Le memorie di Odred Thuras, fabbro di Denerim di Lord Revan (/viewuser.php?uid=114226)
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Le memorie di Odred Thuras, fabbro di Denerim
Queste sono le memorie di Odred Thuras, il più grande fra i fabbri umani che mai abbia battuto il suo martello a Denerim.
Inizio subito col dire che io non sono una persona cattiva. Tutto
ciò che ho fatto è conseguenza di quanto è stato
fatto a me. Posso dire con certezza che tutto è cominciato il
giorno in cui Loras Zelior, un piccolo nobiluomo locale, mi
commissionò la forgiatura di un'armatura, che lo stolto avrebbe
voluto che fosse "la più possente mai realizzata, non importa
quanto dovrò pagare" e di una spada, la quale "più
tagliente del gelo d'inverno dovrà essere".
Detto fatto, il vecchio Odred andò a preparare la cantina per
fare spazio ai materiali ma, vedendo che di spazio non ce n'era
più, decisi di appendere due grosse mensole alla parete. Presi
un chiodo, il martello, e iniziai a picchiare. Nulla voleva saperne il
dannato chiodo di entrare, al punto da saltare a terra! Così mi
abbassai per prenderlo e, quando mi rialzai, la vidi: dalla scalfitura
che la punta del chiodo aveva prodotto sulla parete di roccia grezza
fuoriusciva una luce azzurra.
Incuriosito dallo strano fenomeno, presi il martello e iniziai a
distruggere lo strato di roccia superficiale, per vedere cosa
producesse quella strana luce e quanta ce ne fosse. Grande fu la mia
sorpresa quando vidi che tutta la parete nascondeva una gigantesca vena
di Lyrium. Fui sorpreso anche perchè nei trent'anni in cui ho
vissuto lì, mai mi ero accorto della presenza del miracoloso
materiale.
Ora, la luce del Lyrium era calda ed avvolgente, e dava sollievo
venirne inondati. Così, la cantina fece presto a diventare il
luogo in cui passavo la maggior parte del mio tempo libero. Tutto era
perfetto, assolutamnte. I problemi iniziarono quando, un giorno, uscii
dalla bottega ed alzai lo sguardo verso la statua dell'arle posizionata
al centro della piazza. La statua era lì da almeno vent'anni,
eppure mai avevo fatto caso al suo cipiglio: sembrava proprio che
avesse lo sguardo puntato verso casa mia... ignorai la cosa e sbrigai
le faccende che avevo da sbrigare ma, al mio ritorno, mi accorsi che lo
sguardo della statua non volgeva più verso casa mia, ma verso la
direzione dalla quale arrivavo.
Sicuro di avere preso un abbaglio, rincasai. La mattina seguente, mi
alzai di malavoglia. Qualcosa non era al proprio posto, una situazione
di malessere si svegliò con me e, per le braghe di Andraste, non
mi abbandonò per tutto il giorno. Quando arrivò la sera,
ed io chiusi bottega, andai in cantina, a cercare sollievo fra le
braccia del Dono della Pietra. Una volta avevo sentito dei Nani
chiamare così il Lyrium, e lo trovavo il nome che meglio gli si
addiceva.
Grande razza, i Nani. Fabbri nel sangue, proprio come me, vivono fra la
Pietra e la contemplano, e nel suo abbraccio nascono, passano la vita e
muoiono. Folli e stolti sono quelli che abbandonano le distese
sotterranee di Orzammar per venire in superficie, dove la Pietra
è solo un mero strumento in mano agli uomini!
Ma sto divagando. Per tre giorni ancora aprii la bottega e la
presidiai, ma il mio spirito da tutt'altra parte giaceva: in quelle tre
sere chiusi i battenti sempre prima, ed arrivai a non aprirli per nulla
nel quarto giorno. Vidi la folla di fronte alla mia soglia, dapprima
vicini incuriositi, poi clienti infuriati, ma non me ne curai. Avevo il
Dono, ed egli aveva me. Tutto cambiò quando mi resi conto che
non era malessere quello che mi prendeva nell'ora del risveglio, ma era
la Voce della statua dell'arle fuori da casa mia! Me ne resi conto
quando finalmente sentii le parole: "Non lasciare che gli stranieri
entrino in casa tua" e, volgendomi dalla direzione da cui sentivo
arrivare la Voce, vidi la testa della statua voltata verso di me.
"Perchè? Il mio lavoro è servirli!" le risposi. "La tua
vita è servire il Dono, e proteggerlo dai suoi nemici."
ribattè la Voce, e per il momento più non parlò,
neanche quando le chiesi chi fossero i nemici.
Quando la risposta mi apparve davanti agli occhi, capii che era sempre
stata lì: gli elfi. Essi, odiosi vermi, vivono lontano dalla
Pietra, ma ne conoscono il Dono. Lo bramano. Lo bramano tanto quanto lo
odiano, e lo odiano al punto da volerlo separare per sempre dai suoi
Figli. Non potevo permettere che i maledetti elfi distruggessero il
Dono che avevo trovato, così quella notte agii.
Presi la spada "più tagliente del gelo d'inverno" e mi
intrufolai all'interno dell'Enclave. Sapevo che la Voce mi avrebbe
protetto, e infatti nessuna guardia mi vide, tanto meno quella al
cancello, chè la Voce la teneva addormentata. Una volta
dentro l'Enclave, il puzzo di elfo mi penetrò le narici,
nauseandomi. Ma il mio spirito era forte e così, con rinnovato
vigore, mi intrufolai nelle case delle odiate creature e le uccisi
tutte, ad una ad una, infilzandole, decapitandole e facendo scempio
deli loro corpi. Quando uscii dall'Enclave, madido di sudore e sangue,
andai di fronte alla statua, il cui sguardo era posato su di me, ma la
Voce disse: "Non basta."
Non riuscivo a capire, perchè non bastava? Avevo ucciso tutti
gli elfi di Denerim, il Dono era al sicuro, cosa avrei potuto fare di
più? Scagliai la spada del nobiluomo contro la statua, il cui
naso venne staccato di netto. Proprio in quel momento capii cosa
volesse dire la Voce: un'elfa uscì dai cancelli dell'Enclave,
anch'essa zuppa di sangue, e iniziò a gridare. La protezione
della Voce era evidentemente svanita, poichè subito dopo venni
catturato.
Mentre mi portavano in cella, sentii una delle guardie dire che avevo
ucciso ventotto elfi fra uomini, donne e bambini. Sapendo che
nell'Enclave ve ne è all'incirca un centinaio, capirete
perchè la mia frustrazione si trasformò in delusione vera
e propria. Dopo qualche giorno, venne a farmi visita l'arle, e volle
rimanere da solo nella cella con me. Non disse nulla, ma mi
squadrò. Mi guardava con un occhio accusatore e disgustato che
mi fece ribollire il sangue nelle vene: lui era l'arle di Denerim! Per
proteggere la sua città aveva un esercito! Io ero solo un umile
fabbro senza potere alcuno, e per proteggere ciò che ho di
più caro al mondo ho fatto ciò che andava fatto, e questo
ci rendeva simili, a parer mio. Ma il suo sguardo continuava a
trapassarmi, schifato. Arrivai al limite, poi cedetti.
Quando le guardie entrarono, la vita aveva già lasciato il corpo
dell'arle, accompagnata dalle mie dita, le quali avevano sfondato la
sua gola, e dalla mia bocca, che aveva strappato il suo naso inzuppando
entrambi di plasma vermiglio. Le spade delle guardie mi passarono da
parte a parte, ma io non morii. Mi svegliai in questa cella, in attesa
del patibolo. Dicono che sono a Forte Drakon, e che il nuovo arle,
figlio del precedente, voglia giustiziarmi in maniera spettacolare. Che
faccia. Io sono già libero, il mio spirito giace col Dono, e non
vede l'ora di tornare ad esso. Ma queste memorie siano d'avvertimento
per chiunque abiterà questa cella dopo di me: rendi onore al
Dono, ed Egli te ne sarà grato. Proteggilo, ed Egli ti
ricompenserà.
Odred Thuras
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