Note: 2°Classificata al contest indetto dall' eBook forum. "Contest Letterario, Multifandom e Originali"
Non illudetevi. Non disperate.
Attenzione: qualora siate affetti da una grave forma di serietà cronica, romanticheria acuta per le storie con impacciate carine amate da tutti, beh forse è il caso che non proseguiate la lettura.
Salve, mi chiamo Sophia. Mia madre deve aver sofferto molto durante il parto per aver desiderato fin da subito di rovinarmi la vita. In realtà, con i geni che si ritrova, già solo mettermi al mondo è stato un palese atto di pura follia. Tutto questo sproloquio per dire che la goffaggine cronica di cui soffro non è come la dipingono in tutti i romanzetti rosa che si vendono per incrementare l’autostima della gente. Un corno.
Se sei goffa, come me, non troverai il principe azzurro che ti salverà da questa, nessuno ti troverà tenera, carina o buffa, ma solo terribilmente ridicola. A onor del vero, possiamo dare torto a quelle persone che ridono di ogni caduta, di ogni scivolata o di ogni ennesima figuraccia che riusciamo a compiere? Insomma riuscite davvero a biasimarli? Se ci riuscite, siete bravi e, se ce la farete ancora dopo quello che sto per raccontarvi allora le cose sono due: o siete sbadati quanto me o siete compassionevoli come pochi al modo. In entrambi i casi, fossi in voi, mi preoccuperei. Sono certa, però, che alla fine converrete con me in merito.
Un giorno, per esempio, la mia sveglia aveva deciso di prendersi le ferie e, inutile dirlo, mia madre non si era accorta dell’ora. A detta sua, in realtà, non si era proprio accorta che non ero scesa a fare colazione, come, invece, sono solita fare ogni sabato mattina. Così, quando la nebbia aveva cominciato a diradarsi nel labirinto della mia mente, il mio cervello aveva registrato, con disappunto e un vago senso di orrore, il significato del segnale luminoso da parte dell’orologio elettronico sopra al comodino. Prima che l’anzidetto encefalo cominciasse a formulare un pensiero coerente a riguardo, la parte più irrazionale della mia persona aveva cominciato a sparare petardi di pensieri confusi, a mitraglietta. Il caos. Mentre questi petardi lottavano per fare più rumore di quello precedente o di quello che arrivava con lui, il tempo passava e il mio sguardo rimaneva fisso e assente su quella brutta notizia delle otto meno venti. Mi ero alzata dal letto lentamente, con calma irreale come convinta che la scuola aspettasse me prima di chiudere i cancelli.
Una frazione di secondo dopo urlavo come una forsennata precipitandomi giù per le scale in tuffo, più che di corsa. Mia madre mi aveva fissata da dietro la sua tazza di tè con la sua solita aria assente, come se fosse appena scesa dalle nuvole. Avevo esordito allora: «Devo prendere la moto.» Le sue sopracciglia si erano corrucciate verso l’alto. Dopo un po’, mentre io sbuffavo che era tardi, aveva risposto che fuori pioveva. Naturalmente tutto ciò mentre io mettevo a lavare il mio bicchiere. Devo dirvi io che il bicchiere s’infranse a terra creando una quantità di schegge di vetro per lo shock? Il lago in questione è ancora lì, a mamma piace, a sua detta assomiglia a un laghetto. Traete le vostre conclusioni signore e signori.
Mentre cercavo furiosamente un ombrello per uscire mi ero dovuta rassegnare al fatto che mia madre doveva smetterla di tentare nel campo dell’arte contemporanea e lasciar vivere quei simpatici aggeggi almeno una settimana. Preso un k-way e salita sulla moto, stipulai una muta tregua con la mia incapacità di viaggiare sulla strada senza finire a rotolare sull’asfalto.
Arrivata a scuola appena in tempo, mi ero seduta al mio posto e avevo tirato fuori libro e quaderno. La lezione era tremendamente noiosa e la matita scorreva lenta e svogliata sul quaderno e così passava anche il tempo. La campanella aveva salvato tutta la classe da un sonno profondo, me compresa. Colta di sorpresa, però, ero scattata in piedi e rovinata a terra spezzando la matita all’impatto con il pavimento, dopo essere caduta dalla sedia, scivolata indietro per via del salto. I pochi ragazzi che non erano ancora usciti avevano cominciato a ridere senza ritegno mentre la mia faccia assumeva una tinta violacea, non per l’imbarazzo, ma per la rabbia. Tant’ero frustrata che avevo detto a questi di andare a nascondere la faccia da topi in luoghi poco battuti dal sole delle rispettive madri. Questo modo poco naturale di esprimermi non aveva fatto che peggiorare il volume delle risate.
La ragazza che si sistemava i capelli con uno specchietto aveva lasciato cadere il pettine che teneva costantemente a portata di mano e mi aveva fissata con occhi scandalizzati. La bocca era aperta in maniera poco fine e, a vedere la sua faccia nell’ amato specchio, si sarebbe messa a piangere. I ragazzi erano piegati in due, rossi in viso, si tenevano la pancia e, di tanto in tanto, ululavano. Ululavano come lupi sterilizzati e non ero riuscita a fermare la lingua mentre i miei pensieri diventavano parole. Dopo poco era arrivato il professore di disegno tecnico che aveva annunciato che, nelle due ore successive, saremmo stati impegnati nella costruzione di un plastico di classe per non so bene quale scopo. Era una materia facoltativa ma la mia eccentrica, e saccente, madre si era rifiutata di farmi esonerare dal corso. Diceva che mi avrebbe aperto la mente e sarei riuscita a comprendere le sue opere. Inutile dire che, in quattro anni di assidua presenza, non avevo ancora cavato un ragno dal buco. Verso la fine della seconda ora avevamo cominciato a riprodurre fisicamente il progetto disegnato. Per volere di terze parti non ben identificate – e con ciò possiamo pensare a dei, ad un dio solo, a interferenze aliene, al professore, ad allineamenti planetari sfavorevoli o a tutto questo insieme di cose – ero finita a regolare le grandezze degli stuzzicadenti con un taglierino rosso sangue, che non presagiva nulla di buono, stretto nella mano destra. Vuoi a causa della stanchezza o proprio per stupidità, fatto sta che la lama dello strumento che stavo utilizzando era entrata in collisione con la mia mano provocando un taglio netto e dritto che spiccava sul bianco pallido del mio indice sinistro.
Non avevo avuto nemmeno il tempo di capire realmente l’accaduto e mi ero ritrovata sul lettino dell’infermeria a fissare l’intonaco bianco che si stava scrostando. Sentendo l’indice sinistro costretto avevo notato la fasciatura che me lo avvolgeva strettamente. Tranquillamente come’ero andata, a fine mattina, ero tornata a casa. Avevo preferito occupare nuovamente il letto e riflettere sulla mia poco grazia, sulla mia goffaggine e sulle sventure che mi provocavo. Alla fine avevo concluso che era davvero meglio farsi una sonora risata e prendere la cosa con ottimismo.
Ribadisco il concetto, se hai dei disturbi psicomotori o una grazia inesistente, se sei goffa, dunque, nessun principe azzurro ti salverà con il suo cavallo bianco, dovrai salvarti da sola dal cavallo che, non vedendoti rovinare a terra, rischierà di schiacciarti. Nessuno proverà tenerezza o compatimento, ma sarà colto da una forma acuta d’ilarità. Non disperate.
Guardate me, forse, alla fine, avrò una possibilità nel cabaret se non per l’ironia, per le risate che scatenano le mie, involontarie, esibizioni.
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Note: In questa storia ho cercato l’ironia. Non la comicità vera e propria, quella che ti fa piangere dalle risate, ma quel cinismo costante e quella serie di eventi e situazioni che portano una persona a reazioni esagerate e estremizzate, quella frustrazione costante di sapere di avere qualcosa che non va opposta all’accettazione di questo “qualcosa” con una vena ironico - sarcastica evidenziata da pensieri scettici. La protagonista potrebbe sembrare una caricatura con più pregi che difetti o un soggetto con trattato superficialmente. Dunque lei mette in evidenza non solo il suo “difetto” principale, ridicolizzandolo, ma, attraverso le reazioni spero si capisca che è un tipo tutt’altro che anomalo è una normale persona. Può risultare strana a chi è uguale alle tante copie che girano, ma è una contraddizione vivente di ottimismo e pessimismo visti come le due facce della medesima medaglia descritti con un cinismo quasi comico. Le ripetizioni sono volute.
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