Prologo
Occhi-azzurri
mi guardava sorridendo. Teneva gli occhi fissi su di me senza quasi mai
sbattere le palpebre, con un sorriso rilassato a incurvargli appena le
labbra.
Lo trovai uno spettacolo strano: non mi era ancora mai capitato di
vedere
qualcuno sorridere mentre stavo in ginocchio sopra di lui con un
coltello da
cucina in mano.
Me
lo rigirai
fra le dita a pochi centimetri dalla sua faccia.
-
Forza – mi
incoraggiò – cosa aspetti?
Guardai
il
coltello. Solo per il gusto di avere ancora il suo sguardo impaziente
addosso
mi allungai fino al comodino per prendere una sigaretta, e la accesi
con gesti
irritantemente lenti. La fiammella dell’accendino si
rifletté sulla lama.
-
Come
preferisci morire? – chiesi a occhi-azzurri. – Ti
taglio la gola? O i polsi?
Oppure ti pugnalo fino a consumare il coltello e resto a guardarti
mentre ti
dissangui? – mi chinai su di lui in modo da mettere
l’orecchio vicino alle sue
labbra. – Dimmi.
Rispose
in un
sussurro: - Stupiscimi.
Rialzandomi,
gli soffiai una boccata di fumo sul viso.
-
Sono
indecisa. – dichiarai. E lo ero davvero.
Quel
suo
collo lungo e liscio, le braccia sottili tese verso la testiera del
letto, a
cui era ammanettato, il petto nudo che si alzava e abbassava al ritmo
lento del
suo respiro, tutto in lui era un invito. Ogni singola bruciatura e
livido e
cicatrice sulla sua pelle bianca sembrava una strada già
tracciata da far
seguire al coltello. Avrei potuto smembrarlo, un pezzetto minuscolo
alla volta.
Avrebbe urlato, si sarebbe dimenato? Avrei potuto incidergli gli
avambracci
fino all’osso e poi disegnargli addosso con il suo stesso
sangue. Avrebbe
pianto? Avrei potuto ucciderlo in decine di modi, e ognuno di questi mi
eccitava al solo pensiero.
Tirai
un’ultima
boccata dalla sigaretta. – Sono davvero molto indecisa.
– dissi, e gli premetti
violentemente il mozzicone sulla fronte. Chiusi gli occhi e restai ad
ascoltarlo gemere di piacere e di dolore mentre la sigaretta gli
bruciava la
pelle.
-
Uccidimi! –
mugolò.
Premetti
il
mozzicone ancora più a fondo.
Ucciderlo…sì. Dio, quanta voglia avevo di farlo.
1.
Il
giorno in
cui incontrai occhi-azzurri era iniziato come uno qualsiasi: la fottuta
sveglia
del fottuto cellulare si era divertita ad avvisarmi con il suo
scampanellino
irritante che erano le 7.30, e prima di rendermi conto di essere
sveglia ero
sotto il getto della doccia a cercare di togliermi quel rosso
incrostato sotto
le unghie. Avrei dovuto essere più attenta la prossima
volta, farlo andare via
era un casino. Alla fine, decisi che l’avrei coperto con
dello smalto.
Il
sangue
sulle dita non era l’unico ricordo che mi era rimasto di due
notti prima: nuda
davanti allo specchio mi resi conto di avere – oltre a un
notevole numero di
graffi sulle braccia – anche un livido su una coscia e uno a
livello della
clavicola. Ieri non si vedevano ma adesso erano lì, belli
rotondi e violacei.
Calcio e testata, quel bastardo era riuscito a colpirmi bene prima di
morire.
Mi riempii di fondotinta per coprirli, infilai i primi vestiti che mi
capitarono, raccolsi la borsa e uscii.
Vivevo
da un
paio d’anni in un monolocale al terzo piano di un palazzo
cadente nella periferia di Londra, e a pochi metri da lì c’era uno Starbucks,
diventato parte integrante
della mia vita: le mie mattine iniziavano sempre allo stesso modo,
cioè con un
caffè al caramello in una mano e una sigaretta
nell’altra da fumare in fretta prima
di saltare sulla metropolitana, litigare per un posto a sedere e fare
colazione
con cookies e barrette al cioccolato mentre il tube mi sballottava fino
a
Candem Town.
Ma
quel
giorno il rito venne interrotto alla seconda fase: vedendomi tirare
fuori dalla
tasca un pacchetto di Lucky Strike, un ragazzo sulla ventina o poco
più venne a
chiedermi se potevo offrirgliene una. Non avevo motivo di rifiutare.
-
Tieni.
-
Grazie. –
s’infilò la sigaretta fra le labbra e
l’avvicinò all’accendino che gli
porgevo,
e anche quando una debole voluta di fumo cominciò a levarsi
dal cilindretto
bianco che aveva in bocca restò lì fermo a pochi
centimetri dalla fiamma, a
guardarla con i grandi occhi azzurri che luccicavano. Dava
l’impressione di
essere seriamente tentato di avvicinarsi fino a scottarsi, o qualcosa
di
simile. Per quanto mi sarebbe davvero piaciuto scoprire se
l’avrebbe fatto o
no, tolsi il pollice dalla rotellina metallica prima che ne avesse il
tempo.
-
Grazie. –
ripeté uscendo da quella specie di trance e raddrizzando la
schiena.
-
Niente. –
buttai l’accendino nella borsa e me ne andai. Occhi-azzurri
rimase a fumare
appoggiato alla vetrina dello Starbucks mentre io mi avviavo alla
stazione
della metro.
Se
solo
avessi saputo che quei trenta secondi mi avrebbero rovinato la vita,
non mi
sarei comportata così. Se l’avessi saputo, avrei
gentilmente annuito al ragazzo
per poi prendere quella fottuta sigaretta, accendermela e sputargli in
faccia
tutto il fumo che la mia bocca poteva contenere, lasciandolo
lì sul marciapiede
a tossire, libero di rovinare la vita di qualcun altro.
Seduto
accanto a me sulla metro c’era il classico impiegato in
giacca e cravatta con
un quotidiano in mano. Vedendomi gettare un’occhiata
all’articolo in prima
pagina lo girò perché potessi vedere meglio.
-
Che roba! –
commentò.
-
Cos’è
successo? – chiesi interessata.
-
Ieri hanno
ripescato un cadavere dal Tamigi.
-
Suicidio?
-
Il suo
intestino annodato a un palo della luce lascia credere di no.
Sfoggiai
la
mia migliore espressione disgustata mentre lui iniziava a leggere. Lo
vidi
scuotere ripetutamente la testa e dovetti concentrarmi intensamente sul
cioccolato che stavo mangiando per trattenermi dal sussurrargli
all’orecchio
“sono stata io!”.
Mi
era già
capitato di provare questi istinti di autodistruzione, un po’
come quando sei
su un ponte e sporgendoti senti la voglia irrefrenabile di buttarti
giù. Credo
fossero dettati soprattutto dalla curiosità di sapere quale
sarebbe stata la
reazione dell’impiegato di turno: urla isteriche, telefonate
alla polizia,
oppure semplicemente non mi avrebbe creduto? Chissà.
Per
un certo
periodo – ma era stato mesi e mesi prima – avevo
anche avuto voglia di
un…ricordino, per così dire, una roba squallida
da telefilm americano tipo
cicatrici o un tatuaggi, uno per ogni vittima. Alla fine naturalmente
avevo
abbandonato entrambe le idee: le cicatrici perché sono
sicuramente una sadica,
ma non una masochista, e i tatuaggi perché per quanto
potessero piacermi, 17
sarebbero stati decisamente troppi.
Quando
l’impiegato scese lasciando il giornale sul sedile lo
raccolsi io, infilandolo
in fretta nella borsa.
La
prossima
fermata era la mia.
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