Zona d'ombra, zona Black di fri rapace (/viewuser.php?uid=63184)
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Zona d'ombra, zona Black
Ted
La Sala Grande era davvero uno splendore: decine di abeti illuminati da
eserciti di candeline coloravano l’aria del caldo chiarore del
fuoco; le ghirlande di pungitopo e agrifoglio parevano tanti preziosi
orecchini, appese alle pareti altissime che sfondavano il cielo.
Andromeda aveva undici anni e quello era il suo primo Natale ad Hogwarts.
Rapita dallo spettacolo che le si era aperto davanti nel percorso tra
una lezione e l’altra, non aveva degnato di uno sguardo le sue
compagne di Serpeverde che si erano staccate da lei per avviarsi verso
l’aula di Trasfigurazione. L’avevano chiamata, avvertendola
che rischiava di fare tardi, ma non aveva dato loro retta. Era una
ragazzina disciplinata e non aveva alcun bisogno che le sue compagne le
dicessero cosa fare.
Non prendeva certo ordini da delle bambine, lei!
“Mezza Foresta Proibita si è trasferita dentro al
castello,” commentò una voce pastosa alle sue spalle.
“Mica scema, col freddo che fa fuori… da inghiacciolarsi
le radici!”
Con la coda dell’occhio Andromeda vide una mano paffuta posarsi
sulla sua spalla. La fissò con malcelato disgusto: aveva un
aspetto appiccicoso, sporco.
“La parola 'inghiacciolarsi' non esiste,” disse
gelida. “E ora, puoi per favore levare la mano dalla mia
divisa?”
Un viso tondo e allegro sorse sopra la zampaccia sporca, come un piccolo sole.
Aveva già visto quel bambino, era un Tassorosso.
Uno di quelli che sua sorella più grande le aveva indicato dalla
loro tavolata durante i primi pasti passati assieme a scuola,
inquadrandolo con lo sguardo e disegnando nell’aria una ics
virtuale sulla sua faccia rotonda.
“Moccioso Mezzosangue,” aveva sputato Bella, facendo una
smorfia. “Quello non esiste proprio! Dei Tassorosso non si salva
quasi nessuno, se io fossi il preside darei fuoco a quella Casa!”
“Non basterebbe abolirla?” aveva proposto tranquillamente lei.
Sua sorella aveva sbuffato, guardandola di traverso. “Preferisco i fuochi d’artificio.”
Bella si risentiva sempre quando metteva in discussione le sue affermazioni, era fermamente convinta di avere sempre ragione.
Ma Andromeda non era meno Black di lei solo perché più
giovane, e di chinare il capo senza dire la propria non se ne parlava
proprio!
Il Tassorosso non se l’era presa per il suo tono altezzoso e,
ubbidiente, aveva tolto subito la mano, che ora stava usando a
mo’ di pettine, passandosela con le dita allargate a rastrello
nella chioma bionda.
I suoi capelli non uscirono bene dalla strapazzata. Si erano divisi in
spesse ciocche che sparavano da tutte le parti, confermando
l’impressione di Andromeda riguardo la mancanza di pulizia delle
dita di quel pasticcione.
“Io sono Ted,” si presentò, e senza lasciarle il
tempo di ribattere, aggiunse: “E tu sei Andromeda Black.”
Lei finse di non sentirlo, facendo due passi verso l’abete
più vicino sperando così di levarselo di dosso, quel
fuoco d’artificio d’un Tassorosso!
“Ehi! Ehi!” le salterellò dietro lui. “Bello il Natale, vero? Lo sai cos’è?”
“Certo. Lo sanno tutti.”
Un po’ piccata, gonfiò le guance e soffiò su una delle candeline decorative, spegnendola.
Che razza di domanda… Credeva forse di star parlando con una stupida?
“Festa di compleanno!” esclamò Ted, allargando le braccia.
Era davvero un sempliciotto.
“Forse non l’hai notato, ma questo è un abete, non una torta”, lo istruì facendo la sostenuta.
Lui abbozzò un mezzo sorriso, non privo di ironia.
“Intendevo dire che il Natale, è una festa di compleanno.
Per i Cristiani. Mia mamma è cattolica e mio papà
protestante, Natale è il compleanno del nostro Dio. Invece per i pagani è la festa della luce.”
Andromeda cercò di non far trasparire il proprio stupore,
né il presentimento di aver mal giudicato il ragazzo. Odiava
ammettere di aver sbagliato, anche se solo con se stessa.
Ted le indicò la candela spenta. “Essendo la festa della luce, quello che hai fatto non va per niente bene.”
Lei non poté fare a meno di osservare colpevole lo sbuffo di
fumo che veniva sputato dallo stoppino buio tra la danza di fiammelle.
Un pensiero doloroso la colse inaspettata: quella zona d’ombra era lei. Una Black.
Per la prima volta nella sua vita, provò dispiacere
nell’identificarsi in quel cognome che le era stato insegnato a
sfoggiare come un prezioso gioiello, che pensava la rendesse migliore
di tutti gli altri.
“Su, su,” la consolò Ted, riaccendendo la candela
piegando su di essa quella accanto. “Sistemo tutto io. Adesso
guarda nel fuoco.”
“Perché?”
“Puoi vederci il sorriso di un amico.”
Andromeda indagò a fondo nella fiammella, in quella luce presa in prestito da un fuoco d’artificio Tassorosso.
Ma era minuscola, e non riuscì a vedere riflesso al suo interno il sorriso simpatico di Ted.
“Riesci a vederlo, Andromeda?” le chiese lui, speranzoso.
Ci provò ancora, sforzò la vista fino a farsi lacrimare
gli occhi e fu un po’ come cercare dentro di sé, ma alla
fine fu costretta a scuotere il capo.
Non poteva vederlo, era nella sua zona d’ombra, la sua zona Black.
***
Ninfadora
Il Marchio Nero era apparso sopra un’altra casa. Incollato sulle
nuvole scure che rotolavano su se stesse promettendo cascate
d’acqua, sigillava il coperchio dell’ennesima bara. Questa
volta era toccato ai Campbell: una famiglia tranquilla, lui impiegato
al Ministero, lei lavorava in un negozio a Diagon Alley. Il figlio
qualche volta aveva giocato con Ninfadora, avevano la stessa età
e il giardinetto pubblico londinese dove Andromeda l’accompagnava
spesso si vedeva dalla finestra delle camere di entrambi i bambini.
Ora era il Marchio Nero a poter essere scorto dalle loro stanze.
Vivevano nello stesso quartiere, scelto come per un tacito accordo da
un buon numero di quelle famiglie di maghi che per qualche ragione
erano state costrette a nascondersi in una zona Babbana.
C’erano i Jackson, entrambi Nati Babbani. I Lupin, Mezzosangue,
con quel figlio così strano. I Bell, con la figlia
Maganò. I Green, il cui capofamiglia, giornalista, aveva osato
scrivere in un articolo, pubblicato su una rivista indipendente, tutto
quello che la Gazzetta del Profeta censurava.
I Campell, ora non c’erano più.
Andromeda si agitò sul divanetto del suo salotto, tormentandosi le mani in grembo.
Chi era stato ad ucciderli?
Sua sorella Bellatrix, che assieme al marito cacciava i Sangue Sporco
come fossero lepri, uccidendo per divertimento? O il lupo mannaro che
quel vigliacco di suo cognato, Lucius Malfoy, usava come arma,
sguinzagliandolo contro i figli piccoli di chi non si piegava al volere
suo e del suo Signore?
Ninfadora stava giocando sul tappeto davanti a lei, e Andromeda
l’abbracciò con lo sguardo, promettendole mentalmente che
l’avrebbe protetta da tutto quell’orrore, dalla
mostruosità di quella famiglia il cui sangue scorreva anche
nelle loro vene.
Lei e Ted ormai giravano sempre armati, anche per casa.
La scorsa mattina, provato dall’ennesima notte in bianco, Ted
aveva spremuto il dentifricio sulla sua bacchetta, spazzolino alla mano
puntato verso l’ingresso che controllava dalla porta aperta del
bagno, pronto a scagliare incantesimi contro chi avesse osato attaccare
la sua famiglia.
Ninfadora l’aveva colto in posizione d’attacco con la
fantasiosa bacchetta che, estasiata, gli aveva subito sottratto,
eleggendola a propria arma personale.
Ora era lì, accanto all’albero di Natale, in sella
all’unicorno a dondolo che aveva ricevuto in dono
quell’anno, lo spazzolino da denti stretto nel piccolo pugno.
Il giocattolo era, in realtà, la riproduzione in miniatura di un cavallino.
Il padre di Ted aveva segato l’estremità del manico di una
Babbanissima scopa, incollando poi lo spuntone di legno che ne aveva
ricavato sulla fronte del cavallo.
Per renderlo più magico, le aveva spiegato.
Per imitare i regali che Ninfadora mai aveva ricevuto da quei nonni materni che la volevano morta.
Andromeda osservò la figlia piegarsi con il busto sulla criniera
di lana del suo destriero, sventolando lo spazzolino da denti del
papà tra le sue orecchie di peluche.
“Mamma, mamma!” strillò eccitata, i capelli blu
dritti ai lati della testa a simulare le raffiche di vento da
velocità sostenuta.
“Guarda come volo!”
I suoi piedini, chiusi nelle calze rosa, spingevano con foga contro il tappeto senza sentirlo.
“Mamma, ci riesci a vedermi volare?”
Andromeda ripensò alla scopa giocattolo che i suoi genitori le
avevano regalato quando aveva l’età di Ninfadora. Le era
bastato sfiorare una sola volta il pavimento dell’immenso salone
dove aveva scartato il suo pacco, per poterlo osservare dall’alto
sfrecciando sopra di esso.
Quello, era volare, non il faticoso dondolio di quell’animale
pasticciato e senza più identità, la mancanza di magia
una zavorra che gli impediva di staccarsi dal suolo.
“Ma mi stai guardando volare, mamma?” insisté ancora
Ninfadora, tutta rossa per l’incessante moto delle sue gambette.
Andromeda non voleva deluderla e spremette la propria immaginazione,
cercando in sé quella magia che permetteva anche ai piccoli
Babbani di volare e fare incantesimi, in lunghi sogni ad occhi aperti.
Ma non riuscì a vedere null’altro che la realtà.
La sua zona d’ombra, la zona Black, le impediva di seguire la figlia nei suoi sogni.
***
Remus
“Che stai facendo?”
Andromeda aveva seguito il lupo mannaro fuori dalla cucina di casa
Tonks, controllando passo passo ogni suo movimento. Non si fidava di
lui.
Lo vide togliersi dalla tasca una piccola sfera di plastica un
po’ spellata. Era quella che Ninfadora aveva pescato dallo
scatolone delle decorazioni natalizie accanto all’ingresso, per
appendersela all’orecchio.
“La rimetto a posto. Dora non si è accorta che le è
scivolata via, quindi non credo le mancherà, anche se le donava
molto.”
Aprì la scatola, posando con cura la sfera in cima alla montagnola di palline e festoni cangianti.
Andromeda pensò che era la prima volta che una di quelle
decorazioni passava tra le mani di sua figlia per poi tornare intatta
al suo posto.
Remus aggrottò la fronte. “Questi addobbi non assomigliano
a quelli di Hogwarts, sono di plastica”, osservò quieto.
Andromeda sentì subito la rabbia prenderla alla gola.
“Sono un regalo dei miei suoceri”, tagliò corto.
Che si era aspettato di trovare? Se voleva ammirare le preziose
decorazioni che venivano tramandate di generazione in generazione nella
famiglia Black, avrebbe dovuto fare un salto a Villa Malfoy, dove le
sue sorelle stavano sicuramente trascorrendo assieme il Natale,
pianificando l’uccisione di Ted e Ninfadora.
“Che persone gentili, i nonni di Dora,” sorrise Remus a capo chino. “Ti devono essere molto affezionati.”
La sua non era una domanda, ma Andromeda non poté fare a meno di annuire.
I genitori di Ted non si erano limitati ad amarla, l’avevano adottata.
Era stato assieme a Julie che aveva scelto il suo vestito da sposa, le
loro lacrime di gioia avevano accolto l’arrivo di Ninfadora.
Aveva vent’anni, quando era nata, e sua figlia era stata la prima
neonata con cui avesse mai avuto direttamente a che fare. Se lei e Ted
erano sopravvissuti ai primi mesi di poppate, strilli e coliche, era
stato solo grazie a quelle due splendide persone.
“Ai miei suoceri, invece, non piaccio,” continuò
Remus, mostrando una buona dose di quella faccia tosta che era
così bravo a nascondere dietro al sorriso mite. “Hai
qualche consiglio da darmi, in merito?”
Lei gli indicò Ted, che stava impastando in cucina un dolce
natalizio non ben identificabile assieme a Ninfadora. Avevano entrambi
la farina fin nei capelli.
“Chiedi a lui”, sviò. Non aveva alcuna voglia di
mettersi a discutere con il lupo mannaro, perché lo sapeva bene
dove voleva andare a parare.
“A Ted? Ha avuto forse più successo di me, con i suoi
suoceri?” colpì basso lui, senza abbandonare l’aria
da santarellino.
Andromeda ripensò al giorno in cui si era azzardata a portare il fidanzato a casa dei suoi genitori.
Era stata un’idea di Ted, era sicuro che gli sarebbe stata
concessa una possibilità con indosso il suo mantello migliore e
i capelli biondi pettinati con cura. Una possibilità per il suo
viso tondo e simpatico.
La porta era stata aperta da un avvocato che aveva consegnato loro un pergamena.
Diseredata.
“Chiedi ai tuoi genitori”, disse, senza rispondergli e
senza notare i suoi capelli che, al contrario del solito, erano
pettinati con cura, i vestiti malconci stirati alla perfezione. Remus
stava giocando con lei, giri di parole per mostrarle come lui e Ted
fossero simili, per suggerirle che forse avrebbe potuto comportarsi in
maniera differente dai suoi genitori, essere una persona migliore.
Non gli aveva forse già detto chiaramente quanto trovasse
disgustosa l’idea che avesse sposato la sua unica figlia?
Perché insisteva nel chiederle consiglio, quando era palese che
riteneva sbagliato il trattamento subito da Ted, solo perché era
stata una persona che amava a doverne soffrire? Andromeda non era in
grado di vedere lo stesso male se compiuto da lei nei riguardi di una
persona che riteneva solo un pericolo per i suoi cari.
Due pesi e due misure, era così che ragionavano i Black.
“Non ci sono più,” sentì risponderle Remus.
“Se ne sono andati portandosi via la parte migliore di me. Quella
umana.”
“Ti hanno lasciato molto di più di quello che
immagini”, affermò con amarezza, avvertendo il peso della
sua famiglia gravarle sullo stomaco.
Era stato così per lei, la stessa cosa doveva valere per lui.
Remus le sorrise. “Guardami bene, riesci a vedere in me qualcosa di umano? Sii sincera”, la esortò.
Indagò a fondo, studiò il suo viso sciupato, i vestiti vecchi, i capelli del colore della pelliccia dei lupi.
No, non riusciva.
“Anche i miei sono morti,” espirò. “Lasciandomi la parte peggiore di me.”
Quella Black.
Remus aveva fatto in modo di sbatterle in faccia quanto fosse ancora simile a chi tanto aveva imparato a odiare.
La sua zona d’ombra, la zona Black, non era stata seppellita con loro.
***
Teddy
Teddy Lupin rappresentava tutto quello che un Black non poteva vedere:
Mezzosangue, per metà lupo mannaro, la peggiore zona d’ombra mai scesa sull’Antica Casata di Purosangue.
Teddy, con i suoi sorrisi riflessi nelle fiammelle delle candeline
sulle torte di compleanno, che volava a cavalcioni dell’unicorno
di Ninfadora, che era quel pezzo di umanità che Remus non si era
portato via con sé.
Teddy, il piccolo fuoco d’artificio della sua nonna, che era
stato in grado di illuminare quelle zone d’ombra che Andromeda
ancora covava dentro di sé.
In esse aveva trovato malattia e cura: il dolore di scoprirsi ancora
una Black, e nel suo sangue cattivo il coraggio di andare avanti
malgrado tutto. Di continuare ad amare quello che le rimaneva nel solo
modo che i Black conoscevano: in maniera assoluta.
Una ff scritta tempo fa e tenuta ferma per il contest
copio il giudizio di Vogue:
-Grammatica: 10/10
-Stile e Lessico: 10/10
-Originalità: 15/15
-IC: 13/15
-Attinenza alla citazione: 9.5/10
-Giudizio personale: 9.5/10
Totale: 67/70
Nulla da dire sulla grammatica, in quanto nella tua storia non è presente nemmeno il minimo errore. Davvero buono il lessico, in quanto sei riuscita a modularlo nelle quattro parti della storia, rendendolo sempre adatto al tipo di situazione narrata. Scorrevole lo stile, aiutato da un ottimo utilizzo della punteggiatura, che fa sì che la storia si legga tutta d’un fiato.
Sicuramente originale l’approccio di Andromeda con quelle persone che sono state la sua vera famiglia, coloro che l’hanno portata via da un cognome troppo pesante per essere sopportato a lungo. Sei riuscita ad esporre sostanzialmente lo stesso concetto in quattro modi differenti, in momenti del tutto differenti ottenendo sempre dei buoni risultati. Particolarmente innovativa rispetto alle altre è la parte dedicata a Ninfadora, in quanto è una situazione del tutto dissimile da quanto io abbia letto fin’ora.
Ti ho penalizzata nell’IC per determinati aspetti del carattere di Andromeda che non mi hanno convinta del tutto. Parto comunque dal presupposto che la caratterizzazione è ottima, in quanto sei riuscita a darle davvero spessore, tuttavia nella seconda e terza parte (ossia quando si ‘confronta’ con Ninfadora e con Remus) il suo carattere mi è parso decisamente troppo spigoloso, troppo duro rispetto a come viene delineato normalmente. È più giustificata nel momento in cui si è in mezzo ad una guerra, meno nella parte con Remus. Perfetta invece nel suo dialogo con Ted e nel suo guardare in modo ‘dolceamaro’ il nipote.
La citazione non è inserita integralmente nel suo significato, tuttavia ne hai dato un’ottima interpretazione, facendo sì che quelle ‘zone d’ombra’ si protraessero lungo tutto il percorso della vita di Andromeda, che le causassero sempre una sorta di disagio con se stesse, creando anche delle immagini particolarmente malinconiche nel momento in cui si rende conto che non le sarà mai possibile farvi del tutto luce.
Una storia sicuramente intensa, che consente l’immedesimazione del lettore nella psiche di Andromeda, nel dolore di una donna che ha lottato per ottenere una felicità che non sarà mai completa, che avrà sempre quelle ombre del passato su di sé. Davvero brava.
e il giudizio di Fabi_
Prima classificata:
Fri - Zona d'ombra, zona Black –
“Ai miei suoceri, invece, non piaccio,” continuò Remus, mostrando una buona dose di quella faccia tosta che era così bravo a nascondere dietro al sorriso mite. “Hai qualche consiglio da darmi, in merito?”
Grammatica e sintassi 10/10
Stile e lessico 10/10
Originalità 4.8/5
Caratterizzazione 15/15
Sviluppo della trama 7/7
Gradimento personale 3/3
totale: 49.8/50
Questa storia presenta un’Andromeda analizzata in molte parti della sua vita; i momenti che hai scelto di raccontare sono tutti molto personali, utili a comprendere quanto le sia sempre pesata quella zona d’ombra del suo carattere della quale non è mai riuscita a liberarsi.
Devo dire che mi è piaciuta nella sua interezza: le parti si amalgamano tra loro alla perfezione, formando nell'insieme un quadro abbastanza completo della famiglia che tu intendi rappresentare.
Sinceramente è la seconda volta che scrivo questo giudizio, perché è uno di quelli che sono andati persi nell'ammutinamento del mio pc, per questo ho un po' paura di dimenticare qualcosa, perché la tua storia, la prima volta che l'ho letta, mi ha davvero fatto effetto.
La prima parte è dolce, c’è questo Ted che non si lascia intimidire da un’Andromeda superba e altezzosa, ma che le mostra un altro modo di vivere i rapporti con i compagni di scuola; la seconda parte è tenera perché mostra la famiglia e l’amore della donna per Ninfadora e per Ted, la scena del cavallo è perfetta per spiegare cosa si intende per ‘zona d’ombra.
Tutte le scene che hai presentato mostrano un aspetto del carattere di Andromeda che lei ritiene sbagliato, come ho già detto, ma del quale non riesce a liberarsi.
La conclusione è degna del resto della storia: il nipote la costringe a liberarsi di molti pregiudizi. Non ho parole per descrivere bene la storia, muove molte sensazioni e mostra un’Andromeda forte e più complessa di quella ‘sorella buona’ che spesso si legge nelle fanfiction. L’ho apprezzata davvero. Hai approfondito il suo carattere in modo quasi perfetto, mostrando non solo lei ma anche i personaggi di contorno con attenzione, senza sfruttare banalmente i cliché o servendoti di stereotipi.
Lo stile è praticamente perfetto: non c'è una virgola fuori posto, non ho davvero niente da dire: chiaro, puntuale, sufficientemente elaborato e comunque mai pesante. Il lessico è preciso e adatto ai personaggi. La grammatica non presenta errori, non ho trovato niente su cui appendermi per correggerti.
La storia è originale proprio per questo insieme di motivi; la parte nella quale Andromeda parla con Remus è toccante, è la mia preferita. I miei complimenti quindi.
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