca prima che ti
strozzi tramite
telefono-, disse piuttosto irritata.
-Ok, ci vediamo a cena-,
risposi sorridendo.
-A stasera-, concluse lei
con una piccola nota
divertita nella voce.
Infilai la chiave nella
serratura e subito
sentii il famigliare rumore di unghiette contro il legno. Spalancai la
porta e
la mia piccola Sissi mi venne incontro cominciando a saltare da una
parte
all’altra e a scodinzolare dalla gioia.
-Ciao, tesoro-, dissi
accarezzandola e dandole
una lunga grattatina dietro l’orecchio, sapevo quanto le
avrebbe fatto piacere.
Sissi, un cocker americano
color nocciola, era
l’unica creatura sulla faccia della Terra che riuscisse a
farmi riprendere
completamente da una giornata infernale come quella che avevo vissuto
fino a
quel momento.
Lasciai lo zaino a terra e
mi diressi con
calma verso il divano, abbandonandomi interamente a quella goduria che
era
stare stesa tra soffici cuscini. Chiusi gli occhi e prima che potessi
fermarla,
la mia mente cominciò a vagare alla ricerca di
chissà quale modo per
rilassarsi.
Stranamente mi ritrovai a
pensare alle mie
ultime vacanze, le avevo trascorse in Belgio con la mia famiglia:
eravamo
andati a trovare alcuni parenti e giacché avevamo
partecipato al matrimonio di
una cugina di mia madre. Era stata davvero una giornata fantastica, mi
ero
divertita tanto. Alla fine della festa avevo anche ballato un lento con
un
altro cugino di mia madre che aveva qualche anno più di me:
era dolce e
simpatico, il suo sorriso mi ricordava molto quello di
Marco… Spalancai gli
occhi seccata. No, meglio cambiare ricordo, questo non era per niente
piacevole. Richiusi gli occhi e mi lasciai avvolgere dal tepore dei
cuscini. La
festa per i miei diciotto anni a febbraio, era uno dei miei ricordi
più
piacevoli soprattutto perché vi avevano preso parte tutti i
miei amici. Avevamo
ballato, mangiato, riso e avevo invitato anche Luca, il fratello di Amy
che come
al solito si era comportato da bambino viziato… Mi ricordava
così tanto Draco…
Ahi, i miei pensieri stavano prendendo una brutta piega, dovevo
inventarmi un
diversivo al più presto, altrimenti avrei rischiato di
passare il resto della
giornata ad essere irritata e irritabile.
Mi alzai dal divano, che
ormai non aveva alcun
effetto anestetico sui miei brutti pensieri, andai in cucina e
cominciai ad
aprire tutti gli sportelli dei mobili, alla ricerca di qualcosa che non
sapevo neanche
io.
Non avevo fame,
però avevo voglia di cucinare,
e quando ero nervosa l’unica cosa che mi usciva alla grande
erano i dolci.
Controllai che ci fossero tutti gli ingredienti, ma per fortuna avevamo
fatto
spesa grande il giorno prima, quindi non mancava nulla. Corsi verso la
mia
camera e mi cambiai, indossando qualcosa di più comodo:
pinocchietti da
palestra neri, maglietta rosa pallido a maniche corte e legai i capelli
in una
coda di cavallo. Ci mancava solo che mio padre trovasse un mio capello
nella
torta, sarebbe successo il finimondo, e poi mi avrebbe dato anche
fastidio. Afferrai
il mio ipode poggiato sul comodino e tornai in cucina dove infilai il
mio
grembiule blu, regalo della mia cara nonna, e diedi inizio alla mia
opera.
Avevo intenzione di fare una
Torta Mimosa, un
dolce abbastanza complicato da tenere la mia mente abbastanza impegnata
e da
occupare almeno metà del pomeriggio: praticamente, come
minimo, quattro ore di
sano non pensare a niente, ma solo a riuscire a mescolare bene le uova
con lo
zucchero affinché venisse fuori un impasto abbastanza
spumoso da far gonfiare
il Pan di Spagna come si deve.
Ero contenta, come ogni
volta che facevo un
dolce d'altronde, e i miei pensieri divennero all’improvviso
molto più
piacevoli.
Mentre mettevo il Pan di
Spagna in forno,
sentii il mio cellulare che squillava ma guardandomi attorno non lo
vidi da nessuna
parte.
-Dove cavolo è
andato a finire?- mormorai
spazientita.
Iniziai a percorrere tutta
la sala da pranzo
cercando di capire dove il suono si sentisse di più. Poi la
piccola Sissi
abbaiò in direzione del divano dove mi ero spalmata poco
prima; di sicuro il
cellulare doveva essermi caduto dalla tasca.
-Grazie, tesoro-, dissi
accarezzandole la
testa e tirando fuori il cellulare da sotto il cuscino.
-Pronto?- dissi sedendomi
sul divano.
-La signorina Ferrari?-
chiese la voce di
donna dall’altra parte.
-Sì-, risposi io
confusa non mi capitava
spesso di sentirmi chiamare in quel modo.
-Salve, sono Monica Buttazzo
la chiamavo per
sapere se è lei che dà ripetizioni di
matematica.-
-Sì, sono io.-
-Oh, bene-, rispose quella
sollevata. –Volevo
sapere se è possibile per lei dare ripetizioni a mio
figlio.-
-Nessun problema-, risposi
io. –Che classe frequenta?-
-Il quinto superiore.-
-Capisco-, dissi pensierosa.
–E’ possibile che
io non possa aiutarlo molto comunque perché frequentiamo lo
stesso anno e non
so che programma segue lui.-
-Oh-, disse la signora
rattristata.
-Facciamo così,
signora-, dissi cercando di
sembrare più allegra. –E’ possibile per
suo figlio venire qua oggi?-
-Credo di sì. -
- Bene, allora lo faccia
venire a casa mia, ci
parlo e vedo se posso fare qualcosa. Naturalmente non è
contata come lezione.-
-Lo farebbe davvero
signorina? Sa, sto
impazzendo, mio figlio non riesce a capire niente di matematica. Ho
provato
anche dei professori universitari ma non funziona nulla. Siccome
quest’anno ha
gli esami non voglio rischiare che venga bocciato, anche se riesce a
raggiungere
la sufficienza.-
- Be’ è
possibile che con l’aiuto di una
coetanea la cosa per lui sia più facile, a volte i
professori non fanno altro
che mettere in soggezione, soprattutto se sono universitari.-
-E’ esattamente
quello che ho pensato io-,
disse la signora felice. –Le va bene se mio figlio si fa
trovare a casa sua per
le quattro?-
-Sì, non ci sono
problemi. Conosce il mio indirizzo?-
-Era scritto sul volantino
che ho trovato in
cartoleria.-
-Perfetto, quindi lo
aspetto-, risposi al settimo
cielo.
-La ringrazio ancora.-
-Di niente, signora.-
Riagganciai contenta, era da
un po’ che non
avevo ragazzi per le ripetizioni. In genere lo facevo solo per quelli
delle
medie o dei primi anni delle superiori, la matematica delle classi
terminali assorbiva
già completamente da sola tutte le mie energie senza che ci
fosse bisogno di
insegnarla anche ad altri però quella signora mi era
sembrata così disperata
che non avevo saputo dirle di no. Dopotutto un po’ di soldi
mi avrebbero anche
fatto comodo, avevo preso la patente da poco e avevo voglia di
comprarmi una
macchina. Naturalmente ero consapevole che non ce l’avrei
fatta di certo dando
ripetizioni, però intanto sarebbe stato un inizio.
Mi rimisi le cuffiette
dell’ipode nelle
orecchie e mentre aspettavo che il Pan Di Spagna finisse di cuocersi
mandai un
sms a Marti e ad Amy.
Ho
trovato un nuovo ragazzo a cui dare ripetizioni. La macchina si
avvicina!
Entrambe ci misero pochi
secondi a rispondere.
Essendo io l’unica di noi tre ad avere già la
patente, il fatto che prendessi
una macchina avrebbe giovato a tutto il gruppo.
Amy: Grande!
Sono contentissima! Datti da fare
che poi dobbiamo farci qualche scorrazzata a Lecce.
Sempre la solita
opportunista, mi voleva solo
sfruttare.
Marti: Evvai!
Macchina!
Sintetica ma molto chiara,
anche nel suo sms
si avvertiva quella nota di opportunismo dovuto alla circostanza ma
riflettendoci probabilmente anch’io mi sarei comportata come
loro.
Il timer del forno mi
avvisò che il Pan di
Spagna era arrivato al punto di cottura perfetta.
Aprii il forno e tirai fuori
la teglia. In
casa si era diffuso l’inconfondibile aroma zuccheroso e
irresistibile del dolce.
La piccola Sissi
alzò il naso e cominciò ad
annusare l’aria rapita. Subito si mise a scodinzolare golosa,
senza sapere che
difficilmente avrebbe racimolato qualcosa: il veterinario le aveva
vietato categoricamente
i dolci. Povera…
Però in effetti
anch’io avrei dovuto darmi una
regolata, ultimamente avevo messo su un bel po’ di massa
corporea.
“Questo
è l’ultimo dolce che faccio, almeno fino
al mio compleanno”, pensai con fare deciso.
Misi da parte il Pan di
Spagna per farlo
raffreddare e cominciai a preparare la crema e a montare la panna.
Un’ora dopo il mio
capolavoro era finito: era
venuta perfetta come al mio solito e questa volta mi ero anche data da
fare con
le decorazioni. Insomma era stupenda!
Lanciai una veloce occhiata
all’orologio della
sala da pranzo e notai che mancavano pochi minuti alle quattro. Non
avrei fatto
in tempo a farmi una doccia perciò avrei dovuto accogliere
il mio possibile alunno
in quelle condizioni. Magari per farmi perdonare gli avrei potuto
offrire una
fetta di torta, di sicuro mi avrebbe largamente ringraziata e si
sarebbe
scordato del mio aspetto.
Purtroppo cucinare un dolce
come la
Torta Mimosa portava
via tempo e richiedeva parecchia fatica, quindi ero praticamente
inguardabile.
Il trucco di quella mattina sufficientemente sbavato, la frangia che si
era
appiccicata alla fronte a causa del sudore e i vestiti, se ancora
così si potevano
chiamare, macchiati di panna e farina.
Infondo non stavo mica
aspettando il principe
William o Jonnhy Depp, era anche possibile che mi si presentasse
davanti uno di
quei metallari con tanto di collare per cani chiodato e capelli
policromatici
tenuti su alla Goku Super Sayan con quantità industriali di
gel, o peggio un
ossuto tappetto, che si sarebbe spezzato al primo sternuto. Pensandoci,
forse
era meglio presentarmi in quelle condizioni, avrei scoraggiato ogni
pensiero
ormonale che inevitabilmente sottomette ogni ragazzo compreso tra i
tredici e i
diciannove anni ogni volta che adocchia qualcosa fornito di tette e
culo.
Non riuscii a non farmi
sfuggire una risatina.
All’improvviso
però mi bloccai, e se invece
fosse arrivato uno schianto colossale, magari anche stimolante
intellettualmente? Avrei steso il suo testosterone al primo sguardo
conciata in
quel modo barbaro.
Spalancai gli occhi
terrorizzata. Se mi fossi
trovata faccia a faccia con quel famoso uomo
della mia vita che stavo aspettando con ansia da ben diciotto
anni?
Non potevo assolutamente
permettere che accadesse
una cosa simile.
Lanciai un’altra
occhiata furiosa all’orologio:
avevo dieci minuti, solo dieci minuti.
Considerando che sono sempre
stata una ritardataria
cronica a causa del tempo infinito che ci metto a farmi la doccia e ad
asciugarmi capelli, quei miseri e insulsi dieci minuti mi sembrarono
improvvisamente una punizione divina.
Non avevo tempo per restare
a rimuginare sulla
mia sorte puntualmente avversa, dovevo assolutamente darmi una mossa.
Mi tolsi il grembiule e lo
lanciai in aria,
fiondandomi in bagno. Mi spogliai e mi infilai sotto la doccia,
l’aprii velocemente,
e siccome mi sembra di aver già detto di essere rimasta
orfana di fortuna, un
getto di acqua gelida mi colpì in pieno.
-Dannazione!- esclamai
infuriata.
Mi ritrassi immediatamente e
urtai contro il
muro il mignolo del piede destro, naturalmente quello che fa
più male.
-Maledizione!- imprecai.
Per piegarmi verso il mio
povero piede urtai
la fronte contro la porta della cabina-doccia.
-Ma che diavolo ho fatto di
male! Cavolo marcio!-
La fantasia per le
imprecazioni non mi mancava
di certo, anche se in quel momento l’avrei scambiata
volentieri con un bonus di
venti minuti.
Alla fine di questa piccola
serie di eventi
nefasti, riuscii a raggiungere il regolatore dell’acqua e
portai la temperatura
ad un livello umanamente sopportabile. Cominciai a lavarmi i capelli e
mi
rendevo conto con il terrore nel cuore che i minuti continuavano a
scorrere
inesorabili, assolutamente incuranti del fatto che stavo cercando con
tutte le
mie forze di essere un fulmine, impresa che non stavo portando avanti
con molto
successo in effetti.
Mi sciacquai velocemente e
uscii dalla doccia
avvolgendomi un asciugamano bianco sotto le braccia, e lasciando i
capelli
liberi: non avevo il tempo per avvolgerli in un asciugamano. Il mignolo
del
piede mi pulsava facendomi avvertire un dolore lancinante. Cercai di
non farci
caso e proprio mentre stavo aprendo la porta del bagno, sentii il
telefono
squillare.
-No-, mormorai.
–Perché proprio adesso...-
A casa mia il telefono aveva
un tempismo quasi
paranormale, suonava sempre nei momenti meno adatti, come se sentisse
di dover
rompere le scatole a tutti i costi.
Corsi verso il ricevitore e
lo portai
all’orecchio.
-Pronto?- La mia voce era
palesemente scocciata.
-Valeria, sono nonna-, disse
la dolce voce
dall’altra parte.
“NO!”
pensai atterrita. “Con tutte le persone
che ci sono al mondo proprio lei doveva chiamare adesso?!”
Be’ anche mia
nonna potrebbe essere definita
la donna del
tempismo, riusciva sempre a telefonare quando non doveva.
Considerando anche che se cominciava un discorso lo finiva
all’incirca il secolo
successivo, pensai che non poteva capitarmi cosa peggiore di una sua
telefonata.
Dire che la adoravo
è poco. Le ho sempre
voluto un bene dell’anima, era la mia seconda madre
praticamente, però non
potevo proprio perdere tempo al telefono con lei, avevo ancora i
capelli
gocciolanti ed ero praticamente mezza nuda.
-Ciao, nonna-, dissi con
tono sbrigativo.
Lanciai uno sguardo
terrorizzato all’orologio.
Avevo tre
minuti prima che scoccassero le quattro.
Pregai con tutte le mie
forze che il ragazzo
che stavo aspettando non fosse un maniaco della puntualità,
avevo un disperato
bisogno che fosse un ritardatario cronico.
-Tesoro, tutto bene? Ti
sento strana.-
-Va tutto bene, nonna-,
risposi contando ogni
passo avanti della lancetta dei secondi sull’orologio appeso
sul muro davanti a
me.
Due
minuti e cinquanta secondi.
“Ti prego, un
ritardatario, fa che sia un
ritardatario”, pensai sconsolata.
-Sicura?-
-Sì, è
solo che sono appena uscita dalla doccia.-
Non potevo essere scortese
con mia nonna.
Fosse stata un’altra persona le avrei chiuso il telefono in
faccia senza tanti
complimenti, ma con mia nonna non potevo farlo, anche perché
se lo sarebbe
legato al dito e poi avrei dovuto pregarla in cinese per poter essere
perdonata.
Due
minuti e trenta secondi.
-Ti serve qualcosa?- chiesi
con un'impercettibile
nota di urgenza nella voce.
Eppure quando si trattava di
me, anche le note
più incomprensibili per gli altri esseri umani, per mia
nonna diventavano come
sirene d’allarme; erano come gli ultrasuoni per i cani.
-Continuo a pensare che tu
sia strana,
Valeria-, disse lei sospettosa.
Due
minuti.
Dovevo inventarmi qualcosa
alla svelta per
liquidarla. Ma cosa? Quando diventava così apprensiva era
impossibile
sbarazzarsene senza darle una fornita spiegazione, e finché
le avessi spiegato
esattamente come stavano le cose sarebbero trascorse almeno due ere
geologiche.
-Sto bene. Sono solo stanca,
ho passato le ultime
due ore a fare una Mimosa-, risposi sicura che questo avrebbe
funzionato.
-Mimosa?- chiese lei con
curiosità.
Avevo proprio fatto centro,
quando si trattava
della mia Torta Mimosa la nonna andava in estasi. In questo momento le
sarebbe
potuto passare davanti un elefante indiano a bordo di una Yamaha e lei
non ci
avrebbe minimante fatto caso.
Guardai di nuovo
l’orologio.
Un
minuto e trenta secondi.
-Vuoi che più
tardi te ne porti un pezzo?-
cercai di mantenere il tono più calmo possibile.
-Se non ti crea
disturbo…-
-Nessun disturbo. Adesso
finisco di studiare e
prima dell’ora di cena te ne porterò un pezzo
enorme.-
-Ti ringrazio.-
-Di nulla, però
è meglio se vado a vestirmi,
nonna. Comincio a sentire freddo.- Balla colossale: eravamo ancora ai
primi di
ottobre, quindi praticamente in piena estate per la mia
città.
-Hai ragione, tesoro. Ci
vediamo più tardi.-
-A più tardi.-
Misi giù il
telefono con aria trionfante. Una
telefonata con mia nonna durata solo due minuti, mi sembrava un sogno.
Quel piccolo momento di
gioia fu sostituito
immediatamente dall’angoscia. Mi era rimasto solo un misero,
patetico minuto.
Sperai di poter fare almeno in tempo a vestirmi, per i capelli bagnati
non ci
sarebbero stati problemi, a parte il rischio di farmi venire la
cervicale.
Stavo per dirigermi nella
mia stanza, quando
suonò il campanello.
Mi sentii come se mi
avessero gettato addosso
un secchio di acqua gelida.
Ma quale minuto? Non avevo
neanche quello.
Non mi era capitato solo uno
fissato con la
puntualità, la mia maledetta sfortuna me ne aveva affibbiato
uno che arrivava
in anticipo. Che cavolo di ragazzo di diciotto anni arriva in anticipo
per
discutere sulle sue ripetizioni di matematica? La risposta invase la
mia mente
così velocemente che quando riuscii ad elaborarla non potei
fare altro che
spalancare la bocca: un occhialuto secchione brufoloso e accessoriato
di apparecchio
odontoiatrico. Ecco l’unico che non poteva vedere
l’ora di andare a ripetizioni
di matematica. Sicuramente doveva essere uno di quelli fissati con la
letteratura e la filosofia, per questo non andava d’accordo
con i numeri; non
potevo farmi vedere in quello stato da un ragazzo del genere, come
minimo gli
avrei fatto venire un infarto.
Pensai di ignorare il
campanello e di andare a
vestirmi, ma quel dannato ragazzo continuava a suonare impaziente.
Sospirai. Se aveva tutta
questa fretta, se la
sarebbe vista da solo con il suo ictus.
Andai a rispondere al
citofono.
-Chi è?-
-Sono qui per le
ripetizioni-, rispose la voce
dall’altra parte.
-Sali.-
Chiusi il citofono e con
calma andai verso la
porta.
Stavo per fare la figura
peggiore di tutta la
mia vita.
Avrei sconvolto un ragazzo
innocente, che
probabilmente si sarebbe imbarazzato tantissimo nel vedere la sua
possibile
insegnante di matematica, conciata come una che ha appena finito di
fare sesso
con il suo ragazzo.
Oddio! E se avesse pensato
sul serio che avevo
appena finito di fare sesso? Non potevo credere di essere
così sfortunata.
Già me lo
immaginavo mentre tornava a casa da
sua madre e le diceva che la ragazza educata e posata che si era
immaginata in
realtà era solo una facile pronta a sedurre il suo povero
figlioletto. Come
minimo avrebbe chiamato tutte le madri che conosceva e le avrebbe
avvertite di
tenere i loro figli alla larga da me.
All’improvviso mi
resi conto che la macchina
si stava allontanando da me alla velocità della luce,
insieme alle scorrazzate
a Lecce e alla libertà di andare dove volevo.
Sentii il campanello della
porta suonare.
C’era poco da
fare, ormai dovevo affrontare
quella situazione a testa alta e cercare di farla apparire il
più innocente e
normale possibile.
Io stessa trovavo difficile
considerarla
normale, quindi pensare che quel ragazzo l’avrebbe vista come
me mi fece
sentire terribilmente scettica.
Mi diressi verso la porta e
posai la mano
sulla maniglia, esitai un istante, poi il campanello suonò
ancora e capii di
non poter temporeggiare oltre così aprii la porta.
Avevo fatto diverse
congetture
sull’espressione del ragazzo che mi sarei trovata davanti, ma
mai, neanche per
un istante, avrei immaginato quell’espressione, e soprattutto
non avrei mai
pensato sul volto di quale ragazzo si stesse espandendo quello stupore.
Marco Iovine se ne stava
impalato davanti a me
con gli occhi di un diabetico che vedeva il suo dolce preferito.
Arrossii
all’istante, non sapevo se sentirmi arrabbiata
o imbarazzata.
Eppure in quel momento
compresi appieno il
vero significato della frase non
c’è mai limite
al peggio.
Mentre io e Marco eravamo
impegnati in quella
surreale e silenziosa conversazione fatta di sguardi assassini- i miei-
ed
ebeti –i suoi-, sentii qualcun altro salire le scale.
Mi voltai nella direzione da
cui stavano
arrivando i passi e per poco non mi sentii male sul serio.
-Marco, ho parcheggiato lo
scooter qua di
fronte. Credi che…-
Ma le parole gli morirono in
gole e Massimiliano
Draco si bloccò cominciando a fissarmi.
La
mia giornataccia non era ancora finita,
anzi avevo la sensazione che fosse appena cominciata.
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