Quel nome
«Ne hai per molto?» sibilò furibonda.
Remus sollevò gli occhi dalla pagina della Gazzetta del Profeta,
scoprendo con malcelata perplessità la mise da cobra che
sfoggiava la sua giovane ed adorata mogliettina. Piccole squame
ricoprivano il suo volto, contornato dal minaccioso cappuccio del
rettile. L’aveva vista arrabbiata molte volte, mai però in
quelle condizioni, quindi preferì non farle notare che i cobra
non avevano code che terminavano con rumorosi sonagli. Quelli erano i
crotali.
«Ti ho chiesto se hai intenzione di andare avanti ancora per
molto con questa storia» ripeté, le pupille verticali
quasi invisibili nelle iridi gialle.
«Dora, non so di cosa stai parlando» si schermì, ripiegando cautamente il quotidiano.
Si rendeva conto che il rotolo di carta rappresentava una difesa a dir poco ridicola contro una Metamorphomagus fuori della grazia di Merlino, ma afferrare la bacchetta lì accanto avrebbe potuto significare problemi peggiori.
«Ah, no? È mezz’ora che continui a chiamarmi!» strillò pestando i piedi.
Il bicchiere di succo di zucca sul tavolino di fronte tintinnò pericolosamente.
«Chiamarti?» domandò senza capire.
«Sì! Tu mi chiami!» lo accusò, gonfiando i lati della testa, ormai delle dimensioni di un mantello.
Il licantropo non osò replicare, indicandosi sconvolto con l’indice.
«Togliti quell’espressione della faccia, Malandrino dei miei scarponi!»
«Stivali» fece lui, buttando rapidamente in gola l’ultimo sorso di succo.
La donna strabuzzò gli occhi ed il cappuccio sparì.
«Eh?»
«Stivali. Si dice “dei miei stivali”, non
scarponi» la corresse con un sorriso che voleva essere
accomodante.
«Stivali, scarponi… sempre sui piedi stanno e sul sedere
fanno male uguale!» disse, dando un calcio all’aria e
rovesciando l’incolpevole quanto vuoto bicchiere sul pavimento.
Restarono qualche secondo a guardarlo, indecisi sul chi dovesse
assumersi l’onere di recuperarlo. Nessuno si azzardò e
quello rimase dov’era.
«Allora, Lunastorpia» riprese l’ancora serpentina Tonks.
«Storta»
«Cosa è storta? Non ho toccato ancora niente ed è storto qualcosa!?» protestò.
«Lunastorta, non Lunastorpia» disse, tentando di non farsi
scappare una risatina. «È così che mi chiamavano.
Possibile che quando ti arrabbi pasticci anche con le parole?»
Dora non riuscì a trovare subito le parole giuste per
rispondere. Le ragioni che il suo uomo lupo sapeva addurre erano quasi
sempre in grado di ricondurla alla ragione, ma questa volta la faccenda
era grave. Non ci sarebbe stata logica in grado di sovvertire la
situazione.
«Tu mi hai chiamata con quel nome!» ruggì stizzita.
«Io non apro bocca da quando sei andata di sopra. E francamente
ho smesso di leggere il giornale ad alta voce da quando ero ragazzino e
James mi ficcò in bocca tre fette di pane e miele»
Ricordava ancora le briciole e il miele appiccicati all’ugola che tentavano di soffocarlo.
«Non fare lo spiritoso, pulcio! Se ti sento dire di nuovo quella parola, alla prossima luna piena ti strappo la coda!»
Gli occhi castani si strinsero. Certe minacce lo infastidivano, per
quanto ritenesse la sua malattia un’autentica disgrazia.
«Provaci e a quella successiva strapperò io la tua»
provocò. «A tua madre potrebbe venir voglia di cambiare
quel collo di volpe che ha sul mantello invernale»
Il sottinteso era palese: un morso per la sua coda, ed alla prima occasione, il pareggio dei conti.
Un sorriso perfido distese le labbra della moglie.
«Non lo faresti»
Accidenti, era vero. Non sarebbe mai stato in grado di compiere una simile cattiveria con l’Antilupo
in corpo. Anzi, probabilmente sarebbe stato lo stesso senza averla in
corpo. Sospirò, tornando a sprofondare nella poltrona. La
guardò. Le squame ora ricoprivano solo qualche punto del viso e
gli occhi erano ternati normali, indizio di calma in arrivo.
«Perché dovrei chiamarti Ninf…» la punzecchiò come d’abitudine. «Con quel nome, visto che in questo momento non ho un motivo plausibile per farlo?»
«Non lo so, ma se non sei stato tu, allora qualcun altro si sta
divertendo alle mie spalle e la pagherà molto cara!»
annunciò battagliera.
«Eccomi!» trillò una voce in quel momento.
«E tu che hai da dire a tua discolpa?» domandò secca, Petrificando il figlio con lo zaino a mezz’aria, senza bisogno della bacchetta.
Teddy sbatté le palpebre sui capelli irti e neri della madre che
mandavano scintille elettriche. Non era mai un buon segno. Di solito
era come minimo pessimo, catastrofico. Nella maggior parte delle
occasioni coincideva con i castighi per la scoperta delle sue
marachelle. I capelli persero l’abituale tinta castana che usava
a scuola per prenderne un color tortora. Possibile avessero scoperto
che aveva preso di nascosto la scopa di papà per farsi un giro?
Aveva rimesso tutto in ordine, ne era più che certo.
«Che… non so neanche di cosa state parlando?» si giustificò, indicando lo zaino.
No. Non poteva essere per la scopa. E se si fosse trattato della
misteriosa sparizione delle scorte segrete di brioches
all’albicocca della mamma? Ma era per il bene dei suoi amici,
stavano morendo di fame e l’ora delle merenda era passata da un
pezzo… l’avrebbe punito per aver compiuto una buona azione?
«Tua madre insiste a dire che qualcuno la sta chiamando per nome» spiegò Remus.
«Con quel nome!» tuonò.
Il bambino li squadrò interrogativo per qualche secondo, prima di capire a cosa alludessero.
«Quel nome? Ah! Quel nome!» esclamò sollevato, sentendo le ramanzine allontanarsi veloci. «E allora?»
«E allora? Come ti viene in mente di usarlo!?»
«Ma se sono stato a scuola fino adesso? E poi, perché deve
essere per forza colpa mia? Eh? Se succede qualcosa sono sempre
io!» replicò sullo stesso tono irato.
Teddy aveva dieci anni e si trovava in quella delicata fase in cui
qualsiasi accenno di rimprovero faceva scattare in lui reazioni uguali
e contrarie. Avendo ereditato i tratti del Metamorphomagus
della madre ma non essendo ancora in grado di controllarli appieno, il
bambino si ritrovò a mostrare una chioma da porcospino verde
fosforescente.
«Ti ho solo chiesto…»
«Tu mi hai dato la colpa e io non ho fatto niente!»
«Ehi…» tentò d’intervenire Remus,
impressionato dal ciuffo di tentacoli violacei che ora si agitava sulla
testa del figlio.
«E allora se non hai fatto niente perché rispondi
così?» insinuò Dora, arricciando tutta la fronte
come una fisarmonica.
«Perché tu urli!» e dopo i tentacoli, un fruscio di piume di corvo ricoprì il suo capo.
«Io urlo? Tu stai urlando! Io parlo ad alta voce!»
«Banshee!»
«Banshee a me? Tua madre? Ma come ti permetti, piccolo Jobberknoll?»
«Calmatevi!» sbraitò Remus spazientito.
Con un paio di colpi di bacchetta li mandò sedere entrambi sul
divano e prese posto fra di loro. Attese che i litiganti la smettessero
di lanciarsi mute accuse con lo sguardo e i lineamenti deformati e
proseguì.
«Sono sicuro che c’è una spiegazione»
«Sì! Mamma si è inventata tutto!»
«Teddy…» lo richiamò l’uomo,
sottolineando il suo nome con un’occhiata carica di ammonimenti.
«Ma lei…»
«Teddy» insisté, fermo.
Il bambino mise il broncio e si strinse nelle braccia, accartocciandosi su sé stesso.
«Avanti, non c’è bisogno di arrabbiarsi. Adesso
cercheremo di scoprire cosa sta succedendo. Insieme. E con calma. Come
una brava famigliola che si vuol bene. Perché noi ci vogliamo
bene, vero?» si affrettò a ribadire allungando le braccia
e stringendoli, perché i due già minacciavano di
ricominciare daccapo.
Nemmeno con Felpato e Ramoso doveva darsi tanto da fare a mantenere i
nervi saldi per evitar di prenderli a morsi sulle caviglie. Quasi quasi
rimpiangeva i bei vecchi tempi di Hogwarts.
***
«Doveva essere qui fuori da un bel pezzo, se ha avuto il tempo di imparare… quella parola» osservò divertito Remus, guardando il sangue colare dal dito.
Aveva appena capito di avere qualche difficoltà d'approccio.
«Il che dimostra che questi animali non sono particolarmente svegli!» borbottò Dora, agitando la bacchetta.
«Io non credo, mamma. Ha capito che non ti piace e ha voluto
prenderti in giro!» ridacchiò Teddy, che aveva già
preso in simpatia il nuovo venuto.
Dentro un armadio, temporaneamente Trasfigurato
in voliera, se ne stava appollaiata la causa di tutto quel trambusto:
un pappagallo. L’avevano trovato rannicchiato sul davanzale della
cucina, che sbirciava curioso all’interno. Catturarlo era stato
semplice: Teddy aveva allungato una mano e questi vi era planato sopra
senza aspettare un secondo invito. La familiarità con cui si
avvicinava alle persone lasciava intendere fosse abituato alla presenza
degli umani, ma l’aspetto malconcio tradiva un lungo viaggio dove
era facile immaginare si fossero perse le tracce del padrone.
«Ecco qui, guardate. È un cacatua» disse il bambino,
mostrando un atlante babbano degli animali che aveva ricevuto dai
compagni di scuola per il suo compleanno. «Qui dice che
“sono originari dell'Australia, Indonesia, Nuova Guinea e
Filippine. Sono facilmente riconoscibili dal caratteristico ciuffo
erettile, solitamente hanno colorazioni tra il bianco e il nero e un
grosso becco adunco. Si possono classificare in cinque specie... in
base alla quale varia la taglia. Hanno ali lunghe e arrotondate, coda
corta a spatola. Sono bravi parlatori e imparano presto. Amano giocare
ed essere coccolati, ma essendo tra i pappagalli più rumorosi
non sempre le loro grida sono bene accette”. Forte!»
concluse, sfoderando un gran sorriso verso l’animale.
Sulla pagina campeggiava quello che sembrava il ritratto del recluso:
piumaggio bianco, crestina gialla, macchie rosee sotto le ali, becco e
zampe grigie. Solo che quello nella foto rimaneva in rispettoso
silenzio di fronte all’osservatore mentre quello nel soggiorno
stava sciorinando un campionario di vocaboli e versacci piuttosto
consistente. Sapeva persino declamare un paio di incantesimi domestici.
«Sicuramente è cacasua…
brutto sporcaccione!» rimbrottò la donna, fissando
schifata la poltiglietta appena caduta sul fondo della gabbia.
«Nessuno t’ha insegnato l’educazione? Và a
pulire subito quello che hai fatto!» chiese battendo la mano
contro le sbarre.
«Così lo fai agitare, Dora»
«Kkwwaaa! Ninfadora! Ninfadora!» attaccò a berciare il pennuto, sollevando con orgoglio il ciuffo sul capo.
«Fatelo uscire che lo faccio allo spiedo!» urlò,
avventandosi contro la voliera, decisa più che mai a fare a
pezzi quel coso insultante.
Il pappagallo abbandonò in fretta il posatoio, rifugiandosi in basso e gracchiando a più non posso.
«Mamma, non fare così! Lo spaventi!» fece Teddy afferrandola e trascinandola sul divano insieme al padre.
Ed in effetti, il poveretto sembrava essere diventato la metà,
tutto sbilenco e con le penne rattrappite addosso. Gli occhi erano
diventati così grossi che quasi non si vedeva più il
becco.
«Teddy ha ragione, aspetta almeno un paio di mesi» tentò di calmarla il marito.
«E perché dovrei? Quello mi offende adesso!»
Fu solo grazie all’agilità di mannaro che riuscì a
levarle la bacchetta di mano prima che scagliasse un qualsiasi
incantesimo.
«Beh, non vedi come è denutrito? Se lo mangiassimo ora,
specie con una delle tue superbe ricette flambé, ci resterebbero
giusto le ossa come stuzzicadenti» sghignazzò digrignando
i denti.
«Papà!» finse di piagnucolare Teddy, che aveva intuito il gioco del genitore.
Se volevano convincere la mamma che il pappagallo non rappresentava un
attentato alla sua sanità mentale, dovevano necessariamente
buttarla sul ridere. Dora non pareva intenzionata ad accettare
l’intruso, aveva l’aria di una che meditasse atroci
vendette, ma la chioma morbida e rosa di Teddy che sfregava contro la
sua e il braccio di Remus intorno alle spalle scacciarono un po’
alla volta le immagini di pollastri ben arrostiti e teglie dal
contenuto croccante e contornate di patate al forno.
Dopo qualche minuto, il bambino balzò in piedi e s’infilò la giacchetta.
«Dove stai andando, tu?»
«A prendergli da mangiare» spiegò, sventolando una
banconota babbana. «Mica lo possiamo tenere qui e farlo morire di
fame!»
«Una fetta di bacon non va bene? Per avvolgercelo…»
suggerì lei, mimando l’atto di fare un involtino con la
propria mano.
«No. Granaglie e frutta, o le miscele apposta che ci sono in
negozio. Lo dice il libro» ribatté con tono saputo.
«Stupidissimi libri» sbuffò Tonks sottovoce, guardando il figlio trottare nell’ingresso.
«Ci vediamo dopo! Ciao, Ciancia! Vado a prenderti la cena!»
Il pappagallo rispose al saluto con un sonoro trillo da citofono, continuando a mantenere la posizione di difesa sulla sabbia.
La porta si chiuse con un tonfo e per qualche istante regnò il
silenzio in casa dei Lupin. Il neobattezzato Ciancia allungò la
testolina bianca oltre il fondo, sollevando appena la cresta mentre
scrutava la coppia seduta poco lontano. Finalmente Dora aveva
recuperato per intero il suo aspetto normale.
«Ha deciso, eh?» sbottò.
«Pensavi l’avrebbe portato al negozio di animali in centro?»
«No, ma giuro che l’avrei preferito là»
Remus le posò un bacio d’incoraggiamento sulla tempia.
«Dici che potrebbero ammetterlo a Hogwarts con Teddy, a
settembre? Non credo di poter sopravvivere sette anni con questo affare
in casa e col becco libero» chiese lei, pensierosa.
L’idea di vedere tanti becchi girarsi nella guferia
all’ingresso di quello spolverino bianco le faceva venire dare
ridere. Cosa avrebbero pensato quei nobilissimi rapaci notturni a veder
usurpato uno dei loro posatoi da quell’affarino rumoroso?
Chissà perché le venivano in mente le facce dei
Malfoy…
«A dirti la verità, credo che a non sopravvivere sarebbe lui»
Ottenne un’occhiataccia per quel vago accenno alle sue scarse
doti di bird-sitter, che però svanì in un attimo.
«Insomma, sono condannata?» sospirò, lasciando cadere indietro la testa.
«A quanto pare, siamo condannati entrambi»
puntualizzò imitandola quando il pappagallo attaccò ad
imitare una serie di ululati. «Ciancia. Nome appropriato per uno
che chiacchiera in continuazione e a sproposito» convenne
l’uomo.
«Io lo avrei chiamato Sevvie. Hanno tutti e due la stessa disgustosa abitudine»
E riecco uno dei temi di conversazione preferiti tra loro. Remus sollevò il capo, rimproverandola con lo sguardo.
«Al di là del fatto che è bianco e Severus amava il nero, come ben ricordi, credo…»
«Dai, Rem. Sta bene anche se è femmina, no?» istigò.
Questa volta l’occhiataccia arrivò a lei.
«Ti prego… lascia in pace la buon’anima di Severus»
«Kkwwaaa! Ninfadora! Ninfadora!» ricominciò Ciancia, sbattendo le ali.
«Lo vedi? Lo nomini e coso lì fa le stesse cose. Quando Teddy torna glielo dico»
«Non accetterà mai»
«E va bene. Allora chiariremo qualche punto» disse alzandosi.
Si piazzò davanti al marito, sfoggiando un’espressione di seriosa irremovibilità.
«Primo: la gabbia la pulisce Teddy e quando non c’è lo farai tu»
Il licantropo tentò di replicare, ma la donna proseguì imperterrita.
«Secondo: gli insegnerete a non dire quella
parola. Non mi interessa come, ma lo farete! Fosse anche trasformandolo
in un pesce rosso o in una mattonella! Deve dimenticarsela. Non
è ammesso l’Oblivion, perché potrebbe impararla di nuovo»
Detto ciò si volse, mani sui fianchi e girò un paio di volte attorno alla gabbi, lentamente.
«E tu, stai bene attento a quel che ti viene in mente di
ripetere» avvertì, puntando il dito e avvicinandosi
pericolosamente al pappagallo.
L’animale si acquattò nell’angolo, facendosi piccolo
sul fondo. Un paio di orecchie triangolari e pelose spuntarono sulla
testa di Tonks mentre cominciava a cantare con aria e zanne
minacciose:
«Il pennuto me lo succhio, se straparla sono guai! Aaauuu!»*
* Per chi non l’avesse indovinata, è la mia parodia della
parodia di Twilight fatta dai Gem Boy sulle note di “She
Wolf” di Shakira.
Dedicata a fri rapace ed ai suoi... pennuti fuggitivi!
|