100 Stories for HIM

di DubheShadow
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 Il piede spinge sull’acceleratore, nervoso. L’auto fa un nuovo scatto in avanti, aumenta la velocità, e il motore quasi ruggisce. Ormai non è che una macchia rossa, veloce e inquietante, possente. Infiammata della stessa rabbia che drasticamente consuma… macinando leghe su leghe, scappando da non si sa cosa.

 Ancora più rapidi, ancora più lesti su questa strada vuota: energia, nient’altro che ti freme nel corpo, e che brucia ogni dolore che s’incastra fra gli inganni del cuore. Affianco, il paesaggio scorre sempre uguale, con monti rossastri che s’intravedono all’orizzonte e che paiono calici da cognac rivoltati, con le loro sfumature ramate che incantano e quasi si cullano, mobili, vorticanti e irrequiete. Erbacce e piante grasse spuntano qua e là sul terreno brullo e scarno, rosso come il sole che sopra a tutto infuoca il deserto. L’essere soli è una sensazione strana che rende padroni del mondo, padroni della propria solitudine senza confini, è il musicare inquieto dell’animo che vaga libero da catene. Un animo in fuga.

 Il limite fra terra e asfalto è labile, quasi inesistente, con i granelli sottili che sfumano nel grigio pietra, a volte spingendosi quasi fino al centro della via che, unica, s’inerpica sfacciatamente dritta nella desolazione. In fondo, compare un cielo terso e di un azzurro velato, dall’aspetto indeciso e lontano, quasi malsano. Sembra solcato da crepe giallo limone, fulmini diurni che sanno tanto di allucinazioni instabili, riflessi di uno spirito indiano. L’aria fa vibrare tutto, tramortente come onde sonore gettate dalle casse di un concerto, passionale come un nastro mosso da una ballerina. Agita i contorni come fossero sassolini durante un terremoto feroce, che s’incontrano e si staccano, e tremano impauriti, schioccando fra loro.

 La vista quasi s’offusca, coperta dagli occhiali da sole, neri e impenetrabili, che cercano di nascondere uno sguardo sconfortato e debole. Una goccia di sudore cola dall’occhio, sembra quasi una lacrima salata baciata dal sole; mentre si fa strada sulla guancia, viene spinta e schiacciata dal vento che ne frammenta il percorso.

 Non se l’asciuga. Le mani sono ancora ben strette sul volante, le dita massicce che ogni tanto si aprono e si stendono per sgranchirsi lentamente, senza però lasciare la presa salda. Forse un brivido appena le scuote, il singulto represso di un tormento ghiacciato che non vuole saperne di sciogliersi. La pelle abbronzata risalta al tocco del sole cocente, che con i suoi raggi scivola giù per il collo, insinuandosi sul petto che mostra la camicia nera e sbottonata, sensuale. Le gambe, strette in dei jeans chiari, si muovono al ritmo di una canzone veloce. Ogni tanto il segnale si blocca, si fa oscuro, la radio non prende bene. Delle interferenze lanciano melodie nuove di altre stazioni, poi tornano al solito riff di chitarra elettrica, più potente di prima, liberatorio e selvaggio. Ma la gamba continua a tenere il ritmo, costante, quasi le orecchie dell’uomo sentissero ancora il riverbero della musica ora interrotta, ora ripresa.

 Una mano si stacca dallo sterzo e si poggia sullo sportello, lasciando sporgere fuori parte della curva del gomito. Il contatto con il metallo quasi lo infiamma, ma dopo pochi secondi la sensazione sfuma, momentanea, e non resta che un senso di calore soffocante che permea il tutto. Mentre la strada corre veloce scappando per ritmi avversi, per la prima volta un sorriso compare sul volto dai tratti duri, a labbra strette, pare il ritorno trattenuto di un dolce ricordo.

 

«Ancora?» chiede.

«Sì, ancora» risponde, facendo cenno al bicchiere vuoto, di cui non si scorge che un bagliore ramato dei resti racchiusi nei cubetti di ghiaccio. Il vetro accuratamente sbozzato brilla sotto i neon fosforescenti, e i suoi bordi paiono taglienti, acuminati come il ghiaccio che, seppur prossimo a sciogliersi, conserva i suoi spuntoni aguzzi e la sua tenue e sbiadita vena azzurrina.

«Non intendevo questo. Parti ancora, eh, Sbrex?» la donna non gli versa da bere, ma si poggia sul bancone e lo osserva negli occhi. Il trucco pesante rende il suo sguardo irresistibile, ma ora è coperto da una patina di ira repressa, i tratti del viso tirati e seri. Lui preferisce soffermarsi sulla sua scollatura dell’abito, di certo meno pericolosa, e generosa nel mostrare la pelle chiara e fragile, liscia come un petalo di fiore di pesco.

«Di nuovo con quel soprannome?» un mezzo riso, nulla più, «comunque sì, parto. Ora mi riempi il bicchiere o devo andare al bar di fronte per avere un po’ di brandy?» dice, cercando d’essere ironico. I suoi occhi di un verde smeraldo sono ancora più scuri nel semibuio del locale, offuscati da mille pensieri nascosti e dalle immagini di ciò che è prossimo ad abbandonare. È tornato da poco, questo lo sa, ed è quasi certo che ritornerà anche stavolta. Quando, però, resta un mistero.

 Lei fa come le viene richiesto. Ma forse l’unica cosa che cerca, con questo gesto, è tenerlo con sé per qualche istante di più. Il pub è affollato, e nonostante le luci soffuse e a intermittenza che lo rendono un po’ più intimo, il lavoro la porta spesso ad allontanarsi da quella figura abbattuta a cui presta tanta attenzione. Il vociare colma ogni angolo, così come la musica sparata ad alto volume, ma che viene comunque attutita dalla gente che balla. Il pestare dei piedi sul pavimento scuro, il ronzio delle numerose lampadine che però non rischiarano quanto dovrebbero, il rumore assordante proveniente dalle casse, le grida. Voci di ragazze che ogni tanto lanciano urli accaniti, risate di uomini. Caos.

 Lui osserva i suoi ricci corvini allontanarsi per servire una giovane coppia, le osserva i fianchi stretti nel vestito di raso nero muoversi suadenti. Non si accorge delle occhiate lascive che anche altri le riservano, perché è certo di possederla, così come è stato per molto tempo. Forse non smetterà mai, questo sensazionale gioco di notti insonni e viaggi indorati in un’alba tardiva, il limbo in cui la tiene stretta e la inganna è un luogo da dove lei non potrà mai fuggire.

 Nonostante il suo sguardo segua ancora i suoi movimenti, ormai la mente è andata così lontano da non percepire più la presenza della donna, e la vista è solo un intrattenimento di colori e forme agitate. Si distrae così tanto che per un istante gli pare di scorgere due donne camminare allo stesso ritmo, completamente uguali, vede due sorrisi, quattro bottiglie di birre posante sul bancone. No, sui due banconi del bar… o forse ci sono anche due bar? Scuote la testa e si scioglie il codino che tratteneva i suoi capelli color sabbia e, sebbene possa sembrare solo una mossa per fare conquiste, sa che stavolta lo fa solo per schiarirsi le idee.

 Partire. Ancora.

«Per dove?» è tornata da lui, e ora deterge dei calici da cocktail frattanto che gli parla. La sua voce è la stessa di prima, sembra quasi che non avessero cessato un attimo di conversare, e anche il cipiglio è preoccupato e ansante, forse pure un po’ triste. Intanto cerca di guardarlo il più possibile, per trattenere ogni singola goccia che anche solo sappia dell’uomo che tanto la incanta.

«Non lo so. In giro» è intontito, troppo. Il liquore ramato gira nel bicchiere, fa piccoli salti e scivola fra il ghiaccio in pezzi. È così scuro da sembrare terreno arso dal sole, acqua del deserto, veleno ammaliante. «Il deserto…» mormora.

«Cos’hai detto?»

«Lascia perdere.»

 Il deserto. Caldo. Distante. Diverso da quella città così glaciale perfino in piena estate, tutta ferro e asfalto.

 Il deserto. Solitario. Semplice. Ardente e focoso come il suo animo in fiamme.





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