Il
piede spinge
sull’acceleratore, nervoso. L’auto fa un nuovo
scatto in avanti, aumenta la
velocità, e il motore quasi ruggisce. Ormai non è
che una macchia rossa, veloce
e inquietante, possente. Infiammata della stessa rabbia che
drasticamente
consuma… macinando leghe su leghe, scappando da non si sa
cosa.
Ancora
più rapidi,
ancora più lesti su questa strada vuota: energia,
nient’altro che ti freme nel
corpo, e che brucia ogni dolore che s’incastra fra gli
inganni del cuore. Affianco,
il paesaggio scorre sempre uguale, con monti rossastri che
s’intravedono
all’orizzonte e che paiono calici da cognac rivoltati, con le
loro sfumature
ramate che incantano e quasi si cullano, mobili, vorticanti e
irrequiete.
Erbacce e piante grasse spuntano qua e là sul terreno brullo
e scarno, rosso
come il sole che sopra a tutto infuoca il deserto. L’essere
soli è una
sensazione strana che rende padroni del mondo, padroni della propria
solitudine
senza confini, è il musicare inquieto dell’animo
che vaga libero da catene. Un
animo in fuga.
Il
limite fra terra e
asfalto è labile, quasi inesistente, con i granelli sottili
che sfumano nel
grigio pietra, a volte spingendosi quasi fino al centro della via che,
unica,
s’inerpica sfacciatamente dritta nella desolazione. In fondo,
compare un cielo
terso e di un azzurro velato, dall’aspetto indeciso e
lontano, quasi malsano. Sembra
solcato da crepe giallo limone, fulmini diurni che sanno tanto di
allucinazioni
instabili, riflessi di uno spirito indiano. L’aria fa vibrare
tutto, tramortente
come onde sonore gettate dalle casse di un concerto, passionale come un
nastro
mosso da una ballerina. Agita i contorni come fossero sassolini durante
un
terremoto feroce, che s’incontrano e si staccano, e tremano
impauriti,
schioccando fra loro.
La
vista quasi
s’offusca, coperta dagli occhiali da sole, neri e
impenetrabili, che cercano di
nascondere uno sguardo sconfortato e debole. Una goccia di sudore cola
dall’occhio, sembra quasi una lacrima salata baciata dal
sole; mentre si fa
strada sulla guancia, viene spinta e schiacciata dal vento che ne
frammenta il
percorso.
Non
se l’asciuga. Le
mani sono ancora ben strette sul volante, le dita massicce che ogni
tanto si
aprono e si stendono per sgranchirsi lentamente, senza però
lasciare la presa
salda. Forse un brivido appena le scuote, il singulto represso di un
tormento
ghiacciato che non vuole saperne di sciogliersi. La pelle abbronzata
risalta al
tocco del sole cocente, che con i suoi raggi scivola giù per
il collo,
insinuandosi sul petto che mostra la camicia nera e sbottonata,
sensuale. Le
gambe, strette in dei jeans chiari, si muovono al ritmo di una canzone
veloce.
Ogni tanto il segnale si blocca, si fa oscuro, la radio non prende
bene. Delle
interferenze lanciano melodie nuove di altre stazioni, poi tornano al
solito
riff di chitarra elettrica, più potente di prima,
liberatorio e selvaggio. Ma
la gamba continua a tenere il ritmo, costante, quasi le orecchie
dell’uomo
sentissero ancora il riverbero della musica ora interrotta, ora ripresa.
Una
mano si stacca dallo
sterzo e si poggia sullo sportello, lasciando sporgere fuori parte
della curva
del gomito. Il contatto con il metallo quasi lo infiamma, ma dopo pochi
secondi
la sensazione sfuma, momentanea, e non resta che un senso di calore
soffocante
che permea il tutto. Mentre la strada corre veloce scappando per ritmi
avversi,
per la prima volta un sorriso compare sul volto dai tratti duri, a
labbra
strette, pare il ritorno trattenuto di un dolce ricordo.
«Ancora?» chiede.
«Sì,
ancora» risponde, facendo cenno al bicchiere vuoto, di
cui non si scorge che un bagliore ramato dei resti racchiusi nei
cubetti di
ghiaccio. Il vetro accuratamente sbozzato brilla sotto i neon
fosforescenti, e
i suoi bordi paiono taglienti, acuminati come il ghiaccio che, seppur
prossimo
a sciogliersi, conserva i suoi spuntoni aguzzi e la sua tenue e
sbiadita vena
azzurrina.
«Non intendevo questo.
Parti ancora, eh, Sbrex?» la donna
non gli versa da bere, ma si poggia sul bancone e lo osserva negli
occhi. Il
trucco pesante rende il suo sguardo irresistibile, ma ora è
coperto da una
patina di ira repressa, i tratti del viso tirati e seri. Lui preferisce
soffermarsi sulla sua scollatura dell’abito, di certo meno
pericolosa, e
generosa nel mostrare la pelle chiara e fragile, liscia come un petalo
di fiore
di pesco.
«Di nuovo con quel
soprannome?» un mezzo riso, nulla più,
«comunque sì, parto. Ora mi riempi il bicchiere o
devo andare al bar di fronte
per avere un po’ di brandy?» dice, cercando
d’essere ironico. I suoi occhi di
un verde smeraldo sono ancora più scuri nel semibuio del
locale, offuscati da
mille pensieri nascosti e dalle immagini di ciò che
è prossimo ad abbandonare.
È tornato da poco, questo lo sa, ed è quasi certo
che ritornerà anche stavolta.
Quando, però, resta un mistero.
Lei
fa come le viene richiesto.
Ma forse l’unica cosa che cerca, con questo gesto,
è tenerlo con sé per qualche
istante di più. Il pub è affollato, e nonostante
le luci soffuse e a
intermittenza che lo rendono un po’ più intimo, il
lavoro la porta spesso ad
allontanarsi da quella figura abbattuta a cui presta tanta attenzione.
Il
vociare colma ogni angolo, così come la musica sparata ad
alto volume, ma che
viene comunque attutita dalla gente che balla. Il pestare dei piedi sul
pavimento scuro, il ronzio delle numerose lampadine che però
non rischiarano
quanto dovrebbero, il rumore assordante proveniente dalle casse, le
grida. Voci
di ragazze che ogni tanto lanciano urli accaniti, risate di uomini.
Caos.
Lui
osserva i suoi
ricci corvini allontanarsi per servire una giovane coppia, le osserva i
fianchi
stretti nel vestito di raso nero muoversi suadenti. Non si accorge
delle
occhiate lascive che anche altri le riservano, perché
è certo di possederla,
così come è stato per molto tempo. Forse non
smetterà mai, questo sensazionale
gioco di notti insonni e viaggi indorati in un’alba tardiva,
il limbo in cui la
tiene stretta e la inganna è un luogo da dove lei non
potrà mai fuggire.
Nonostante
il suo
sguardo segua ancora i suoi movimenti, ormai la mente è
andata così lontano da
non percepire più la presenza della donna, e la vista
è solo un intrattenimento
di colori e forme agitate. Si distrae così tanto che per un
istante gli pare di
scorgere due donne camminare allo stesso ritmo, completamente uguali,
vede due
sorrisi, quattro bottiglie di birre posante sul bancone. No, sui due
banconi
del bar… o forse ci sono anche due bar? Scuote la testa e si
scioglie il codino
che tratteneva i suoi capelli color sabbia e, sebbene possa sembrare
solo una
mossa per fare conquiste, sa che stavolta lo fa solo per schiarirsi le
idee.
Partire.
Ancora.
«Per dove?»
è tornata da lui, e ora deterge dei calici da
cocktail frattanto che gli parla. La sua voce è la stessa di
prima, sembra
quasi che non avessero cessato un attimo di conversare, e anche il
cipiglio è
preoccupato e ansante, forse pure un po’ triste. Intanto
cerca di guardarlo il
più possibile, per trattenere ogni singola goccia che anche
solo sappia
dell’uomo che tanto la incanta.
«Non lo so. In
giro» è intontito, troppo. Il liquore ramato
gira nel bicchiere, fa piccoli salti e scivola fra il ghiaccio in
pezzi. È così
scuro da sembrare terreno arso dal sole, acqua del deserto, veleno
ammaliante.
«Il deserto…» mormora.
«Cos’hai
detto?»
«Lascia perdere.»
Il
deserto. Caldo.
Distante. Diverso da quella città così glaciale
perfino in piena estate, tutta
ferro e asfalto.
Il
deserto.
Solitario. Semplice. Ardente e focoso come il suo animo in fiamme.
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