Trema
il silenzio.
Una,
due volte,
s’offusca la vista. Due, tre volte, un gufo solca in volo i
sepolcri.
Una,
due volte, il
vento sussurra: una, due volte, tace di nuovo.
E
così il tempo
trascorre, sbocciando nella notte fra ciclamini viola pallido e bacche
di
corbezzolo, fresco della sua natura sfuggente e imperscrutabile. Una
luna imperlata
di brina comincia a sorger nel cielo, piena, rorida di passione, a
volte
offuscata da nuvole sfilacciate e sparse come zucchero a velo. Oltre le
nubi
che fanno comparire qualche stella fra i loro trafori, nubi divorate da
angeli
di marmo, e oltre alla luna loro madre che impera là sopra,
una candela accesa
è l’unica luce che rischiara il cimitero.
L’unica umana, contaminata, l’unica
che si riversa come petrolio sulle chiome degli alberi e ne rischiara
la
corteccia scolata di resina, così come l’oro nero
ne avrebbe oscurato i rami e
il fogliame.
È
un lucore tremulo,
insistente ma cauto e forse anche un po’ tormentato,
s’avvicina sempre più
all’inferriata che delimita il camposanto. E arriva, quasi
già preannunciato,
il clangore del cancello che s’apre, un anelito
d’accoglienza che contrasta con
Loro che cercano di respingere colei che li usurpa. Nell’aria
il profumo
leggero delle foglie gelide si fa più intenso, un sapore che
s’infila
serpentino, per poi scomparire con una scia poco più che
sospiro. E ancora, a
qualche metro di distanza, si sente la frescura di una pioggia passata
che
rende morbido il terreno coperto d’autunno.
Il
procedere della
donna ora è l’archetto di un violino, forte e
graffiante, deciso, le labbra che
mormorano parole di antichi poeti e di romantiche poesie, ad
accompagnare una
musica che pare un canone inverso. La lingua si muove a creare suoni
graffianti,
una gaelica melodia dall’incedere caustico. O sono
incantesimi? Incantesimi per
legare gli spiriti fuori dalle loro tombe, poiché stanotte
ciò è possibile,
stanotte le loro bocche sanguineranno di nuovo, e i loro piedi potranno
ancora
camminare senza chiodi a perforarne il passo, o cappi a costringerli a
un palo.
Un
sentiero tappezzato
di foglie s’inerpica per tutta la triste necropoli, ai lati
corridoi molesti
mostrano lapidi immobili e fredde. Non un goccio di vita da dedicare ai
morti,
questa è la decisione del popolo, che stanotte non ha
crisantemi da donare, né
favole da raccontare agli spiritelli nascosti fra le fronde dei
cipressi.
Dei
sospiri
increspano l’aria, sono le voci atone delle anime morte.
Vagano fra la terra
brulla del loro carcere ignaro, eterei, impalpabili. La donna li
immagina, lì,
seduti ognuno su del marmo freddo, ultima casa, ultimo terribile
ristoro. E a
un tratto li vede, sorridenti ad accarezzare – trapassare
– i fiori secchi che
li circondano. Tanti petali poggiati come una sindone, adagiati sulle
bare a
riscaldarle con teneri crepitii; privati del loro colore, terrei,
reincarnano
l’indifferenza dei visitatori saltuari. Gli spiriti osservano
la ragazza,
diffidenti, l’atmosfera tagliata da respiri gelidi. Quando
passa fra le loro
dimore, non allungano le mani per prenderla o toccarla, ma rimangono
immobili.
Ci sono donne, bambini. Non un vecchio. È il tratto di
cimitero dei morti
felici, dei morti giovani. C’è anche chi tiene in
grembo piccoli involti come
se fossero neonati in fasce, ma nelle braccia degli spettri non
c’è nessuno da
cullare, solo panni ripiegati con cura.
Lei
prosegue, i suoi
piedi che scorrono sulla ghiaia sovrastata dal fogliame putrido, che
scricchiola e struscia, si lamenta sotto i suoi passi. Le anime
scompaiono
appena lei supera le loro tombe, affastellate le une sulle altre, un
marasma
confuso. Restano solo le foto, incrinate, con i vetri infranti, a
ricordare
come tante pallide ombre i defunti, a distinguere fra loro i mucchi di
ossa. A
smistare nomi senza più identità.
Ogni singolo crocifisso sanguina
gocce vermiglie immobili in
eterno sulla stessa caviglia, il taglio nel costato solo un luogo dove
s’accumula polvere e sporcizia. Gli occhi perennemente
socchiusi, le labbra
sospiranti miracoli insinceri. Vivi, vivete!
Sembrano urlare. Non attentate al
simulacro che di voi si fa beffe, e ogni giorno spira sempre
più
all’inafferrabile Alto.
Come se fosse facile.
Una,
due volte, gli spiriti
tentano d’assicurare il richiamo: una, due volte, si fallisce
e si riprova
invano.
Lei
arriva sulla
sommità della collina, laddove le ultime tombe si confondono
con una macchia boscosa.
S’accoccola come un gatto randagio fra le braccia aperte di
una statua d’angelo
seduto, abbandonando la candela ai suoi piedi. L’angelo
piange una lacrima
sconsolata che le bagna i capelli color cannella, ma le sue mani,
aperte ad
accogliere gli sprovveduti, ghiacciate, martoriate dal muschio, non
possono
rifuggire all’abbraccio di morte che lei gli concede. Le
vesti della donna sono
nere come il carbone, nel carbone sembrano esser state intinte e poi
immerse in
una vernice vermiglia, che riga il tessuto come diluvi scagliati su un
vetro
appannato. La seta dell’ampia gonna fa da coperta alla
pietra, il petto
poggiato sul cuore di gesso dell’angelo, quasi ad affogarvi
dentro la solitudine,
cercando un rifugio nella fermezza divina. La testa giace
sull’incavo fra la
spalla e il collo, laddove la pietra è levigata e piana,
accogliente.
Un
tremolio scuote le
spalle della strega, forse un singulto trattenuto che si perde nella
pelliccia
di lupo che le fa da mantella. Il pelo, bianco ai bordi e di un grigio
argento
al centro, è liscio e morbido, fra il manto sono
imprigionate lacrime amare di
un passato nascosto. E ora anche la donna piange, una pioggia di
scintille
dorate impresse nell’acqua che ne dipinge le guance
arrossate, e ne fa concime
per cascate copiose e terribilmente silenti. Non uno scrosciare che
interrompa
la quiete, solo il tremore d’anime, e la sensazione di non
esser più soli. Né lei,
né Loro, e né colui che s’appresta a
cingerla in un nuovo fervore.
E
anche il pianto si
calma, il legame si scioglie, pian piano le mani di lei abbandonano il
collo
dell’angelo e si riposano in grembo.
Una folata di vento è la
rabbia degli spiriti che si scatena,
improvvisa. Tu, impura…
va’ via, lasciaci
in pace. È lieve, qui tutto è attutito,
forse dalle foglie d’autunno, forse
dal respiro di Dio, che dà fiato a tutti Loro. Ed
è quella folata, portata da
lontano, l’unione di tanti respiri, a spegnere la candela
della strega,
accentuata da un lento sfrigolio e dall’ultima intensa
fiammata. Il fumo si
disperde, vola in alto a ricongiungersi con le nuvole, è
un’organza che si
stende e s’avviluppa su se stessa, decretando il termine di
un gioco, di un
sapore, di un atteso ritorno.
Si
dice che chi provi
ira sappia anche amare… e la donna sa amare, di questo ne
è certa. In una
maniera scontata, in una maniera mortale, ma
è pur sempre amore, si dice, avvolgendosi un
po’ più stretta nella
pelliccia di lupo che le copre le spalle.
Tira
lentamente degli
oggetti fuori da una sacca di tela nera che porta a tracolla: polveri
colorate
costrette in ampolle dal collo sottile, una scatola di fiammiferi, del
velluto blu
notte che nasconde un cartoccio di rune. Con una indolenza studiata,
ammucchia
dei rami e accende un flebile fuoco alla base dell’angelo,
che indaga tutto
dall’alto, e approva, o forse no. La candela giace dimentica
poco più in là, supina
in terra, scruta e invidia la nuova e folgorante luce. La vampa che si
scatena
dal falò oscilla fortemente, è un guizzo
nell’oscurità che danza su note solo
sue. La strega attornia le rune intorno al piccolo rogo, in un cerchio
magico,
quindi apre le fiale, una a una, e ne riversa sopra spolverate rase del
loro mistico
contenuto.
Gesti
nati da un
egoismo dolente. La luna, il trentuno di ottobre, cala come un sipario
sul
senno del popolo, lo rende più ardito e avventato, trascina
con sé anche un po’
di speranza da spargere assieme alla sua polvere di stelle. Ed
è investita, la
donna, da questo pulviscolo nuovo, che rianima e concede
l’iniziativa di
combattere, almeno una volta, il non lieto sapore di un futuro da
trascorrere
soli. Forse qualcuno resusciterà solo per lei. Se non
sbaglierà, uno spirito
allevierà il suo sconforto, e la solitudine sarà
l’unica, stanotte, a morire.
È
un sortilegio
angosciato che nasce da un disperato affannarsi.
Una,
due volte, del
nero di morte. Due, tre volte, dell’acquasanta di vita.
Una,
due volte, un
rosso per riaccendere la passione: una, due volte, la fiamma a ritmo
sfavilla.
Un
ricordo di ghiacci
lontani, un ricordo d’albore e di vecchia sevizia. Una baita
in Siberia, in una
Russia tinteggiata di rosso, una Russia dipinta col sangue sparso fra
le nevi e
pronto a macchiarne il candore. Ogni goccia lascia un solco leggero, il
liquido
caldo ne scioglie sempre un tratto, un rivolo che si costruisce il suo
letto in
un canale incavato, simile in tutto e per tutto ai fiumi che percorrono
le
steppe d’oriente. Il gelido inverno, quasi incessante,
è come una dolcezza in
cui cullarsi ogni notte: il bianco è la luce
dell’anima, la corteccia nera
degli alberi e delle case è un graffito fatto con il
carboncino da una mano
esperta, e delinea i contorni altrimenti impercettibili di un paesaggio
da
sogno, dove orsi e volpi polari si rincorrono fra dune e calanchi in
cui si
sprofonda come in un mare di bolle. Lì
c’è una pace diversa, perenne e
ospitale, dove il sole ogni tanto riesce a perforare le nuvole cariche
di neve
e ti accarezza con un calore insolito, timido e appagante al tempo
stesso. Ma
c’è sempre qualcuno che, ovunque ci si vada a
rifugiare o a nascondere, come
pavidi esseri trasportati dal vento, è in grado di scovare
la creatura che
cerca, e interrompere qualsiasi parvenza d’armonia e
d’intesa.
Il
sapore di uno
sparo sa di morte già prima che colpisca e uccida,
è l’intento che s’incanala
nella canna di un fucile e ne putrefà le membra. Un veleno
maligno che s’infila
nel proiettile e ne infuoca il fulcro, il fumo della follia concentrata
di un
cacciatore che nomina preda. Un
singolo sparo, indirizzato troppo bene, troppo mirato, la lingua del
diavolo
scaraventata nel mondo terreno per perforare un corpo e, al contempo,
far
esplodere due cuori. Tra le fronde, la sagoma dell’assassino
scompare, solo il
suo ghigno resta impresso nell’aria. Una brezza crudele
trascina quella risata
funebre fino a una piccola baita, addormentata nella quiete del bosco,
illuminata appena dai raggi argentei di una luna piena e grande nel
cielo.
Un
lupo vi si
avvicina. Zoppica appena, uno squarcio sul petto macchia il manto di
carminio,
intriso di rose rosse che sbocciano e appassiscono, colando i loro
petali sulla
neve. Un pegno d’amore che si spegne nel crepuscolo calmo,
spirando fra l’ombra
e l’ignoto, ridiventando nell’anima
un’ultima volta umano.
Un
urlo risuona
lugubre come un ululato alla luna.
Una,
due volte, un
coltello taglia quelle carni: una, due volte, la Morte pare afferrare
la
strega.
Una
pelliccia, ecco
quello che di lui le restava, colui che aveva amato, e che segretamente
ancora
ama.
L’incantesimo
è ormai
concluso. Diversi eoni sono comparsi dal nulla, immersi nel loro fioco
bagliore
azzurrino, piccoli globi che seguono la scena da lontano come lampade
di carta
di riso ad un capodanno cinese. Sembrano quasi le onde di un oceano
tranquillo,
onde sfiorate da un sole mattutino caldo e rasserenante, onde sotto cui
si cela
il mistero di innumerevoli vite. La quiete si porta via anche
l’ultimo rancore,
l’ultima reminiscenza scompare. Quel che è stato
è stato, una strega ha il
dovere di dimenticare. Ed ecco nel mentre che alcune raffiche fanno
vibrare
l’aria, una figura prende consistenza, diventa appena
più percettibile, uno
spirito appare rispondendo all’appello della magia.
Questa
notte, sa di
essere mortale anche Lui. Questa notte, danzerà per lei,
perché per lei è
importante. Questa notte non c’è spazio per
indecisioni o questioni refrattarie.
La luna è complice e veglierà tenera su ogni
nuovo evento e su ogni nuovo
amore. Ha labbra rosse, la donna, rosse come i ribes o una rosa, rosse
come il
sangue. E i suoi occhi sono scaglie d’oro disperse in una
laguna, i capelli
cannella schiarita da vaniglia mielata e suadente. Il violino, dal
nulla,
ricomincia a suonare, solo per loro, solo per ora. E le mani dei due
finalmente
si toccano, le dita s’intrecciano come viticci, in una
disperata richiesta di
non potersi più staccare l’una
dall’altra.
La
passione è
qualcosa di strano, d’inconcepibile. Persuade, concede, e poi
ritrae il tutto,
una marea svampita che non si preoccupa per nulla delle conchiglie che
lascerà
sulla spiaggia. La passione rende deboli, perché fa credere
d’essere
invincibili, quando è solo l’unione dei corpi che
permette d’offuscare i sensi.
Ma nessuno potrebbe mai evitare di cedervi, poiché il
piacere, la dolcezza che
trascina con sé sono figlie divine di una madre
irresistibile. Venere socchiude
gli occhi e sospira, preparandosi ad un nuovo spettacolo. Le ninfe,
accalcate
sugli spalti, si scambiano un calice di vino con la dea, e bisbigliano
portandosi una mano davanti alla bocca. Il rossetto è
sbiadito, sbavato, ha
lasciato la sua impronta venata sul bicchiere. L’ubriachezza
dei senni perduti.
«Danzerò con
te» sussurra lo spirito.
«Ma stiamo già
danzando».
«Ogni notte. Promettimi che
danzerai con me ogni notte» Giura.
Fra un ricciolo che le ricade sul
viso, vicino all’orecchio sinistro, compare la preghiera.
Persuasiva e
implorante, s’infiltra nella mente di lei come un nastro
d’argento.
«Non posso». Ho già
infranto una promessa, più antica, più vera.
La delusione di Lui è
percepibile, ogni sua emozione è in verità
manifestata dalla natura, poiché da
essa egli trae forza. Assieme alla tristezza, germoglia anche un
po’ dell’ira
di prima. Com’era? Chi prova rabbia sa anche
amare… e lo spirito sa amare, di
questo ne è certo.
Danzano
ancora, in un
cerchio lento, attorno al fuoco che ora brilla d’arcobaleno.
È una danza
posseduta, infaticabile, in cui si sente permeare un incanto senza
età né
luogo, una magia che proviene da un oriente sconosciuto e che ad esso
preme di
tornare, facendosi ad ogni attimo più debole, più
stanca. Lui interrompe per
primo quel vorticare anomalo, e cerca di condurla oltre la collina,
laddove,
fra aceri giapponesi dalle foglie amaranto e betulle sottili come mani
scheletriche, s’inerpica un piccolo e stretto torrente. Lei
lo segue,
ammaliata: il suo cuore, un tempo spezzato, ha ripreso a battere come
quello
dello spirito, forte, ritemprato a nuova vita.
Arrivati
al ruscello,
si siedono l’una affianco all’altro, vicini alla
riva. Guardano il fiume,
assorti. Nell’acqua sono spuntate delle magnolie bianche, il
cui centro
risplende di giallo come se fossero tante capocchie di candele, o
lucciole che
per caso hanno deciso di posarsi tutte lì nello stesso
fatale istante.
Il
corpo della donna
comincia a venir scosso da brividi di freddo, la pelliccia di lupo le
è
scivolata dalle spalle mentre percorrevano il sentiero fra gli alberi,
rimasta
forse impigliata fra qualche ramo più audace. Abbandonata
lontano, dimenticata.
Lui l’abbraccia, in un istinto primordiale, immemore del
fatto che non ha più
calore con sé da offrire, non è che una mantella
bucata e sdrucita, incapace di
scaldarsi anche di fronte a un incendio. Ma, forse, la sua passione
è più
accesa di qualsiasi fuoco, e basterà da sola a contrastare
ogni ostacolo. Così
sospira di nuovo al vento: «Resterai con me?»
«Come
posso…».
Le
parole sono fatue
in un ardore fatto di silenzi. La risposta è dipinta fra gli
eoni che taciturni
li hanno seguiti, la stessa luna lo suggerisce col suo volto tumefatto
dagli
innamoramenti andati e smarriti. Le loro labbra quindi
s’avvicinano, impaurite,
si ritraggono per poi cercarsi ancora. Non c’è
contatto; è mai possibile che
morte e vita non possano davvero più risorgere insieme? Lo
stesso Orfeo perse
la sua Euridice.
«Baciami, finché
le mie labbra sono ancora rosse». Baciami,
finché l’alba non sorge. Un
pallido rosa, sull’est, comincia a rischiarare il mondo,
ignaro di significare,
per stavolta, una fine invece che un nuovo inizio.
Seduti
sulla riva del
peccato, dicono insieme addio alle maschere del destino.
Una,
due volte, le
loro lingue si toccano. Due, tre volte, l’anima di lei si
smarrisce.
Una,
due volte, il
fuoco dell’incantesimo ghiaccia: una, due volte, si rompe
come uno specchio,
infrangendo ogni tenue speranza.
Lontano,
si sente l’ululare
di un lupo.
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