That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Storm in Heaven - III.007
- Storm in Heaven (2)
Mirzam Sherton
Mallaig, Highlands - 21/22 dicembre 1971
Fuori dalle finestre di pietra antica, la neve
scendeva silenziosa, ammantando di fiaba tutto ciò che ci
circondava; il mare, dopo aver ululato per giorni, terribile e
minaccioso, ora sembrava una piatta tavola d’inchiostro
antracite, placida, di cui avevo percepito appena, in lontananza, per
tutta la notte, perso tra i nostri sospiri e le nostre timide risate,
il suono armonioso della lenta risacca. Abbracciati, affondati tra la
biancheria morbida e la seta pregiata, chiusi e protetti nel
baldacchino antico, i preziosi abiti da cerimonia dimenticati sulla
cassapanca infondo alla stanza, tutto sembrava preservarci e isolarci
da un mondo lontano e insignificante, uno sfondo inanimato che non ci
toccava, completamente assorbiti dalla felicità che
provavamo, che si diramava dalle lontane fibre dei nostri corpi,
penetrandoci attraverso il sangue fino al cervello. Non
esisteva niente, oltre al profumo di fiori dei suoi capelli, oltre al
suo calore, che timido e appassionato risvegliava continuamente il mio;
mi deliziavo del tocco leggero della sua pelle morbida, lei, l'altra
parte di me, con cui finalmente mi completavo, formando per sempre
un'entità sola. Non trovavo le parole, per
esprimere razionalmente quello che sentivo, per dirle quello che forse
avrei dovuto, che forse avrebbe voluto ascoltare, ma dallo sguardo
innamorato di Sile fisso nel mio, sentivo che l'energia, che si
liberava tra noi e in noi, rendeva inutile qualsiasi parola, persino la
poesia più bella del più grande dei poeti.
La mia poesia è lei... solo lei.
Ero a casa, finalmente a casa, finalmente sereno, finalmente completo.
Era la seconda volta che passavamo la notte insieme, che attendevamo il
nuovo giorno una tra le braccia dell'altro, dopo una notte intera
passata ad amarci, e sentivo che la felicità che provavo in
quel momento era persino più potente e piena di allora,
perché nulla poteva più dividerci,
perché nulla avrebbe più interrotto quel fluire
continuo di amore e vita tra lei e me. Sorrisi e mi chinai a
stampare un bacio leggero tra i suoi capelli, con le dita scivolai
sulla sua pelle candida e l'attirai di nuovo a me, reclamando, ancora e
ancora, vorace, i suoi baci.
*
L'avevo commossa quando c’eravamo materializzati. Avevo
nascosto a tutti, persino a lei, le mie reali intenzioni. Avevo chiesto
aiuto a Orion Black e a mio padre, perché mi prestassero
tutti i loro Elfi che di solito servivano a Zennor e ad Amesbury,
così che sistemassero, in tempo utile, almeno alcune stanze,
le più importanti, della casa acquistata a Maillag: al
contrario di quello che avevo fatto capire, saremmo partiti per il
viaggio di nozze solo dopo alcuni giorni, lo sapevano solo mio padre e
il Ministro, perché, memore di certe riflessioni di Sile ai
tempi della scuola, non volevo vivere le prime notti con mia moglie in
un luogo anonimo, che per quanto bello, non sarebbe stato solo ed
esclusivamente nostro, un luogo che poi non avremmo vissuto
più, un luogo che non avesse per entrambi
un’incredibile importanza. Persino la scelta di
vivere a Maillag nasceva da un motivo preciso: per Sile, che vi aveva
vissuto per un po' durante l'infanzia, era un luogo pieno di ricordi
felici ed io volevo darle altra felicità, un futuro
meraviglioso, tutto me stesso. Sile era rimasta meravigliata
quando c’eravamo materializzati sulla terrazza che si apriva
sul mare, avevo visto che all'inizio era spaesata, perché
non aveva riconosciuto, al buio, la casa che aveva visto altre volte,
ma sempre di giorno e sempre senza di me; mi aveva guardato stranita,
dubbiosa che fossimo di nuovo a Herrengton, poi aveva scorto, alla luce
della luna, il profilo noto del promontorio, la spiaggia sabbiosa sotto
di noi, la foresta che si schiudeva alle nostre spalle. Non avevo
risposto a parole ai suoi occhi carichi di domande, mi ero limitato a
stringerla a me, a baciarla tenero e appassionato, facendole capire che
era tutto vero, che eravamo lei ed io, il nostro futuro, la nostra
felicità, il nostro sogno che, tassello dopo tassello,
diventava realtà. Avevo accarezzato il suo viso con
tenerezza alla luce della luna e finalmente mi ero sentito pieno di
quella felicità che nasce non dal benessere personale, ma
dal vedere la gioia racchiusa negli occhi di colei che era tutta la mia
vita. Le avevo preso le mani e, seguendo la tradizione,
l'avevo invitata a seguirmi nel salone illuminato dalla luce soffusa
delle candele, entrambi muti per l'emozione e la consapevolezza che era
finalmente tutto vero.
Avevo chiesto a Kreya, ennesimo dono di mio padre per il matrimonio, di
allestire le poche stanze pronte con alcuni dettagli romantici e
raffinati, anche quelli che la mia inesperienza non mi facevano nemmeno
immaginare, ma arrossii imbarazzato quando ci trovammo nel salone col
caminetto acceso e scoppiettante, con i cuscini, le coperte e i vassoi
di frutta sistemati opportunamente per accoglierci come una comoda
alcova, piena di candele, fiori e petali di rose, se avessimo deciso di
trattenerci e passare la notte lì. Già perplesso,
mi sentii ancora peggio quando scoprii che, di fianco al salone, lo
studio era stato trasformato in una maestosa stanza da bagno, con
un'enorme vasca magicamente riempita di continuo con acqua
piacevolmente calda in cui erano disciolte essenze sensuali e
invitanti. Sile mi aveva guardato divertita e maliziosa, mentre il mio
volto passava dal rosso al porpora al viola, comprendendo che era tutta
opera dell'Elfa, anche perché, vista la nostra unica
precedente esperienza, sapeva che nonostante morissi di desiderio per
lei, senza un suo chiaro invito ci avrei messo una vita a farmi
avanti. Ormai era diverso, non eravamo più due
ragazzini, eravamo addirittura sposati, pertanto non era solo normale,
ma per molti era persino dovuto, eppure dopo quattro anni di lontananza
costellati di mille errori, l'ultima cosa che volevo era essere
frainteso proprio in quel momento: non volevo sembrarle uno che pensava
a una cosa sola, uno che cercava nella propria moglie solo legittima
soddisfazione fisica e discendenza. Ci tenevo troppo a lei e
ai sentimenti che provavo, per commettere altri errori, potevo
aspettare, non le avrei mai messo fretta, non in quel modo
così spudorato. Sile mi era sembrata condividere il
mio imbarazzo ma, al contrario di me, aveva reagito divertita, mi aveva
preso per mano, giocosa e curiosa, mi aveva guidato all'esplorazione
del resto dell’opera di Kreya, per distrarmi dalle mie paure
e dare a entrambi il tempo di vincere
l'emozione. Osservandola, così serena e sicura, mi
ero reso conto che nel suo sguardo finalmente era ritornata la luce che
avevo conosciuto anni prima, quella che a causa della mia
stupidità era sparita per troppo tempo. Seguendola, un
po’ alla volta, anch'io mi ero ritrovato a sorridere di me
stesso, mi sentivo così simile, in quel momento, al me
ragazzino che, emozionato e imbarazzato, l'aveva seguita durante le
ronde nei corridoi di Hogwarts fino a rendersi conto quasi con sorpresa
quanto Sile fosse non solo una ragazza simpatica e gentile, ma anche
estremamente femminile e desiderabile. Dovevo solo aprire gli
occhi e rassicurarmi, perché il tempo dei dubbi e della
sofferenza era finito quel mattino, sulla spiaggia di Herrengton,
quando avevamo dimostrato l'uno all'altro in modo inequivocabile quanto
fosse sincero e forte il nostro legame...
Siamo
finalmente noi, finalmente tutto è come deve essere, senza
se e senza ma... finalmente è il momento di lasciarsi
andare, di vivere e di essere felici.
Mentre, ridendo, Sile mi aveva indicato un buffo carillon che avevamo
comprato a Doire anni prima in un negozietto di articoli magici, e che
io avevo fatto mettere a sorpresa sopra una consolle, nel corridoio che
portava nella nostra camera, l'avevo trattenuta piano per la mano,
lentamente, e mentre lei si era voltata sorpresa e carica di domande,
avevo iniziato a disegnarle arabeschi immaginari con i polpastrelli
sulla sua pelle morbida, andando a stuzzicare le Rune delle sue dita e
del suo palmo, cercando di essere il più discreto possibile,
ma anche inequivocabilmente determinato. L'avevo attirata piano a me,
l'avevo trattenuta e stretta tra le mie braccia, intrappolandola quasi,
contro la parete, l'avevo baciata, con trasporto e passione, scostando
i suoi capelli e scendendo rapido sulla Runa del suo collo, lasciando
che le mie labbra ricalcassero in un bacio lento e inesorabile tutti i
dettagli di quel disegno. L'avevo sentita vibrare e sorreggersi a
stento a me, le sue dita che si aggrappavano quasi dolorosamente alla
mia pelle, la sua gamba che cercava di annodarsi alla mia, insofferente
ormai alla prigione delle vesti. Avevo indugiato ancora in
quella dolce tortura, per strapparle quei sospiri che sapevo capaci di
mandarmi in fiamme la mente, cancellando così ogni mia
remora o imbarazzo, come la più potente delle pozioni
ottenebranti, poi avevo alzato il viso e avevo guardato i suoi occhi,
leggendo lo stesso desiderio che consumava me, la stessa richiesta di
felicità. La mia mano era scivolata ad accarezzarle la linea
morbida del collo e del mento, mi ero abbassato a stuzzicare, con le
mie, quelle labbra invitanti, quasi volessi divorarla con un
bacio. Senza indugiare oltre, l'avevo presa in braccio, mentre
lei, allentandomi i lacci che fissavano ancora il mantello sulle mie
spalle, lo aveva fatto cadere, abbandonato, inutile, nel
corridoio. Avevamo raggiunto la nostra stanza, con un paio
d’incantesimi avevo fatto in modo che nemmeno la solerte
Kreya potesse raggiungerci, per nessun motivo.
Il mondo si riduce a noi, siamo noi, il resto non ha più
importanza.
L'avevo guardata, vibravamo entrambi come fiamme che danzavano
all'unisono. Lei era scivolata via dal mio abbraccio, io
l'avevo presa per mano e l'avevo condotta al centro della stanza, ero
passato dietro di lei e, mentre avevo ripreso a baciarle lentamente il
collo, avevo iniziato a manomettere il suo meraviglioso abito da
sposa. Dopo un'impresa a dir poco ciclopica, costellata di
risata, di dita, le mie, ripetutamente e dolorosamente affatturate, di
promesse di morte ai danni di amiche e parenti, di baci consolatori,
Sile si era voltata verso di me e, con grazia e malizia, aveva lasciato
scivolare a terra il suo prezioso abito di seta avorio, restando con la
sottoveste che esaltava la sua bellezza e mi accendeva come non mi era
mai capitato in tutta la vita. Aveva sollevato il palmo sul
mio viso, aveva percorso con i polpastrelli i miei lineamenti e
sollevandosi sulla punta dei piedi aveva appoggiato le sue labbra calde
sul mio collo. L'avevo guardata meravigliato quando mi aveva
spinto sul letto dietro di noi, salendo rapida a sedersi accanto a me,
aveva ripreso ad accarezzarmi il viso e i capelli, a baciarmi, mentre,
aiutata da me, aveva iniziato a sua volta ad allentare, divertita, la
trappola in cui Jarvis si era tanto impegnato a
imprigionarmi. Alla fine, eravamo rimasti senza molto addosso,
a osservarci, muti ed emozionati, riscoprendoci simili eppure diversi,
più adulti, più forti e al tempo stesso
più fragili: un po' imbarazzato per il mio chiaro
entusiasmo, notai subito che lei, se possibile, era addirittura
più bella di quando eravamo a scuola, il suo corpo era
più maturo, benché avesse la stessa grazia e la
stessa eleganza di allora. Da parte sua, avevo osservato come
Sile avesse percorso con lo sguardo il mio corpo, soffermandosi sulle
Rune che avevo preso quell'estate, che rendevano il mio corpo parecchio
diverso da quello del ragazzino con cui aveva conosciuto per la prima
volta l'amore. Mi ero trattenuto a stento, quando avevo
sentito le sue dita accarezzare senza indugi i singoli tratti di quella
Runa, ben sapendo che in quel modo mi stava rendendo pazzo, avevo
combattuto con me stesso, per impedirmi di farle altrettanto, di
annullare in entrambi qualsiasi remora e inibizione, cancellando il
controllo della mente e abbandonandomi alla fame e alla sete che avevo
di lei. Sapevo che era una prova, l'avevo visto quando
compiaciuta aveva appoggiato il palmo aperto sul mio cuore, facendo
sfiorare la Runa del mio petto e quella del suo palmo: avevo lasciato
che m’invitasse a stendermi sul letto, in silenzio, mi aveva
fissato senza mai staccare gli occhi dai miei nemmeno per un solo
istante, mentre scivolava lenta e felina su di me e le mie mani erano
risalite lungo la sua schiena. Sile si era abbassata su di me, andando
a baciare lenta e sensuale la Runa sul mio collo, i suoi capelli lunghi
e profumati che mi circondavano, formando una cortina di seta che mi
separava dal mondo esterno. Avevo accarezzato ancora una volta
la sua tunica di pizzo, l'unica barriera tra me e il suo corpo vibrante
che mi accendeva, Sile si era sollevata, andando a eliminare con grazia
quell'ultimo ostacolo: dopo essere rimasto rapito, per rapidi, pudichi,
istanti sulla vista del suo corpo completamente nudo sopra di me, ero
risalito con le mani dai suoi fianchi sottili su, fino alla base della
sua testa, annodando di nuovo le dita tra i morbidi capelli corvini,
spingendola delicatamente a unire la sua bocca alla mia. Ci
eravamo persi così, in un altro bacio, l'ennesimo, un bacio
sensuale, affamato, mentre fondevamo di nuovo i nostri sguardi, i
nostri corpi e le nostre anime. Una vita sola, un'anima sola, per tutto
il resto dei nostri giorni e fino alla fine del tempo.
“Sei la mia vita, Sile...
l'unica vita possibile... ”
Avevo alla fine sussurrato tra i suoi capelli, le uniche parole che
avevano un senso, le uniche, per me, preziose e vere.
***
Rigel Sherton
Herrengton Hill, Highlands - 21/22 dicembre 1971
Ritto di fronte a me, il Mangiamorte rideva, osservandomi mentre lo
fissavo atterrito, ipnotizzato dal Marchio Nero che si animava sulla
sua pelle, rosso, pulsante, oscenamente attraente.
Non devi fissarlo, Rigel, non devi fissarlo! Concentrati, pensa! Devi
solo pensare! Devi solo pensare!
Che cosa potevo fare? Avevo solo tredici anni e avevo un padre, una
madre, dei fratelli, degli amici, tutti inconsapevoli di essere in
pericolo di morte; avevo solo tredici anni ed ero l'unico a sapere che
il Ministro della Magia stava per essere ucciso proprio a Herrengton,
trascinando così la mia famiglia e la mia gente in una
guerra che non era la nostra. Avevo solo tredici anni e
probabilmente solo io potevo evitare che mio padre finisse ad Azkaban,
o peggio, abbandonando i miei fratelli e me, privando mia madre del suo
amore, lasciando la Confraternita senza guida, tutti quanti macchiati
del turpe sospetto di far parte di quella banda di pazzi criminali
mascherati! No, non potevo permetterlo: mio padre era severo con me,
litigavamo spesso, a volte, addirittura, lo odiavo, ma era sempre stato
molto chiaro su certi aspetti e per me aveva ragione quando sosteneva
che Milord non era la strada “giusta” per il Mondo
Magico.
Che cosa puoi fare, Rigel? Pensa! Che cosa puoi fare?
Se avessi provato a fuggire per avvertirlo, il Mangiamorte mi avrebbe
colpito alle spalle e mi avrebbe reso inoffensivo, distruggendo ogni
nostra possibilità di salvezza; se avessi provato a
combatterlo per poi scappare da mio padre, mi avrebbe spazzato via
subito, senza difficoltà, perché ero solo un
ragazzino e non avevo mai fatto un vero duello in vita mia.
No,
non è quella la strada che devi seguire, Rigel, ma forse, se
provassi a...
Guardai oltre il Mangiamorte, avanti, verso il braciere: dovevo
limitare i danni, dovevo impedire a qualsiasi costo che i suoi complici
entrassero a Herrengton, l'unica azione alla mia portata, per vicinanza
e abilità, era raggiungere il braciere e alimentare il
fuoco, al posto di Deluin. E non c'era
tempo da perdere: lo scudo sopra la tenuta, infatti, si stava facendo
via via più fragile, presto si sarebbe aperto, lasciando
entrare la nostra rovina. Tra me e il braciere,
però, c'era lui, il Mangiamorte, e questo non era un
problema da poco.
Ragiona, Rigel, ragiona: come puoi evitarlo? Sai che devi farlo, devi
assolutamente farlo, perciò, avanti, trova una
soluzione! Che cosa puoi realmente temere da questo assassino?
Se il Signore Oscuro era davvero un Mago d’immensa
conoscenza, se era l'Erede di Salazar, come molti sostenevano, doveva
sapere che non poteva uccidere mio padre e i suoi figli senza aver
prima scoperto con certezza chi di noi l'avrebbe sostituito come erede
di Hifrig, non senza essere già entrato a Herrengton e aver
già preso il saldo controllo di Habarcat, dimostrandosi
successore di Salazar, altrimenti le Terre del Nord e la Fiamma gli
sarebbero state precluse per sempre; se invece volevano coinvolgere la
Confraternita e farla incolpare dell'assassinio del Ministro, il
Mangiamorte doveva cercare di non uccidermi, perché, se il
loro piano fosse fallito e i Ministeriali mi avessero trovato morto,
avrebbero compreso che gli Sherton erano anch'essi vittime, visto che
gli Aurors, di solito, non andavano in giro ad ammazzare ragazzini di
appena tredici anni. Forse, però, a Milord non interessava
attribuirci la colpa della morte di Longbottom, e magari credeva, come
tutti, che l'erede di Hifrig fosse senza dubbio Mirzam, il figlio
primogenito, e s'illudeva di poter trattare i miei fratelli e me come
semplice carne da macello. Forse, addirittura, Milord era il
pallone gonfiato che immaginavo io e, privo di qualsiasi conoscenza
sulle nostre antiche tradizioni, non sospettava che ci fosse un legame
tra uno di noi e la Fiamma; pieno della sua proverbiale arroganza, non
poteva certo concepire che persino un neonato poteva mandare a monte i
suoi piani e, invece, la situazione era proprio quella: se insieme a
mio padre avesse fatto uccidere il figlio sbagliato, prima di farsi
riconoscere da Habarcat, tutti noi, la mia famiglia, i miei amici, la
mia gente, i Ministeriali e persino i nostri aggressori, tutti coloro
che si trovavano a Herrengton, saremmo spariti nel limbo, insieme
all'ultima goccia del nostro sangue maledetto. Persino Lui, Lord
Voldemort, il Signore Oscuro, se fosse stato presente alla
carneficina. Un brivido di folle speranza mi percorse la
schiena, al pensiero di poterlo trascinare all'inferno con me.
Non devi pensarci nemmeno, Rigel! Concentrati sui tuoi
fratelli, piuttosto, pensa a loro, pensa alla mamma!
Dovevo attenermi all'idea che ci fosse una speranza, almeno una
speranza: nella migliore delle ipotesi, il Mangiamorte aveva l'ordine
di non uccidermi, ma poteva sempre pietrificarmi o cruciarmi, o
rendermi inoffensivo in qualche altro modo, e se l'avesse fatto, per la
mia famiglia e la mia gente sarebbe finito tutto, quindi dovevo
sbrigarmi e fare attenzione a non farmi colpire.
Più della Cruciatus che cosa può
capitarti? Più di essere umiliato e di impazzire
dal dolore? Più di sbagliarti e soffrire per
niente? C’è solo una cosa peggiore di
tutte queste e preferiresti morire che affrontarla: vedere il tuo mondo
in rovina, sapere di essere stato l'unico a poterlo evitare e non aver
fatto niente. Per paura. Rifletti: che cosa si
aspetta il Mangiamorte da te? Che cosa si aspetta da un ragazzino?
Per uno Sherton, da sempre, “La prima regola è
sopravvivere”, lo sapevano tutti e se davvero gli uomini di
Milord conoscevano bene mio fratello, lo sapevano anche loro,
perché Mirzam lo ripeteva in continuazione: dovevo far
vedere, perciò, che questo comportamento vigliacco e
opportunista valeva anche ai tempi di Alshain Sherton, che mio padre ci
aveva insegnato a portare a casa la pelle a ogni costo, che di fronte a
una scelta dovevamo cedere e non morire.
Puoi farlo, Rigel! Devi farlo! E devi essere
convincente.
Quando il Mangiamorte alzò la bacchetta su di me, tremai,
quando l'agitò per aria e mi puntò, non ebbi
remore, m'inchinai di fronte a lui e gettai la bacchetta ai suoi piedi,
in segno di resa.
“Ti prego! Perdonami! Non
sapevo chi fossi, ti ho visto giù alle teche e ti ho
scambiato per un ladro. Perdonami! Io non volevo... ”
Il Mangiamorte borbottò qualcosa, vidi un lampo di luce
verde, o forse azzurra, uscire dalla sua bacchetta e un ciuffo di erba
alla mia sinistra fu incenerito, con un gran botto che mi fece perdere
vent'anni di vita. Lo sconosciuto scoppiò a ridere,
io pallido come un morto, mi resi conto che non era difficile cercare
di sembrargli patetico e vigliacco: avevo tredici anni, ero poco
più di un bambino, solo un pazzo non avrebbe avuto paura di
morire e desiderato con tutto se stesso di non trovarsi
lì. Ed io non ero né pazzo né
Grifondoro, la mia era autentica, fottuta, paura.
“Oh povero, povero,
cucciolino! Chiama la mammina che ti tenga la manina!”
“Ti prego, non farmi del male!
Mio padre ti darà tutto ciò che vuoi, ma non
farmi del male!”
“Tuo padre... Mi
darà tutto ciò che voglio, certo! E
godrò a vederlo strisciare a terra come stai facendo tu,
piccolo, stupido, ragazzino inutile! Siete tutti così
patetici e vigliacchi! Ve la fate con feccia e babbanofili, come
traditori del Sangue Puro! Salazar si rivolterebbe nella
tomba!”
“No, traditori del Sangue no!
Traditori mai! Te lo giuro sul mio onore!”
“L'onore di uno Sherton? Ma
quale onore? Non farmi ridere!”
Mi sentii il sangue ribollire: se solo fossi stato più
grande e più abile, se solo avessi potuto rischiare solo me
stesso, se solo non avessi dovuto pensare al destino di tutti gli
altri! Il Mangiamorte mi fissava, non lo vedevo in faccia, ma
dalla sua postura mi trasmetteva un senso d’irrisione che non
potevo sopportare: anche se non era lui, perché
più basso e più gracile, perché dalla
feritoia percepivo uno sguardo di ossidiana scura, non chiari occhi di
ghiaccio, non riuscivo a non immaginarmi il volto di Lucius Malfoy
dietro quella maschera e l'odio profondo, che albergava in me nei suoi
confronti, divenne sempre più difficile da
controllare. Feci un respiro fondo e cercai di ritornare
lucido, non sarei stato credibile se a quel punto non avessi reagito in
qualche modo, perciò alzai il volto verso il mio avversario
mascherato, cercando di mantenermi saldo e determinato.
Non avere paura, Rigel, non avere paura! Non ti ritiene una
minaccia, ti sta sottovalutando, puoi agire! Continua a fargli
credere che ha davanti uno stupido… Accumula e
controlla la rabbia, domina la rabbia, usa la rabbia! Pensa
che hai davanti quel maiale di Malfoy, se ti
aiuta! Sì, c'è lui sotto la maschera,
c'è lui, e tu puoi fargliela pagare, finalmente! Per tutto!
“Potrei darti il mio
anello… Milord potrebbe usarlo per dominare la Fiamma,
dovevamo darglielo a Hogmanay, in dono; se glielo porterai, sarai
ricompensato al posto nostro. Ma devi portarmi da Lui: voglio il tuo
stesso Marchio, lo voglio con tutto me stesso! Voglio usare la spada
che hai preso per Lui, voglio uccidere i maledetti Babbani e la lurida
feccia che insozza il nostro mondo! Per favore! Portami da Milord: sono
uno Sherton, sono nato per servire l'Erede di Salazar!”
Non si fidava di mio padre, d’accordo, ma perché
non doveva credere a me? Ero noto per essere un piantagrane, a
scuola finivo di continuo dal Preside, ero sempre in lite con i miei
che ormai volevano spedirmi a Durmstrang per i miei atteggiamenti
ribelli; e Mirzam, che non faceva altro che salmodiare di Milord, a
casa nostra, di sicuro non andava a dire ai suoi
“amici” di non essere riuscito a convincere nemmeno
uno di noi sul Signore Oscuro.
Sempre
ammesso che tuo fratello non sia coinvolto nel casino di questa notte,
che non vi abbia traditi tutti, che non abbia detto loro che
preferireste morire piuttosto che sottomettervi!
No, questo, ne ero convinto, non era possibile: Mirzam era uno stupido,
certo, ma non riuscivo a pensare a lui come a un assassino e a un
traditore della sua famiglia!
“Tu, piccolo, patetico
insetto, un Mangiamorte? Ahahah! Milord non saprebbe che farsene di un
ragazzino stupido e inutile come te! Milord libererà il
nostro mondo dalla tua famiglia di viscidi traditori! Lo
farà personalmente, domattina stessa, appena
entrerà a Herrengton, darà un messaggio chiaro a
tutti! Per quanto mi riguarda, un bel Petrificus, ora, mi
libererà della tua molesta presenza!”
Era il momento, non potevo indugiare oltre. Mentre alzava la
bacchetta su di me, pronto a colpirmi per rendermi inoffensivo, io
pronunciai a bassa voce “DominusTerra”, sperando di
avere accumulato abbastanza concentrazione da far collassare un po' il
terreno sotto di lui e coglierlo così di sorpresa: avevo
tredici anni, non avevo la forza né le capacità
per fare qualcosa di grandioso che lo ferisse e lo rendesse
inoffensivo, che lo travolgesse e lo eliminasse, ma a me bastava
distrarlo per un attimo, per un breve attimo. Come facevo da piccolo,
quando ero arrabbiato o spaventato, e riuscivo a muovere gli oggetti
nella stanza per sfuggire a Mirzam che m’inseguiva per
punirmi. Sì, mi bastavano pochi attimi: il tempo di
correre a tutta velocità attraverso il cortile fino al
braciere col fuoco magico, poi, una volta lì, l'avrei
alimentato io, avrei mantenuto intatta la protezione su Herrengton, non
con le erbe ma con il mio sangue, fino alla mia ultima goccia,
perché lo scudo sulla tenuta ritornasse subito al massimo
della sua estensione, il più possibile resistente, solido e
impenetrabile, dando il tempo agli altri di mettersi in salvo con i
camini e le Passaporte. Poteva funzionare, le leggende dicevano che
spesso i miei avi si erano salvati così, con un sacrificio:
se non erano bugie, se non erano stupide favolette per bambini, gli
altri potevano farcela. Il pavimento di pietra si
avvallò: come immaginavo, il Mangiamorte perse l'equilibrio
e, confuso, distolse la sua attenzione da me, senza comprendere che ero
stato io.
“A
volte non avrete una scopa e dovrete usare il vostro corpo, oltre alla
vostra Magia!”
Così tuo padre lanciava una Pluffa in mezzo al prato, tuo
fratello la colpiva con una mazza da Battitore e tu dovevi correre
nell'erba alta, correre fino a perder il fiato, fino a raggiungere tua
madre che, seduta nell'erba, insieme a Meissa, ti applaudiva e
t’incitava.
“Corri
Rigel, corri!”
Sì, Rigel, corri, corri finché il mostro
è distratto! Corri e pensa a tua
madre! Corri e pensa all'abbraccio che ti dava! Corri
e pensa che lo stai facendo per salvare lei!
Ed io corsi, corsi verso il mostro, stavolta, rapido mi abbassai a
raccogliere la mia bacchetta, sfiorai la lama della spada il tanto che
bastasse a tagliarmi appena il palmo destro, poi ripresi a correre,
fermandomi solo quando giunsi in prossimità del braciere. Il
Mangiamorte, intanto, aveva recuperato l’equilibrio, si era
voltato e aveva messo a fuoco la nuova situazione: io iniziai a
recitare, come un mantra, il nome di Salazar, cercai di bagnare, con le
gocce del mio sangue che cadeva ancora non troppo copioso, i simboli
runici dei punti cardinali disegnati a terra da mio padre, il giorno
prima, pronunciai in gaelico i loro nomi, infine entrai nel cerchio di
pietra in mezzo al quale c'era il braciere. L’ombra
mi puntò la bacchetta addosso e lanciò uno
Stupeficium, io mi gettai a terra invocando Habarcat, perché
accettasse il mio sangue per alimentare il fuoco; il Mangiamorte si
avvicinò, minaccioso, io nascosi la mano, perché
non vedesse troppo presto che ero ferito e il sangue stava
già nutrendo la debole fiammella verdina, che rapidamente
riprese vita.
Cresci, avanti! Proteggici tutti!
“Che bel giochino ti ha
insegnato tuo padre! Stupido, molto stupido! Stupido come te, che sei
rimasto qui, invece di provare a metterti in salvo! Forse non hai ben
compreso chi hai di fronte! Forse non hai ben compreso che non sono
tutti dei rammolliti come tuo padre! I veri Slytherin, sai, insegnano
la disciplina agli stupidi mocciosi nell'unica maniera in cui va
insegnata: Crucio!”
Nello stesso istante, immersi completamente la mano nella Fiamma, una
fiamma fredda che non ustionava, legandomi intimamente a lei, fino
oltre alla morte se fosse stato necessario: era pericoloso toccarla,
evocazione mortale e maligna di Habarcat, ma solo così
potevo assicurarmi che nulla potesse staccarmi da lei, impedendomi di
portare avanti il mio piano, folle e disperato. Una volta
unito a lei, infatti, non sarebbe importato se avessi perso i sensi,
per colpa del dolore, perché il mio sangue avrebbe
continuato a fluire lentamente, fino all’ultima goccia,
alimentando la fiamma e proteggendo tutti gli altri: attraverso la
ferita, il fuoco sarebbe penetrato dentro di me, avrebbe assorbito la
mia energia, mi avrebbe consumato, mangiato, rendendomi più
debole, a mano a mano che lui diventava più forte, fino a
spegnermi per sempre. A modo suo, mi avrebbe protetto da colpi
mortali ma, ancora piccola e debole, non poteva impedire che subissi i
colpi del Mangiamorte, per questo sentivo violento il dolore della
“Cruciatus” che entrava in me, sotto forma di
terribili aghi incandescenti, a torturare ogni parte del mio essere:
avevo le lacrime agli occhi dal dolore, non credevo che potesse essere
così, terribile, inesorabile, straziante, ma non potevo fare
altrimenti, non c'era altra scelta, non potevo difendermi in alcun
modo, pregai soltanto, con tutte le mie forze, di riuscire a resistere,
estraniarmi, accettare.
“Se
razionalizzi il dolore, Rigel, se trovi una giustificazione a esso, se
arrivi ad accettarlo vedendolo come tramite per ottenere ciò
che ti prefiggi, puoi contenerlo: prendere le Rune è
doloroso, ma se ti concentrerai sul percorso che hai compiuto e
superato, se sarai desideroso di apprendere ancora, giustificherai con
te stesso quel dolore e riuscirai a sopportarlo! Le Rune ti aiuteranno
ad affrontare tutte le prove della vita con questo spirito: nulla ti
sembrerà troppo, mai!”
Mio padre mi aveva fatto spesso quel discorso, ma i Riti del Nord
prevedevano sempre prove che fossero alla portata delle nostre reali
capacità, in un dato momento della nostra vita: quello che
stavo provando io, invece, andava ben oltre il mio limite di
sopportazione.
L'hai desiderato tu, Rigel, l'hai voluto tu, l'hai scelto tu: pensa al
bene dei tuoi, non cedere!
Iniziai a urlare chiedendo aiuto, sperando che qualcuno, per sbaglio,
mi sentisse, ma non era possibile, eravamo lontani, soli, ed io non
avevo già più le forze nemmeno per
piangere. Il Mangiamorte si avvicinò, la Fiamma si
fece più alta, rivelandosi ai suoi occhi: la mia paura,
infatti, la rese talmente potente e folgorante da impossessarsi di me
fino a tutto il polso.
“Maledetto, sei riuscito a
riaccenderlo! Crucio!”
Mi accucciai ancora di più, sempre più debole, la
Fiamma ormai illuminava di una luce verde-azzurra il mio pallore
cadaverico estendendosi fino al gomito ed io, infine, pazzo di dolore,
scoppiai a ridere.
“Torturami quanto vuoi,
Mangiamorte, non puoi staccarmi da qui! Sei così stupido da
non averlo ancora capito? Io ti ho vinto! Darò tutto il mio
sangue, morirò persino, ma i tuoi amici non entreranno mai!
Sei solo, solo contro una schiera di Aurors che difenderanno il
Ministro fino all’ultimo! Solo contro la Confraternita, che
farà scempio di te, appena scoprirà, e lo
scoprirà presto, che cosa mi stai facendo. Ti conviene
nasconderti e provare a scappare, non ti resta molto tempo!”
Forse l'aveva capito anche da solo, lo vidi alzare il viso verso il
cielo, guardai anch’io, sopra la foresta sembrava percorso da
numerose scie rossastre simili a stelle cadenti: avevo letto che i
Mangiamorte si manifestavano così, poco prima di
materializzarsi e seminare morte e distruzione, ma ormai non importava,
non sarebbero riusciti a materializzarsi a Herrengton, si sarebbero
mossi per ore attorno a noi, senza però riuscire a vederci,
né a trovare un varco per raggiungerci.
“Al posto tuo avrei paura...
Dove ti nasconderai? Perché se riuscirai a salvarti da noi,
poi sarà il tuo Signore a darti la caccia! Quanto pensi
sarà incazzato con te, quando saprà in che modo,
e da chi, sei stato giocato? Quanta disciplina, quante Cruciatus, pensi
ti costerà il tuo fallimento?”
“Al posto tuo, io penserei
piuttosto a risparmiare il fiato, stupido moccioso! Crucio!”
Nel dolore, folle, continuai a ridere: ero riuscito a mandare a monte
il suo piano, lo capivo dalla crudele determinazione con cui mi faceva
del male, dovevo solo resistere, ora, presto sarebbe finita, presto
avrebbe capito di potersi salvare solo deponendo la spada e la maschera
e mescolandosi di nuovo agli altri invitati, come se niente fosse,
lasciandomi lì, da solo. Quanto a me, forse
papà mi avrebbe trovato prima che fosse troppo tardi,
avrebbe mandato via rapidamente gli ospiti, avrebbe esteso di nuovo su
Herrengton gli incantesimi che la rendevano inaccessibile, quelli che
aveva dovuto togliere per permettere agli altri di partecipare alla
festa. La sicurezza di aver messo in salvo i miei, mi dava
fiducia anche riguardo alla mia sorte, soprattutto quando sentii la sua
ultima Cruciatus, pur feroce, durare molto meno delle precedenti.
Avevo, però, sottovalutato l'inesorabile e feroce sadismo
del criminale che avevo di fronte. All'improvviso, infatti, senza udire
parole, dalla punta della sua bacchetta uscì
un’enorme frusta di fuoco che venne ad abbattersi su di me:
privo di forze, cercai invano di farmi scudo con la Fiamma e un
patetico Protego, ma quella diavoleria, di cui nemmeno mio padre mi
aveva parlato mai, m’investì completamente,
provocandomi un inferno di dolore che mi dilaniava da dentro, in tutte
le parti del corpo, nessuna esclusa, senza che però mi
uscisse del sangue.
Salazar, aiutami! Fa che qualcuno si accorga che sono
sparito! Fa che qualcuno passi di qui, anche solo per
sbaglio! Fa che qualcuno venga a salvarmi!
Io non voglio finire così, io non voglio finire
così! Io non voglio morire! Io non voglio morire...
“Come vedi, Rigel Sherton, i
miei non sono inutili giochini stupidi come i tuoi! Resta qui, con la
tua preziosa Fiamma, piccolo, patetico stolto, e muori consapevole che
il tuo sacrificio è stato inutile, perché per tuo
padre, per la tua famiglia, per la tua gente era comunque
già finita prima ancora che nascessi! Anche senza gli altri,
là fuori, io non sono solo! Addio, salutami
l'inferno!”
Mi piegai a terra, come un sacco vuoto, preda di dolori violenti,
mentre i passi del Mangiamorte e la sua risata gelida si allontanavano
da me, non verso la festa, come immaginavo, ma sulla pietra del
cortile, diretto, con la spada, dentro la torre: il dubbio che fosse
vero, che non fosse solo, che potesse compiere qualche altra
malvagità, mi travolse, ma non potevo fare più
niente. Tutto intorno a me cadde improvvisamente il
silenzio. E il freddo. E la notte.
***
Rodolphus Lestrange
Herrengton Hill, Highlands - mar. 21 dicembre 1971
Avevo notato Bellatrix rientrare dalla terrazza
con il solito ghigno beffardo, e Sherton, turbato, parlare evasivo con
Black, allontanandosi poi con lui, misterioso: mi ero guardato attorno,
tutti erano presi da chiacchiere e balli, capii che era finalmente
giunto il momento di agire. Indifferente, ero scivolato tra
gli invitati presenti nel salone, mi ero avviato nel giardino,
allontanandomi circospetto, avevo rasentato i muri,
nell'oscurità, diretto alla porticina più piccola
che si apriva a poca distanza dalla nicchia di Habarcat, immettendo di
nuovo nel castello. Non c'era modo, per chi non avesse sangue Sherton,
di toccare direttamente la Fiamma senza restare colpito da qualche
antica maledizione di Salazar, quindi immaginavo che non ci fossero
sistemi di sicurezza che bloccassero quella stupida porta: in effetti,
era addirittura aperta. Ghignai per l'ingenuità congenita di
ogni singolo membro di quella famiglia, a volte non sembravano nemmeno
veri Slytherins, incapaci com'erano di comprendere e prevedere quali
inganni, e di quale complessità, i loro nemici potessero
ordire alle loro spalle. O magari erano talmente arroganti da
scadere nella più sciocca stupidità. Mi
guardai attorno, la sala era rischiarata solo dalla luce bassa e rossa
di alcuni bracieri, gli stessi accesi per la Cerimonia del matrimonio,
mentre Habarcat era già stata ricollocata dentro la sua
nicchia, di là dei tre archi di pietra, nascosta dietro i
tendaggi: m’intrufolai nel sacello, senza prestare
particolare attenzione, perché se anche qualcuno fosse
entrato e mi avesse visto, non avrebbe pensato avessi intenti
disdicevoli, qualsiasi Slytherin presente a quella festa, infatti,
prima di andarsene, avrebbe tentato di avvicinarsi, mosso da
curiosità, attratto da quell'oggetto carico di fascino e
mistero, che la leggenda diceva essere stato portato fin lì
da Salazar stesso. A me, però, della Fiamma, in
quel momento, non importava niente, avrei avuto modo di osservarla
quando fosse stata finalmente nelle mani del mio Signore: scivolai
dietro di lei, avendo cura di non sfiorarla, controllai i mattoni del
camino anneriti dai secoli fino a trovarne uno che potesse essere
manomesso, presi la bacchetta, recitai un piccolo incantesimo che
allargasse la fessura il tanto da poter costituire un nascondiglio e
lasciai lì il regalo di nozze di Milord per Mirzam, un
ricordo compromettente di certe notti passate insieme, qualcosa che
avrebbe messo spalle al muro suo padre e avrebbe spaccato la sua
famiglia, se la missione di quella notte non fosse andata completamente
a buon fine e fossimo stati costretti a passare al piano
alternativo. Richiusi il tutto, avendo cura che quel mattone,
sebbene in modo discreto, saltasse all'occhio ben allenato di un Auror
in cerca d’indizi, quindi, controllando che nessuno mi
vedesse uscire, serrando deciso la bacchetta tra le pieghe della tunica
per ogni evenienza, sgattaiolai fuori dal nascondiglio e mi avviai
verso il fondo della stanza, per raggiungere gli altri, stavolta dal
corridoio. Era stato allora che l'avevo visto: si stava
allontanando dalla sua famiglia, che come sempre non si curava di lui,
guardandosi attorno per assicurarsi che nessuno lo seguisse, io mi
nascosi dietro una colonna per non farmi notare, in attesa di sviluppi
a me propizi. Ero stato bravo e furbo, soprattutto intuitivo,
quando avevo capito che non dovevo puntare direttamente alla mia preda,
ma controllare quell'altro, il ragazzino, il rinnegato, Sirius Black,
perché mi sembrava l'unica presenza in grado di distrarre la
piccola Meissa, farle infrangere le regole, spingerla a opporsi
all'ossessivo e noioso controllo di sua madre: li avevo tenuti d'occhio
per tutto il giorno, dopo aver notato una strana complicità
tra loro a Grimmauld Place, avevo visto come si guardavano a distanza,
come si cercavano durante i balli e il banchetto, avevo riso del timido
arrossire di entrambi quando, furtivi, i loro occhi
s’incontravano.
Che
teneri!
Milord vedendoli sarebbe stato compiaciuto, sempre che non avesse per
la bambina qualche altro violento progetto immediato: speravo di no,
quel Sangue era troppo puro per essere versato prima di averne tratti
tutti i benefici, non potevamo permetterci di sprecarlo con
leggerezza. Secondo me, anzi, quei due ragazzini potevano
essere un'ottima coppia su cui puntare per il futuro dei Purosangue e
degli Slytherin: se volevamo crescere di numero e rafforzarci, dovevamo
favorire unioni come quella, tra famiglie Slytherin e Purosangue ancora
scarsamente imparentate tra loro, ci servivano unioni di sangue puro,
prezioso e soprattutto sano, unioni finalizzate a ottenere figli
fisicamente più forti e “stabili”, non
le solite, basate solo sull'interesse economico, che preservavano da
secoli le eredità, certo, ma svilivano la nostra forza,
generazione dopo generazione. Dovevamo soprattutto essere
più prolifici, per contrastare il vantaggio numerico della
feccia: in quel senso, Sherton aveva capito cosa servisse alla nostra
gente, e almeno in quello aveva fatto la sua parte, e ora, essendo io
uno dei pochi che non aspirava a vederlo morto, mi auguravo che Milord
lo riportasse sulla retta via, perché il suo aiuto e il suo
potere erano più utili della sua morte. Lasciai da
parte pensieri al momento inutili e iniziai a seguire il ragazzino: non
dovevo perderlo di vista, dovevo raggiungerlo, intuire le sue
intenzioni e, se possibile, anticiparle. Black uscì
in un giardinetto innevato ed io rimasi, ben nascosto, al caldo, a
osservare la sua figuretta intirizzita che ammirava le stelle; poco
dopo, Meissa Sherton si avvicinò rapida e furtiva,
uscì dalla medesima porta, attraversò il giardino
e s’immerse, ridendo con lui, nell'oscurità.
Ghignai: che già fossero più svegli di
quell'imbranato di Mirzam? Era possibile Immaginai la faccia di Alshain
Sherton, se avesse scoperto che il figlio del suo migliore amico gli
insidiava la preziosa figlioletta proprio sotto il naso! Risi di
cuore. Poteva essere stata Walburga Black a lanciare ai
pargoli un bell'Imperius, così da realizzare quanto prima le
sue ambizioni dinastiche, ma ero convinto che stessero facendo tutto da
soli: per certe finalità, infatti, i Black si sarebbero
serviti del figlio più piccolo, molto più
addomesticabile. Smisi di impicciarmi e mi mossi a poca
distanza da loro, nel buio e nel freddo, senza seguire il loro
percorso, perché mi ero accorto che si accendevano delle
timide luci a terra, per la pressione dei loro corpi, pur leggeri,
sulla neve, perciò mi tenni vicino alle piante, ai margini
del sentiero, sperando che non si accorgessero della mia
presenza. Giunti sulla terrazza a picco sul mare, mi ero
nascosto lontano da loro, tenendoli sempre sotto controllo: con la coda
dell'occhio avevo intravisto sull'altro lato, vicino alla base della
torre, una figura maschile, probabilmente Lucius Malfoy, stando al
fisico, “imboscato” con una femmina e mi augurai
che quell'idiota non mi rovinasse la seconda occasione propizia di
avvicinare e portar via quella dannata ragazzina; già
qualche ora prima, infatti, avevo mancato il bersaglio. Quando
esplosero i fuochi magici, mi calai meglio il cappuccio in testa e mi
acquattai tra i cespugli, perché nessuno mi scorgesse,
ghignai quando i due amanti mi passarono vicini per rientrare
furtivamente nel castello e riconobbi in Narcissa Black la figuretta
leggermente scarmigliata che seguiva Lucius: il mio sguardo sempre
malizioso e attento, non poté fare a meno di notare che da
sotto il mantello, tra i tessuti preziosi del suo vestito, faceva
capolino un piccolissimo, malizioso inserto di pizzo che doveva essersi
strappato durante gli assalti famelici di Malfoy e ora occhieggiava
pettegolo e spudorato fuori posto.
E
bravo Lucius! Riceverò molto presto un invito per il tuo bel
matrimonio riparatore!
Sogghignando, tornai a guardare i ragazzini, le mie prede erano
finalmente sole, potevo confondere lui e prendermi lei, non mi avrebbe
visto nessuno, inoltre il percorso che avevo alle spalle presentava una
serie infinita di nascondigli perfetti in cui attendere,
finché non mi fosse stato possibile smaterializzarmi con
Meissa a Little Hangleton. Stavo uscendo dai cespugli per
agire, quando la ragazzina si voltò, salì in
punta di piedi e andò a scoccare un bacio in faccia a Black,
poi lo baciò anche sulle labbra: sorpreso, mi rintanai di
nuovo, divertito, chiedendomi se lui fosse una
“mammoletta”, o fossero evidentemente vere certe
storie sulle Streghe del Nord; magari era l'aria malsana di Herrengton
o l'opera di qualche strano maleficio di Alshain, per evitare che
qualcuno gli toccasse la sua bambina: si diceva che, quanto a perfidia
e bastardaggine, Sherton non fosse secondo a nessuno, e non avevo
motivo di non crederci. Smisi di ridere, m'imposi di non
distrarmi più, la possibilità che ci fosse
qualche maleficio nell'aria non era da sottovalutare, questo avrebbe
spiegato le immagini che... No, non ci volevo
pensare. Sollevai gli occhi verso il cielo, sopra la
luminosità multicolore dei fuochi, dietro la torre, dovevano
ormai esserci le scie rossastre dei miei compagni che venivano a darci
manforte: dovevo sbrigarmi, non potevo permettermi che l'inferno
esplodesse prima di aver messo le mani sulla ragazzina, dovevo evitare
che durante gli scontri restasse in qualche modo
coinvolta. Milord era stato categorico, la voleva viva e
integra, per sondarle i ricordi personalmente. Inoltre la
buona riuscita della missione si basava sulla sorpresa,
perché se Sherton avesse intuito un pericolo, avrebbe
lottato come una tigre per difendere non se stesso ma, appunto, i
figli. Mi preparai di nuovo a colpire, Meissa alzò
gli occhi verso la torre, indicò qualcosa col dito a Black,
con cipiglio severo e allarmato, poi si mise a urlare: entrambi
scapparono, io uscii dal mio nascondiglio e vidi in cima alla torre due
figure che stavano duellando. Evidentemente gli altri erano
già entrati nel castello, il piano aveva subito
un'accelerazione che non capivo, ma poteva ancora procedere come
previsto, se fossi riuscito a evitare che i ragazzini attirassero
l'attenzione degli altri: urlando in quel modo, infatti, qualche Elfo
poteva sentirli e dare l'allarme, rovinando tutto, per questo era
necessario che non indugiassi oltre. Li inseguii nel buio,
ripensando al piano che avevo rielaborato nelle ultime ore: dovevo
“schiantare” la bambina prima di prenderla, dovevo
evitare che mi guardasse negli occhi, mi aveva fatto qualcosa di
strano, prima, quando mi aveva toccato o guardato, dovevo evitare che
si ripetesse. Rabbrividii, cercai di reprimere la sensazione
angosciante che mi aveva travolto durante il pomeriggio, rendendomi
incapace di ultimare rapidamente la missione: la punizione di Milord
non sarebbe stata piacevole se avessi fallito, eppure, di nuovo,
ripensai turbato a quanto mi era successo.
*
poche
ore prima
Stavo
facendo lo stupido con alcuni amici, accanto alla porta che dava sul
giardino, sbeffeggiando come mio solito lo sposo e ricordando a Pucey
che doveva pagarmi una scommessa che risaliva a circa dieci anni prima:
fin dalla prima volta che l’avevo vista seduta al tavolo di
Serpeverde, poco lontano da me, infatti, avevo detto che
quell’insolente ragazzina irlandese aveva puntato il giovane
Sherton e, in un modo o nell'altro, sarebbe riuscita a farsi sposare da
lui. Quel giorno eravamo tutti lì, a ridere, ad approfittare
della generosa ospitalità del padre dello sposo, e a
festeggiare, dopo appunto dieci anni da quel giorno, il compimento dei
suoi piani, sfruttando l'ingenuità di quello stolto, che
pareva nato per farsi rigirare come un calzino da
tutti. Walden alle mie parole scoppiò a ridere come
sempre, Augustus manteneva la solita faccia da schiaffi impenetrabile,
probabilmente non condivideva il mio atteggiamento irridente, Rabastan
beveva e non mi filava, tutto preso, da un po’, da una
ragazzetta dai capelli rossi mai vista, Steven cercava di schermirsi,
perché, di pagare, come al solito, non aveva alcuna
voglia. Quando vidi avvicinarsi Jarvis Warrington, cercai di
farmi serio, sicuro che fosse venuto a riprenderci, per l'ennesima
volta, come aveva fatto, a suon di occhiatacce, per tutto il banchetto,
suscitando ancora di più la mia ilarità: di tanti
presenti, quel damerino era l'unico che non mi fosse mai stato in
grazia, lo sapevamo entrambi e sapevamo entrambi anche quale fosse il
motivo. In quel momento, però, desideravo che si fermasse
con noi, volevo mi sentisse dire che avevo intenzione di assentarmi, di
lì a poco, per un bel pezzo, per imboscarmi dietro a una
siepe con qualche gentile signora: conoscendolo, non solo mi avrebbe
creduto, ma si sarebbe tenuto alla larga da me, per evitare di trovarsi
sulla linea di tiro di mia moglie, quando mi avesse
scoperto. In realtà, nei miei progetti c'era ben
altro: parlando con i ragazzi avevo sempre tenuto d'occhio il giardino
e, da qualche minuto, mi ero accorto che la piccola Meissa era a dir
poco esasperata dal suo biondo cavaliere e dalla ferma sorveglianza di
sua madre e sembrava ormai decisa ad allontanarsi furtivamente per
raggiungere il suo adorato principino Black. Non potevo farmi
sfuggire quell'occasione, finora l'unica, di attuare il mio piano.
Avevo sceso baldanzoso e indifferente le scale, fingendo di puntare il
buffet, quando la ragazzina, forse sentendosi seguita, si era voltata
di colpo verso di me, avevamo incrociato gli sguardi e sul suo volto si
era formata un’espressione turbata e carica di domande; io
avevo cercato di apparirle il meno inquietante possibile, le avevo
addirittura fatto un sorriso e mi ero portato l'indice al naso, per
prometterle che avrei mantenuto il suo segreto, non avrei fatto la
spia. Non dovevo averla convinta, però,
perché, sospettosa, aveva desistito dai suoi propositi, si
era mischiata di nuovo tra gli invitati ed era rientrata nel salone:
furioso con me stesso per averla spaventata, andai a farmi versare una
generosa porzione di Firewhisky. Dovevo essere più
accorto, non potevo permettermi che andasse a lamentarsi di me con
qualcuno, forse non era la prima volta, quel giorno, che si accorgeva
che la tenevo d'occhio, che la fissavo con insistenza, forse suo padre
e persino suo fratello l'avevano messa in guardia da me.
Come dar loro torto? Tutti mi conoscono...
Alla fine, ghignando, mi rilassai, continuando però a
controllarla a distanza: per un po' rimase nel salone,
guardò a lungo Regulus giocare a scacchi con dei ragazzini,
poi aveva osservato annoiata i giovani che ballavano, in particolare
Lucius e Narcissa che catalizzavano su di sé le attenzioni e
i complimenti di tutti, mettendo spesso in secondo piano persino gli
sposi. Rigel, il secondogenito, al contrario, non sembrava
apprezzare molto quella vista, era nervoso e tendeva a sparire spesso;
gli sposi erano talmente presi dal loro chiacchiericcio e dalle loro
risate innamorate che si erano isolati, indifferenti a tutto quello che
capitava loro attorno; Alshain cercava di sottrarsi, invano,
all'invadenza di Lady Walburga, mentre sua moglie si divertiva con le
chiacchiere del novello consuocero, pur tenendo sempre d'occhio la
figlia. Quando il giovane Emerson ripartì alla
carica, istigato dal padre, per chiedere di nuovo a Meissa di ballare,
io mi tenni pronto: si capiva lontano un miglio che lei non lo
sopportava più, ma sottoposta allo sguardo severo di sua
madre, alla fine, l'aveva seguito con l'entusiasmo di un condannato al
patibolo, poi, però, si era spinta via via sempre
più vicino al giardino, per sottrarsi agli occhi di sua
madre e liberarsi così finalmente di quell'opprimente
damerino. Mi mossi di conseguenza, sicuro di riuscire a
cogliere l'occasione propizia: mi nascosi per bene tra i cespugli, in
un punto riparato che mi sembrò essere sulla traiettoria di
fuga più probabile di Meissa, interessato a spiare la
conversazione tra i due giovani Maghi del Nord, e pronto a tirar fuori
le mie conoscenze di Erbologia se qualcuno si fosse chiesto che cosa ci
facessi lì.
“Ti ringrazio, William, ma sono stanca, e vorrei starmene un
po' da sola, per favore... ”
“Non ti chiedo più di ballare, promesso, fanno
male i piedi pure a me! Resto qui con te, però, non ti
lascio da sola, così poi torniamo indietro insieme e ti
prendo un succo di zucca... ”
“No, voglio restare qui: sono stanca e mi fa male la testa,
ho bisogno di stare da sola.”
“Ma è pericoloso!”
“Pericoloso? Salazar, Emerson, sono a casa mia, ricordi? Che
cosa vuoi che mi capiti?”
“Tua madre non vuole che resti da sola, nemmeno se questa
è casa tua, è per questo che ti ha affidata a me!
E per questo se ti dico una cosa mi devi ubbidire! Sono anche
più grande di te!”
“Che cosa? Io ubbidire a te? Ho già un padre, una
madre e due fratelli maggiori, William “piattola”
Emerson! Ti ho già sopportato pure troppo, per far contenti
tutti! Adesso basta! Vattene e lasciami in pace! E guai a te se fai la
spia con mia madre, ti giuro che non ti conviene!”
Ridevo tra me, sentendo
con quale impeto Slytherin la mocciosa avesse messo a cuccia quel
ragazzino invadente; lui non era stupido né ottuso, anzi, ma
era troppo opprimente, crescendo doveva cambiare atteggiamento con le
femmine, altrimenti il suo piacevole aspetto non gli sarebbe servito a
niente, poteva giusto annoiarle o farsi picchiare da loro: e magari gli
sarebbe pure piaciuto... Ghignai. Meissa rimase lì,
turbata e stizzita, dall'altra parte del mio stesso cespuglio, a
strappare i petali di una rosa, Emerson si allontanò,
offeso, diretto al tavolo delle bevande, non prima di averle rivolto un
poco elegante “saluto” in gaelico, che avevo
imparato a riconoscere frequentando Mirzam; io ritornai a concentrarmi
sul piano e mi preparai all'attacco. Mi guardai attorno:
eravamo abbastanza isolati, lei non mi vedeva ed io non vedevo lei, ma
come io potevo sentirla, lei poteva sentire me; iniziai a sussurrare
attraverso le foglie, con la mia voce più suadente e
gentile, bassa, una piccola nenia apparentemente innocua, in
realtà malevola, capace com'era di coinvolgere il pensiero
di una persona giovane e debole per abbattere le sue difese e portarla
verso di me: volevo che mi seguisse a distanza, verso un punto poco
visibile. Come previsto, la nenia s'impresse rapida nella sua mente: il
corpo seguiva automaticamente colui che l'aveva sussurrata, mentre il
cervello era impegnato a canticchiare ossessivo la melodia, senza avere
più percezione di che cosa stesse accadendo tutto attorno a
sé. Mi fermai, per ammirare l'oceano sotto di me, come
sottofondo la musica che arrivava ormai da lontano, dalla sala, coperto
dall'ombra di una delle massicce torri di Herrengton, svettante verso
il cielo: poco dopo Meissa mi fu di fronte, silenziosa, vagamente
assente, nel punto più riparato della terrazza, invisibile
dal salone o dalla tenda in giardino. Finsi di non curarmi di lei, di
non aver nemmeno notato la sua presenza, tutto preso ad ammirare le
rose fiorite magicamente, le più belle che avessi mai visto:
solo dopo un po' mi voltai.
“Una rosa per voi, Mademoiselle, bellezza donata alla
bellezza... ”
Porsi la sinistra verso
di lei, confusa mi guardò senza capire, osservò
la rosa che le stavo porgendo, bianca, infida offerta di pace: non era
stata colta dal suo giardino, l'avevo portata dal mio, dopo averla
recisa e avere immerso il suo tenero gambo senza spine per una notte
intera in una pozione che doveva penetrarle nel sangue attraverso la
pelle, rendendola più docile e debole. Non potevo
né volevo usare dei metodi brutali su di lei, era piccola e
non sapevo quale potesse essere l'effetto, sulla sua mente, di una
maledizione come l'Imperius finché era protetta da Habarcat:
se avessi perduto o rovinato i suoi ricordi, infatti, Milord se la
sarebbe presa con me. La ragazzina, però, non
ubbidiva, non si decideva a prenderla, sembrava impietrita: la guardai,
era attratta e al contempo spaventata da qualcosa, dalla mia mano, anzi
no, dall'anello che portavo sulla mano sinistra, lo guardava come se lo
conoscesse, turbata, benché non ne capissi il motivo, non
avevamo mai avuto nessun tipo di rapporto fino a quel momento.
A meno che...
Mi fissò
senza vedermi, pur irretita, non la stavo controllando e forte era il
rischio che provasse a fuggire: dovevo impedire che accadesse, che
aprisse bocca e chiedesse aiuto. Innervosito e incauto,
benché mi fossi ripromesso di non compiere gesti apertamente
ostili o minacciosi, finii col prenderle la mano con forza, anzi, le
arpionai deciso il polso con la mano destra e subito maledissi la mia
inettitudine, perché la nenia smise di colpo di farle
qualsiasi effetto. Era tornata pienamente in sé, io
cercai di cambiare rapidamente atteggiamento, mostrandomi gentile e
preoccupato, dovevo farle credere di averla afferrata per non farla
cadere.
“Che succede, Meissa? Vi sentite poco bene? Perché
non mi rispondete?”
“Che cosa ci faccio qui? Perché mi tenete la mano?
Lasciatemi milord!”
“No, calmatevi, non abbiate paura di me, non ne avete motivo!
Vi ho visto arrivare fin qui sovrappensiero e pallida, sembravate sul
punto di svenire e... ”
“Io... io non ho paura di nessuno, Lestrange! Io... io non
voglio nulla da voi, voglio solo andarmene!”
“E allora fatelo, se ci riuscite... ”
Lo dissi quasi
ghignando: non credeva alle mie recite e altri metodi
“leggeri” ormai erano inefficaci, non c'era
più tempo da perdere, tanto valeva passare subito alle
minacce e farla finita: in genere bastava un’occhiataccia per
ridurre le prede al silenzio, lei però non
s'intimorì, anzi, mi guardò ancora più
furibonda, fissando minacciosa alternativamente i miei occhi e la mia
mano, che ancora teneva la sua, le mie dita forti che sfioravano
impertinenti le sue Rune delicate. Non capiva come avesse
fatto a finire lì, con me, e questo la turbava, ma non
provava nei miei confronti un vero timore, non era come le mie
abituali, patetiche, vittime, pronte a scendere a compromessi di
qualsiasi genere pur di salvarsi, lei mi fissava come se fossi
un'insulsa nullità. Conoscevo quello sprezzo,
quell'orgoglio, quell'indomabilità, il pensiero di occhi
altrettanto alteri mi andò al cervello e mi fece fremere:
quella ragazzina non sapeva ancora cosa fossero il vero dolore e la
vera paura, e per un attimo invidiai Milord, perché glielo
avrebbe fatto scoprire. Doveva essere un'esperienza
affascinante sottometterla, plasmarla nella verità nitida
del dolore: spezzare il suo coraggio incosciente, rompere l'illusione
della sua superiorità e invincibilità, spegnere
la luce del suo sguardo puro, ammantare di oscurità la sua
mente, aprendola al sottile piacere del dolore e dell'inferno. Quel
piacere, quell'appagamento mentale che Milord riservava solo a se
stesso, doveva essere così intenso da risultare perfino
più travolgente di quello che accompagna il possesso fisico.
Era per questo, perché m’insegnasse quella Magia
sottile ed estrema che avevo scelto di seguirlo, volevo che le persone,
quelle che non mi avevano mai preso sul serio, per lo scarso rispetto
che anche mio padre nutriva nei miei confronti, tremassero di fronte a
me, consapevoli dell'incubo in cui li avrei travolti, se solo avessi
voluto; per questo, giorno dopo giorno, avevo lottato, mi ero affermato
con innumerevoli sacrifici di sangue, e ora che Milord mi riteneva il
migliore tra i suoi, speravo mi avrebbe guidato verso i segreti
più oscuri della vera Magia proibita. Meissa
Sherton sarebbe stata il lasciapassare per tutto questo. Non
potevo assolutamente lasciarla andare.
“Che cosa volete da me?Lasciatemi andare o sarà
peggio per voi!”
“Da voi, voglio solo ciò che mi appartiene,
Meissa, nulla di più: vostro padre vi ha dato qualcosa che
appartiene a me. Ho visto che vi piace il mio anello, lo conoscete
forse? Vi sembra familiare? Perché non mi fate vedere il
vostro, qualcosa mi dice che si assomigliano...”
“Lasciatemi! O mi metto a urlare!”
“Dammi l'anello, stupida ragazzina! Non farmi arrabbiare, o
sarà molto peggio per te!”
Un colpo di vento mosse
il tessuto del mio mantello e della mia tunica andando a scoprire il
mio braccio: Meissa scivolò con lo sguardo dall'anello alla
mia mano, risalì lungo il mio corpo, fissò la mia
pelle, percepì il nero che si agitava bramoso di sangue, il
mio oscuro segreto. Allora vidi comparire il terrore vero nel
suo sguardo: conosceva il significato del Marchio, conosceva Milord,
sentiva quanto fosse vicino e i suoi occhi urlarono tutta la sua paura
di morire. Approfittai del suo terrore e strinsi più forte
la destra sul suo polso, gli occhi fissi nei suoi, gettai a terra la
rosa ormai inutile e puntai su di lei la bacchetta con la sinistra,
sussurrai Legilimens per cercare nella sua mente tracce di quello che
cercavo, le tracce della verità, e intanto indebolirla
ancora di più, per poterle strappare l'anello e portarla via
senza problemi. Era incredibilmente semplice muoversi nei suoi
ricordi, non trovai alcuna resistenza, era così indifesa e
inesperta che non potevo crederci: perché Sherton era stato
tanto sciocco da affidare quel compito gravoso a una ragazzina incapace
di reagire? Rividi, sotto forma di flash scoordinati, alcune
immagini di quella lunga giornata, poi via via, sempre più
lontano nel tempo, ripercorsi tutte le espressioni dei volti di suo
padre e di suo fratello, scene familiari di ogni tipo, tutte
stucchevolmente amorevoli; io le ripetevo sempre e solo la stessa
richiesta, ancora, ancora, invano, le ripetevo sempre la stessa parola:
Anello...
Preso com'ero da quella
ricerca spasmodica, da quella folla d’immagini che alla fine
iniziavano a ritrarre Mirzam e suo padre, il famigerato studio di
Alshain Sherton, la fiamma di Habarcat, la fedina d'argento che si
completava con uno smeraldo, la luce di una giornata di fine estate,
non mi accorsi che, priva di forze, la bambina stava per scivolare a
terra. Per non cadere, Meissa cercò di allungare
anche l'altra mano verso di me, per sorreggersi al mio braccio, e
finì col toccarmi proprio sul Marchio Nero: le sue unghie
affondarono appena un po' nella mia pelle, facendo sgorgare una piccola
stilla di sangue, proprio dalla bocca del Teschio. Come
sottoposto a una scarica diretta nel cervello, un dolore terribile
s’impossessò della mia testa, mi sembrò
che qualcuno facesse confusione nei miei pensieri: davanti ai miei
occhi sparirono le immagini di Herrengton, che carpivo a Meissa,
sostituite da ombre indefinite, da sensazioni di paura e
oscurità, la mia mente si riempì di flash senza
senso, di figure fatte di buio, di dolore, di urla soffocate, di fame e
di sete, di pazzia e disperazione, di totale
infelicità. Cercai di recuperare il contatto con la
realtà, provando a fissare di nuovo gli occhi nei suoi, ma
non riuscivo più nemmeno a vederla, ero nel buio
più completo, in una specie di prigione soffocante, non
riuscivo a muovermi, attaccato com'ero ai ceppi, urlavo, desideravo
solo fuggire, morire, mi sentivo braccato, spaventato, disperato, solo,
con il cuore che pulsava a mille, pronto a esplodere, benché
non riuscissi a muovere neppure un passo. Non riuscivo ad
allontanarmi da lei, ad aprire la bocca, a interrompere quel momento.
Che cosa mi sta accadendo? Che cosa mi sta facendo?
Riuscii ad aprire la
mano, il tanto che bastasse a lasciarla andare; Meissa, che si reggeva
in piedi ormai solo per la mia stretta, scivolò a terra,
finendo col graffiarmi il braccio e portarsi via un lembo della mia
pelle: non vedevo niente, sentivo solo un dolore atroce, dove Milord mi
aveva marchiato, cercai la ferita con le dita, temevo, folle, che il
Marchio non ci fosse più, invece di colpo il nero divenne
rosso sangue, vidi di fronte a me la bocca del teschio ghignare,
allargarsi, nutrirsi della mia pelle, sempre di più, fino al
tessuto, fino ai muscoli, e poi più giù fino a
divorarmi le ossa. Un fiume di sangue uscì dal
serpente e mi travolse, mi fece annaspare, mi fece
annegare. Urlai, ma la voce non usciva dal mio corpo, urlai
più forte e infine riuscii a...
Svegliarmi?
Col fiato corto e il
cuore che pulsava impazzito, mi chiesi se fossi tornato in me o fosse
un'altra allucinazione, mi guardai attorno, spaesato, non riuscivo a
capire cosa fosse successo, quanto tempo fosse passato, quale fosse la
realtà; davanti a me c'erano le siepi, dietro di me le forti
mura della torre, attorno, da lontano, percepivo la musica, il braccio
non mi faceva più male. Meissa era in piedi davanti
a me, sembrava pienamente cosciente e decisamente ostile, per la mia
mano che serrava ancora la sua, non pareva intenzionata a credermi
mentre le dicevo che non avevo cattive intenzioni: gettai la rosa a
terra e le dissi che mi dispiaceva, che mi ero sbagliato, che pensavo
si sentisse poco bene, le lasciai la mano, poi mi mossi per superarla e
lasciarla in pace. Lei restò presso la balconata, a
osservare il mare. Che diavolo mi aveva fatto? Sembrava che la
mia mente, per un tempo che non sapevo quantificare, si fosse divisa in
due, e il mio Io più profondo avesse perso contatto con
quello cosciente, gettandomi in una realtà che non era
quella che stavamo vivendo, eppure non era meno
vera… Anzi: sentivo che conteneva anch'essa una
parte della mia vita. Fosse stata una Strega adulta, avrei
pensato a un incantesimo oscura che non conoscevo, ma quella che avevo
davanti era una ragazzina di appena undici anni: com'era possibile?
Turbato, mi resi conto che me n'ero andato senza nemmeno aver avuto il
tempo di Obliviarla, ma non mi rendevo nemmeno conto se c'era stato tra
noi qualcosa che dovessi obliviare. Quale dei miei ricordi era vero e
quale falso? L'anello, che avevo visto nei suoi ricordi, era
un sogno o esisteva davvero? Mi sentivo confuso, e la cosa
peggiore era che non ero stato in grado di portare a termine il mio
compito: per nessun motivo avrei voluto ripetere l'esperienza di
avvicinare quella ragazzina inquietante, eppure non potevo andarmene da
Herrengton senza averla catturata e portata via. Dovevo
riprovarci, sì, dovevo farlo per forza, ma prima dovevo
escogitare un modo per prenderla, senza che lei avesse la
possibilità di posare i suoi occhi o le sue mani su di me.
*
Seguii i ragazzini nel buio dei corridoi, Sirius, in breve, era corso
molto avanti, non c'era più contatto visivo tra noi,
probabilmente non riusciva più nemmeno a sentirci, ed io non
potevo andarlo a cercare, dovevo agire in quel momento, fare in fretta,
perché quando si fosse accorto che Meissa non c'era
più, sarebbe ritornato indietro a cercarla, e probabilmente
non sarebbe stato solo. Rapido, gettai un Muffliato tutto
intorno a noi, per sicurezza, poi colpii Meissa con un Incantesimo alle
gambe, facendola cadere a terra: trattenni l'ansia che mi aveva colto,
mi avvicinai, ma prima di controllare se si fosse ferita, e quanto, le
scagliai addosso anche uno Schiantesimo, quindi mi accostai al suo
corpo, immobile, steso sulla fredda pietra. Mi acquattai al
suo fianco e la voltai: aveva battuto il naso e il sangue le stava
uscendo copioso, aveva macchiato il pavimento e le stava sporcando il
viso e il mantello; decisi di raccogliere un po' del suo sangue e
allontanarmi per creare con esso delle tracce fasulle, ma prima dovevo
farle un Epismendo per fermarle l'emorragia, poi raccolsi la rosa che
le aveva donato Black e la strofinai sulla ferita, le sganciai la
spilla che la fermava sul mantello, e mi allontanai per abbandonare
quegli oggetti qualche metro più avanti, in
prossimità di una porta, sporcai il pavimento con un po' di
sangue, così da sviare le ricerche quando fossero venuti a
cercarla. Quindi tornai indietro, pulii il punto in cui era
caduta davvero e osservai meglio la ferita: a una prima indagine, il
naso sembrava rotto, ma al momento non c'era tempo di
riaggiustarglielo, avrei approfittato dell'attesa in qualche
nascondiglio per farlo, se non altro perché non volevo che
Milord mi chiedesse il motivo dell'aggressione, non doveva scoprire in
alcun modo quanto era accaduto, o avrei perso la sua stima per aver
avuto paura di una bambina. Senza indugiare oltre, la
infagottai per bene nel suo mantello così che non mi
sporcasse né lasciasse dei segni sui miei vestiti, poi me la
caricai in spalla e mi avviai nella direzione opposta a quella di
Sirius, arrampicandomi nel buio di una stretta scalinata che,
probabilmente, saliva sulla torre del duello, alla ricerca di un
rifugio, in attesa di potermi smaterializzare.
***
Orion Black
Herrengton Hill, Highlands - mar. 21 dicembre 1971
Non può essere vero! No, Alshain non può essere
davvero morto... non così, non lui, non a Herrengton!
“Alshain! Gira quel dannato
anello, Emerson! Chiama gli altri, fai qualcosa! Alshain!”
Emerson stava in piedi davanti a me, impietrito e pallido come un
morto, incapace di spiccicare una parola o reagire in qualche modo, io,
tornato indietro, lo scansai senza riguardi mandandolo a sbattere
contro il muro, raggiunsi il mio amico e mi gettai a terra al suo
fianco.
“Alshain!”
“Non c'è
più niente da fare, Black! Non lo vedi? È
morto!”
“Io non sono un Medimago e
nemmeno tu lo sei! Non ti sei nemmeno chinato a guardarlo! Non puoi
saperlo! Gira quel maledetto anello o ti giuro, per Salazar, ti ammazzo
con le mie mani!”
Non gli prestai più alcuna attenzione, tutto preso com'ero
dal mio amico, immobile, a terra: la prima, rapida occhiata non mi
rassicurò per niente, mi sembrava che non respirasse, aveva
gli occhi semichiusi e una smorfia di dolore dipinta sul volto, provai
a sentirgli la vena sul collo, ma non riuscivo a trovarla, gli strappai
malamente il tessuto della tunica per raggiungere rapidamente il suo
petto, vidi che la pelle e le Rune erano imperlate di fitte gocce di
sudore già freddo, mi abbassai con l'orecchio a sentire il
suo cuore, ma per quanto mi sforzassi, non percepii alcun battito.
No, non ci credo, non è ancora detto... Non significa
niente, assolutamente niente!
“Maledizione Emerson! Hai
girato l'anello? Voglio Fear qui, subito! Ora!”
“Non ce l’ho, non
l’ho messo per venire oggi! Cosa poteva succedere qui, me lo
spieghi?”
“Allora fa qualcosa, qualsiasi
altra cosa! Vai dagli altri, chiamali! Cosa ci fai ancora
qui?”
Non ci vedevo più dalla rabbia: e consideravano intelligenti
quei dannati Corvonero? Poi mi venne un’idea, gli
dissi di fermarsi, presi la mano di Alshain, gli sfilai l'anello e lo
porsi a Emerson: sulle mani di un Mago senza Rune, come me, non era che
un bel gioiello, ma lui... C'era solo una cosa che mi
opprimeva più del pensiero che Alshain fosse già
morto: il pensiero che ci fosse ancora una speranza e che noi la
stessimo buttando via, perdendo la ragione come faceva Emerson, o per
la nostra incapacità e impotenza, come nel mio caso.
“Sei un Corvonero no? Dovresti
avere un minimo di cervello! Usalo! Te le devo trovare io le soluzioni?
Gira questo stramaledetto anello! E ti consiglio di muoverti o non
rispondo di me!”
Mi assicurai che girasse l'anello come faceva Alshain, poi, sotto gli
occhi sbigottiti di mio figlio, che era rimasto impalato a qualche
metro da me, muto, preda del terrore e della disperazione, incapace di
trovare il coraggio di avvicinarsi, iniziai a frugare tra le vesti di
Sherton, alla ricerca dei famigerati sacchettini che portava sempre
legate alla cintola: non ero un Medimago e non ero un Mago del Nord, ma
ero da sempre un ottimo pozionista, conoscevo l’antidoto
universale, quindi... Se c'era ancora una speranza, forse
potevo essere meno inutile di quanto temessi... Se davvero mia
nipote aveva osato… se davvero tutto questo era colpa di un
veleno… io forse c’era ancora qualcosa che potevo
fare...
“Dannato scozzese, hai sempre
qualcosa di utile con te! Non mi deludere proprio stavolta! Dove lo
tieni?”
“I sacchettini... di solito li
teneva dietro, a destra: era lì che li portava
quest'estate!”
Guardai Sirius, il mio volto probabilmente non tradiva emozioni, ma ero
fiero di lui, del suo spirito di osservazione, perché aveva
ricordato un dettaglio utile che a me, preda dell'angoscia, in quel
momento sfuggiva: era mio figlio, non c'erano dubbi, sapeva mantenere
un minimo di controllo anche nella disperazione più
profonda, proprio come faceva un bravo Black! Avrei voluto
baciarlo, pieno di orgoglio e felicità, perché,
dopo essere riuscito, con difficoltà, a sollevare Alshain e
a girarlo sul fianco, messa mano al sacchettino, avevo trovato proprio
quello che cercavo: l'avevo visto spendere una fortuna, pochi giorni
prima, per comprare un paio di rari Bezoar e sapevo che ne avrebbe
portato almeno uno con sé, quel giorno, per ogni evenienza,
avendo in casa Lestrange e Malfoy e un ospite scomodo come il
Ministro. Feci cenno a Sirius di avvicinarsi, lui dapprima
parve esitare, l'espressione tesa per le lacrime trattenute ormai a
stento, poi, deglutendo a fatica, nervoso, annuì e si
chinò accanto a me.
“Devi aiutarmi... La vita del
tuo padrino può dipendere da te, Sirius.”
“Vita? Allora non è
morto?! Alshain non è morto?”
Lo fissai, vidi nei suoi occhi lo stesso sconvolgimento e la stessa
disperazione che sentivo in me, mi fece male vederlo soffrire, e ancora
di più essere incapace di consolarlo: non conoscevo le
parole giuste da dirgli, né avevo certezze con cui
rassicurarlo, sapevo che Alshain al mio posto avrebbe fatto
“il padre”, l'avrebbe stretto a sé, gli
avrebbe detto di non avere paura, che c'era sempre, anche nei momenti
più bui, una speranza, ma io non sapevo dirgli tutto questo,
non con l'amore che pure sentivo dentro di me; potevo solo dirgli,
asetticamente, quello che mio padre avrebbe detto a me, che
“un Black non deve mai lasciarsi andare”, che non
c'era tempo da perdere, che dovevamo trovare Meissa e Rigel, ma, pur
razionali e giuste, in quel momento, quelle parole non erano
sufficienti. Alshain, al mio posto, gli avrebbe mentito, pur di non
vederlo soffrire; io stesso, tendendo quel braccio, stringendo mio
figlio a me, sarei riuscito per un attimo a soffocare il dolore, invece
non ci riuscivo, una pietra in me mi portava a fondo, una gabbia di
gelo m'imprigionava, inesorabile. Era tragico e assurdo,
sì, assurdo: come padre, era mio compito anche sostenere i
miei figli, non solo inculcare loro il culto del Sangue Puro o insegnar
loro la Magia, dovevo aiutarli ad affrontare e apprendere la Vita,
invece, in undici anni, per colpa delle mie scelte, delle mie paure,
dei miei affari, non mi ero mai, nemmeno per un attimo, fermato ad
ascoltare, a comprendere, come si parlava ai loro piccoli cuori,
nemmeno al buio, in silenzio, quando non potevano
sentirmi. Riuscivo a far loro una carezza, di nascosto, ma non
riuscivo ad aprire bocca e dire quello che forse ancora desideravano e
avevano bisogno di sentirsi dire da me: nonostante tutto il desiderio
che avevo di rivederlo al ritorno da scuola, ero riuscito a sussurrare
a Sirius, al buio, appena un "Bentornato... ". Il mio stupido
orgoglio m’impediva di avvicinarmi a loro, come mi aveva
impedito per anni di essere sincero e chiedere aiuto ad Alshain,
l'unico che potesse capirmi: avevo sempre finto, anche con lui, di
essere sicuro delle mie decisioni, mi ero mostrato sprezzante e
arrogante, deridendolo per quella che chiamavo la sua debolezza verso i
suoi figli, invidiandolo invece per gli occhi pieni d’amore
con cui si rivolevano a lui. E ora... Ora l'unico che avrebbe
potuto insegnarmi la strada, era lì, a terra, probabilmente
morto.
Il mio migliore amico... il mio unico vero amico...
No, non potevo, non potevo cedere ai miei fantasmi, ai miei pensieri,
alle mie debolezze, non sapevo se Alshain fosse davvero morto o fosse
vittima di un incantesimo o di un veleno, ma di sicuro mi era stato
affidato un compito importante: dovevo essere freddo e distaccato come
sempre, per mio figlio, per Meissa e per Rigel, se avessi permesso al
dolore di travolgermi, non saremmo mai riusciti a ritrovarli e invece,
ora, questa era l'unica cosa importante. Dovevo evitare che Sirius
perdesse la speranza.
“No, non è morto,
Sirius, ma è debole... Molto debole... Tienigli sollevata la
testa, mentre io cerco di fargli inghiottire questo. Ecco bravo,
così... Perfetto! Se, come temo, è stato
avvelenato, con questo potremmo averlo salvato... ”
“Avvelenato? Da chi? E lui ora
si salverà? Si salverà di sicuro?”
“Non sono un Medimago, Sirius,
non lo so: ho visto persone riprendersi dal Vaiolo, da veleni e da
fatture mortali, altri cedere per molto meno; ma se hai ascoltato il
tuo precettore, sai che se somministrato in tempo, il Bezoar fa sempre
il suo corso, poi spetta ai Medimaghi fare il resto... ”
“Che cosa sta succedendo qui?
ALSHAIN!”
“SHERTON... per Salazar e per
tutti i fondatori!”
“NO!”
“Che cosa? MERLINO
SANTISSIMO!”
Dietro di me, sentii lo scalpiccio e le voci dei primi Maghi del Nord
che accorrevano al richiamo dell'anello di Alshain: io non mi voltai,
anzi pregai, tra me, che non ci fosse anche Deidra, perché
non avrei retto davanti a lei, non ci sarei riuscito, davanti alle sue
lacrime mi sarei bloccato e non potevo permettermi di cedere alla
disperazione, alla paura che stavolta fosse tutto finito. Se
era come pensavo, se mia nipote, quella maledetta, l’aveva
avvelenato, stava agendo secondo un piano e quello doveva essere solo
l'inizio: senza Mirzam e Alshain, con Meissa e Rigel scomparsi, poteva
capitare di tutto, perciò non c’era tempo da
perdere, dovevo muovermi subito!
“Dobbiamo andare, Sirius,
dobbiamo cercare Meissa: Alshain ci ha dato un compito, dobbiamo
ritrovargliela, ricordi? Quando si riprenderà,
sarà la prima persona che vorrà davanti a
sé, e noi, qui, per lui, non possiamo fare più
nulla; lasciamolo alle cure di sua moglie e della sua gente.”
Sirius mi guardò incredulo: doveva aver percepito in quegli
ultimi mesi il forte legame che mi legava a Sherton e doveva immaginare
quanto fosse difficile, anche per me, allontanarmi in quel modo, senza
essere certo della sua salvezza, eppure anche lui sapeva che non
avevamo scelta, anche lui temeva come me per Meissa. Concessi
a Sirius di aspettare che Kelly ed Emerson sollevassero e deponessero
Alshain su un mobile trasfigurato in lettiga, senza che nemmeno loro si
pronunciassero sulle sue condizioni, ma quando il celebrante, Fear e
altri tre anziani Maghi del Nord si fecero intorno per esaminarlo e
sentii la voce di Deidra, tra le altre, che si affacciava dal salone
sul corridoio, lo afferrai per un braccio e feci un cenno agli altri
perché dovevamo subito riprendere le
ricerche. Fear, liberato a malincuore da Crouch, prese uno
specchietto e lo mise sotto il naso di Alshain, lo
controllò, disse qualcosa che non compresi a un paio di
Maghi più anziani, poi diede loro le spalle e si
unì a me, Emerson e Kelly per aiutarci nelle
ricerche. Rimase in silenzio quando mi raggiunse ed io non
ebbi il coraggio di fargli domande, né di alzare gli occhi
su di lui, per sondare la sua faccia impenetrabile e cogliere la
verità; al contrario, mi misi a correre, velocemente,
lasciando che la penombra del corridoio nascondesse le stupide lacrime
che rigavano la mia faccia.
*continua*
NdA:
Ringrazio al solito per le letture, le preferenze, le recensioni, le
mail ecc ecc. A presto.
Valeria
Scheda
Immagine:
non sono ancora riuscita a risalire alla fonte di quest'immagine
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