Credi alle fate
“Quando
nasce un bambino, la sua prima risata diventa una fata.
[…]
Ogni volta che un bambino
dice:” Non credo alle fate”, da qualche parte una fata
muore.”
(James
Matthew Barrie, Peter e Wendy)
La fata tremava,
aveva fame, era stanca e aveva appena piovuto, perciò aveva pure freddo. Era in
una specie di posto pieno di fiori, anche se a pochi passi da lei il terreno si interrompeva e cominciava un’infinita lastra di cemento.
Era sicura che
“giardino” non fosse la parola giusta, ma era la prima che le veniva in mente.
Ora al senso di
spossatezza si stava aggiungendo un sordo fischio alle orecchie, e si accorse
che oramai la sua luce non arrivava più in là di un centimetro, forse uno e
mezzo.
Era destinata a
morire.
E quando il Destino parla, le fate devono
ascoltare. Non è mica uno scemo qualunque.
Quel che era
peggio, si disse la fata tenendo a stento aperti gli
occhi, era che non vedeva bambini in giro. Senza bambini, non
poteva sperare di salvarsi; e senza la speranza, era condannata alla disperazione
della morte. Le fate sono troppo piccole per provare
due emozioni insieme, e perciò non poteva fare altro che abbandonarsi alla
tristezza.
All’improvviso sentì, più che vedere (ormai gli occhi
avevano ceduto ed erano chiusi), qualcuno che torreggiava sopra di sè. Fece uno
sforzo.
La bambina più
grande che avesse mai visto la fissava da più di un
metro e mezzo di altezza… era davvero troppo alta, nessun bambino raggiungeva
altezze così elevate senza salire su una scala, un ascensore o un aereo; semplicemente,
dopo dodici o tredici anni, i bambini sfumavano, sparivano, e al loro posto
apparivano quelle terribili ombre trasparenti
che col tempo imparavano a distruggere il mondo. E in
tredici anni non erano molti i centimetri che si potevano accumulare.
La gigantesca
bambina si chinò e la fissò da vicino.
-Tutto bene?-
disse. La fata tremò, e tremolò.
Disse: Si.
-Non ci credo.- ribatté l’umana alla fata.
Lei disse: …
Disse: Non dirlo
più. Sono queste parole che mi stanno uccidendo.
La bambina non rispose.
Prese in mano la fata (com’era soffice!) e la portò in casa.
Da parte sua, la
fata era troppo spossata per protestare; quella
piccola conversazione l’aveva prosciugata. E non
voleva certo perdere la testa per qualcosa che tra cinque minuti non avrebbe
più avuto alcun senso. Non per lei, almeno.
La bambina la posò
su un tavolo, dove almeno faceva un po’ più caldo, e tornò a chiederle se andava tutto bene. E la fata
continuò a non rispondere.
La creatura (ora la fata ne
era certa: non poteva essere una bambina!) aveva portato sul tavolo dei
libri e delle penne; e, per il piccolo essere, una ciotolina
d’acqua.
-Nel caso tu abbia sete- le spiegò. La fata la ignorò.
E così cominciò a scrivere. Sfogliava i
libri, leggeva, pensava e poi appuntava qualcosa; aggiungeva numeri su numeri e
lettere su lettere; in altre parole, faceva ciò che di solito chiamava compiti di algebra.
La fata la
osservava. Non sapeva come o perché, ma era ancora viva, e tutto questo
scrivere senza motivo apparente la incuriosiva: sapeva calcolare la profondità
del cielo e contare ogni fiore della terra, ma quelle semplici equazioni
proprio non sapeva per che verso prenderle. Bevve un
po’ e si accostò a guardare.
L’altra se ne accorse e sorrise, perché era riuscita ad avvicinarla, e
moriva dalla voglia di rivolgerle qualche domanda; ma capiva bene com’era
fatta, la fatina, e quindi la lasciò lì, luccicante di delicata curiosità, e se
ne restò a fare i compiti ancora un po’.
Se questo era morire, beh, non era così male.
Era dolce, quasi, come se la ferita stesse guarendo;
era incredibile, e se in lei ci fosse stato posto per qualcosa oltre alla
curiosità, di sicuro la fata avrebbe pensato a uno scherzo di cattivo gusto.
Comunque, continuava ad osservare, e ad avvicinarsi
al libro sul quale la ragazza scriveva; finché lei non la fece sobbalzare
dicendo:
-Sei
una fata, vero?- La stava
guardando.
L’esserino rimuginò un po’ sulla risposta; ma poiché alla fin
fine era una buona fata che non diceva le bugie, annuì.
L’altra spalancò
gli occhi, ma sorrise.
-Wow, e pensare
che non ci ho mai creduto, alle fate…-
La fata non
replicò; si sentiva quasi bene. Chiese:
Ma tu cosa sei? Sei una bambina?
-No, certo. Sono più grande, sono una ragazza.-
E che roba è?, chiese la fata. Non aveva mai sentito quella parola.
- È come dire…
come… insomma una ragazza è una ragazza! Quando i
bambini crescono, diventano ragazzi e ragazze. E poi diventano adulti, e
invecchiano, e poi..- ma la fata non la seguiva più,
si era fermata appena a qualche parola prima.
Adulti?, ripeté. Ne aveva già sentito
parlare in qualche racconto: erano quelle creature giganti e intelligentissime
che, secondo le leggende, in epoche remote avevano piegato il corso dei fiumi e
potevano modellare la pietra nelle forme che volevano.
Ma, ed era questo
il fatto!, non erano altro che storielle per folletti
ancora in fasce.
A meno che…
La fata disse: E
pensare che non ci ho mai creduto, agli adulti.
E aggiunse: Ho sempre pensato fossero solo
mostri leggendari.
La ragazza si
stupì. Ma le fece un proposta:
-Ora che ci siamo
viste, facciamo così: se io crederò a te, tu crederai a me. D’accordo?-
La fata era
piccola, e un pensiero faceva fatica a entrarle in
testa; ma una volta che ci riusciva, non ci voleva molto perché la invadesse
completamente.
Annuì.
E allora balzò in piedi, vorticando di magia
e di vita; finalmente era di nuovo se stessa, perché qualcuno credeva in lei.
Assicurò alla ragazza: Grazie! Ti farò un regalo, un giorno!
E la sua lucina
splendente che spariva oltre la finestra fu l’ultimo ricordo che la ragazza
ebbe di lei.
Passò una
settimana.
In una mattina
come tutte le altre di quel periodo, l’aria era fredda, il cielo bianco e la
luce chiara, limpida, reale. Tutto faceva pensare che si stava
avvicinando l’inverno.
La ragazza uscì di
casa avvolgendosi la sciarpa attorno al collo, diretta a scuola, e, poiché non
abitava distante, preferiva fare una passeggiata e andarci a piedi; così
attraversò in fretta la stradina poco trafficata su cui si affacciava il suo
condominio, e prese la via traversa che l’avrebbe portata in centro.
In realtà, c’era
un altro motivo per cui preferiva andare a piedi
piuttosto che farsi accompagnare. Motivo che comparve
quasi di corsa svoltando l’angolo.
Il motivo,
ovviamente, era un ragazzo.
Si conoscevano, ma
solo per via dei frequenti corsi di recupero di disegno che organizzavano
gli insegnanti; però ogni volta che lo vedeva, la ragazza non poteva fare altro
che sperare in una saluto, anche solo in un “ciao…” che le sarebbe bastato per
vivere una giornata meravigliosa.
Ed era quello cui si preparava, e non si immaginava lontanamente
cosa stava per accadere.
-Ciao- disse lui, e si fermò. Poi, come se stesse
recitando una battuta, aggiunse:
-Ehi, un attimo…
vai a scuola da sola? Se vuoi ti accompagno… ah, che stupido, io sono…-
La ragazza non
credeva alla piega che stavano prendendo gli eventi. Ma, quando rispose,
intimamente contenta, e si incamminò con lui, capì che
la fata si era davvero ricordata di ringraziarla.
E in quel momento, la fata la osservava da
sopra un albero. La ragazza sembrava felice.
Disse: Ho fatto
bene a chiedere a te. Hai fatto proprio un buon lavoro.
A queste parole,
il Destino scosse la testa e borbottò qualcosa. Certo che era un buon lavoro;
non era mica uno scemo qualunque, lui.
Hola hola hola!!! Non ho potuto resistere alla tentazione di scrivere
qualcosa sulle fate… e vari accadimenti della scorsa settimana hanno influito,
ma va beh.
Che dire? Spero che vi piaccia! Perché ci
ho faticato sopra, cosa credete??
Va
beh, chi avrà voglia di farmi felice, commenterà :)
grazie in anticipo, anche solo se leggete! Alla prossima fic,
bye!
PS:
e “battete le mani se credete alle fate…” :)