Black On Black.
Capitolo Uno.
Silenzio. Ecco l’unico rumore che rimbomba nella mia piccola
camera in un minuscolo appartamento fuori Los Angeles. Fuori ogni suono era lontano dal mio piccolo
rifugio. Mi assopii di nuovo.
Mia madre entrò con una strana allegria in camera. “Alzati
o farai tardi, non vorrai essere in ritardo il primo giorno” trillò nel mio orecchio destro.
Primo giorno. Odiato,
temuto e non aspettato primo giorno.
Solo due settimane fa andavo in una cazzo di scuola italiana. Niente armadietti,
tutti conoscevano ogni tuo movimento, ogni tuo minimo spostamento. Mi ero quasi
abituata agli sguardi glaciali di tutti. A non avere troppi amici attorno, ed
essere fissata. I primi giorni avevo creduto che l’Italia sarebbe stata un
ottimo inizio per me e mia madre. Invece no. Dopo un paio di giorni, dopo solo
due giorni ero già “Passata di moda”. Non sarei mai entrata in quel gruppo
ristretto di ragazzi con la puzza sotto il naso. Non che mi dispiaccia.
Mi alzo a fatica dal mio caldo e protettivo letto. sono
le sette e venti. Tra quaranta minuti passa il Bus. Quei bus gialli, tanto
americani. Solo qualche strano Dio sa quanto mi siano mancati.
Apro il primo scatolone che urto, non ho ancora disfatto
niente, voglio aspettare il momento giusto. Chissà quando arriverà. Disfare gli
scatoloni è un po’ come rompere quel legame con una vita passata. E in un certo
senso ancora non sono del tutto pronta. Non capisco, in fondo l’Italia non mi
ha amata, io non ho amato particolarmente lei. ma chissà. Forse un giorno
capirò.
Afferro il mio amato paio di jeans stracciati e neri, mia
madre mi ripete sempre che sembro una sfollata con quei jeans. Vabbè. Infilo sopra una maglia nera e bianca piuttosto
attillata, una felpa col pelo (rigorosamente sintetico) e la mia numerosa
collezione di catene, bracciali estremamente rumorosi e pungenti, e anelli. Non
fraintendete. Nessuno ora deve fraintendere. Non mi etichetto in nessun modo. Non
sono né Metaller, Emo, o
Punk. Non sono niente, non ho etichette, non mi piace essere mescolata alla
massa. Sono me stessa. Sono Britt. Sono solo Britt. Mi guardo un attimo allo specchio, stranamente
soddisfatta di ciò che vedo. Non ho un brutto fisico. Sono ben proporzionata in
effetti. Solo un attento osservatore riesce a notare che i miei capelli neri
sono tinti, non c’è segno di ricrescita bionda. Il nero ha preso il sopravvento
finalmente. Una leggera riga di matita. Questo
è il mio trucco. Butto nella mia tracolla un paio di quadernoni,
l’orario, la piantina della scuola e un paio di penne. I libri li devo ritirare
in segreteria. Uscendo di casa afferro un biscotto e lo sgranocchio strada
facendo.
Non sono preoccupata delle occhiate, perché so già che
non ci saranno. La mia scuola è grande, praticamente mezza Los Angeles è
concentrata lì. Quindi posso essere tranquillamente invisibile, come sempre.
Una macchia gialla appare alla fine della strada, il
conducente mi saluta con un gesto brusco della mano. Salgo e cerco un posto a
sedere. È ancora tutto mezzo vuoto, il giro è ancora incominciato.
Mi siedo verso il fondo. Mi infilo le cuffiette dell’Ipod nelle orecchie e mi metto a battere il tempo con il
piede. Chiudo gli occhi e, sempre battendo il piede, appoggio la testa al
freddo finestrino. Il pullman si ferma. Salgono un paio di ragazze, più piccole
di me, devono avere quindici anni o giù di lì.
Mi giro e vedo due occhi color nocciola e dai tratti
asiatici che mi fissano. Sono due occhi parecchio scocciati. “Scusa?Ehi?Scusa?”
mi dice quasi urlando. “MMH?” rispondo il non capendo. Mi mima di togliere le
cuffiette. Le levo dalle orecchie. “Signorina potresti gentilmente smettere di
fare tutto ‘sto frastuono con il tuo piede? C’è gente che si è appena svegliata
e vorrebbe riposare. Grazie” scocciato se ne torna a sedere davanti a me,
dandomi le spalle. I ciuffi biondi e neri gli escono scomposti dal cappuccio. Smetto
di battere il tempo, anche se mi è molto difficile. “Spero di trovare presto
gli scatoloni con la Batteria e la Chitarra” penso.
Il bus si ferma. Scendo con la massa di studenti. Quel ragazzo
dai tratti asiatici è sparito tra la folla. Non ci do peso ormai.
Mi faccio strada nel cortile affollato. Tutto va come
previsto. Nessuno mi nota. Perfetto. Riesco ad essere invisibile. Solo un
ragazzo alto dai capelli corvini mi indica sorridendo a un suo amico. Hanno tutti
e due una frangia spropositata e gli occhi scuri. Mi allontano velocemente, non
vorrei si avvicinassero. Per oggi niente socializzazione. Non la reggerei già.
Cerco di orientarmi sulla mini piantina che è stata data
a mia madre. Imbocco due corridoi sbagliati prima di trovare la segreteria. Arrancando
tra la folla di persone mi avventuro in quel largo corridoio. Un paio di volte
i miei piedi sono pestati senza pietà, due gomitate e una ginocchiata. Direi che
non c’è male come primo giorno.
La porta gialla della segreteria incombe su di me. La
scritta in rosso tiranneggia sopra il piccolo vetro. Da dentro sento una donna
che parla concitatamente, sembra arrabbiata. “Forse torno dopo” penso. Nel momento
in cui sto per aprire la porta questa si spalanca. Ne esce fuori il ragazzo dai
capelli biondi e neri, piuttosto arrabbiato. In malo modo mi spinge via mentre
passa dicendo una serie incomprensibile di parole. Riesco solo a sentire un “Va al diavolo”. Da dentro la donna
dietro al bancone urla “Guai a te se presenti un altro permesso falsificato signor
Money!”. Dopo questo nota anche me. “Ciao cara, entra. Scommetto che sei nuova.
Vieni qui va. E non fare come quello là. Mi raccomando” detto questo mi invita
ad entrare. La porta si chiude alle mie spalle. Seduta su quella sedia riesco
ancora a vedere quell’ammasso di capelli biondi sparire nella folla.