Ho
sempre odiato camminare.
Ricordo
ancora quando mia madre mi costringeva a
partecipare a quelle odiosissime gite d’istruzione che,
naturalmente, si
svolgevano in paesini sperduti dove l’attrazione principale
era il bar
frequentato dai vecchietti malati per la briscola. Oppure quella volta
in cui,
andando in una cittadina spagnola, il mio alloggio era a 3 kilometri
dal centro
della città nel quale dovevo recarmi almeno tre o quattro
volte al giorno.
Immaginatevi che
colpo subì mia madre
quando, dopo un mese di lontananza, mi vide scendere dal pulmino con 7
kili in
meno. Dico solo che si mise le mani nei capelli, diventati bianchi
tutti in una
volta, e incominciò a chiamare mio padre che svaligiò mezzo supermercato.
Insomma,
ho sempre odiato camminare.
Eppure,
quel giorno mi ritrovavo a fare slalom tra
la gente agitata, preoccupata e forse anche in ritardo. Persone che correvano e si mischiavano
sopra il
marciapiede di una città che personalmente ho sempre amato:
Parigi.
Parigi,
come la chiamiamo noi italiani: la
città dell’amore.
Che
poi io dico: ma quale amore e amore?!?! E’ più
di cinque anni che mi ritrovo per lavoro in questa città, e
posso garantire di
aver visto tutto.
Tutto, tranne che l’amore.
Non che me ne importi più di tanto.
L’amore.
Tse..
Dicono
che senza amore non si riesca a vivere..Ma se
io vivo benissimo?!
Continuo
a camminare cercando di evitare la folla inferocita che, pur di guadagnare un centimetro in più, calpesterebbe anche un neonato. Solitamente
ogni volta che
mi ritrovo circondato da persone, ho sempre il terrore di essere
risucchiato
dai loro pensieri. Sì, insomma. Sembrano così
indaffarate a
pensare e ad ignorare ciò che li circonda,
che inizio a sudare freddo e a sentire quel nodo della cravatta
soffocarmi
sempre di più.
Aspiro
affondo venendo travolto da quel che amo più
di questa città parigina: l’odore del pane.
Talvolta Parigi mi ricorda Roma venti
anni fa.
Roma.
L’alba di Roma in motorino per me è sempre
stato IL MOMENTO. In
quell’ora mi
beavo della quiete della mia mente che non riusciva, forse affascinata
da quel
cielo che man mano si tingeva di rosa, a
produrre le solite assurde domande.
Non
sono mai stato mattiniero,ma per Roma.. Per l’alba
della capitale italiana, avrei fatto qualunque cosa. Qualunque cosa pur
di sentire
la brezza mattutina sul volto, pur di percepire la sensazione di
risveglio che
ti dava quell’immensa città.
Forse,
però, Roma mi è rimasta impressa solo per una
cosa sola.
“Cazzo!”
Non riuscì a trattenere un’imprecazione
mentale dopo che qualcosa di bollente mi stava ustionando mezza pancia.
“Pardòn!”
Una voce cristallina incrinata dal panico
ruppe tutte le mie imprecazioni mentali e il mio sguardo si
posò su una chioma
di una donna di bassa statura che con in mano un cartoncino di
caffè
schiacciato cercava di non sporcarsi più del dovuto.
Rimasi
paralizzato. Quei capelli castani portati a
caschetto. Quelle piccole mani…
Tu-tum..
Tu-tum..
Tu-tum…
E,
basta! Non siamo mica in una cerimonia africana, qua dentro! Urlai
all’interno del mio corpo.
Mi
misi a ridere di cuore guardando quel disastro di
donna davanti a me che, sentendo la mia voce, alzò lo
sguardo incatenandolo ai
miei occhi.
“Marco?”
“Oui,
madame..Che posso fare per voi?” Ok, non me la
cavavo proprio con il francese. Ma avevo pur altre qualità
linguistiche!
“Ma..Oddio,
scusa! Ti ho macchiato tutta la giacca!” Trillò
preoccupata.
Eh,
certo! Non mi vedi da una vita, e ti preoccupi della giacca! Mi sembra
logico.
“Non
ti preoccupare” Ribadii per la seconda volta.
“Ma
io..Insomma..Poi tu, oddio che casino! Magari
avevi anche un impegno di lavoro importante! Che disastro che sono! Te
la
ripago, guarda..Te la porto io in lavanderia, dammi un tuo recapito e
te la..”
“Cristine?”
“No!
Cristine, niente Marco! Guarda che guaio!”
“Ok,
se devo proprio farti sentire in colpa allora
devi sapere che mi hai ustionato anche metà busto e che, di
conseguenza, mi hai
sporcato anche la camicia nuova..” Dissi esasperato con una
punta ironica che,
però, lei , visto il suo portarsi le mani davanti alla
faccia come per
coprirsi, non percepì.
“Ehi..Tranquilla.
Sono io.” La mia voce uscì con una
tenerezza che pensavo non possedessi, mentre una mia mano si depositava
delicatamente sul suo piccolo polso per tentare di farle scoprire il
volto.
La
vidi sussultare sotto il mio tocco, mentre i suoi
grandi occhi nocciola cercarono smarriti i miei.
“Che
ne dici se ora che mi hai generosamente dato la
tua dose mattutina di caffeina, ricambio il favore offrendoti un
caffè in una
vera tazzina?”
La
vidi sorridere imbarazzata e non riuscii a non
penare che in tutti questi anni non era cambiata poi così
tanto.
“Lo
prendo come un si.” Affermai avviandomi in uno
dei bar parigini che preferivo.
“Allora,
come procede la vita? Vivi qui a Parigi?”
Chiesi curioso.
“Bene,
grazie. Si, ho un piccolo appartamento in
periferia. Subito dopo il mio trasferimento a Torino, volevo dare una piega diversa alla mia vita, ed eccomi qui. A Parigi da dodici anni. Qui ho incontrato il mio attuale
marito e
dopo cinque anni mi sono sposata .” Rispose diminuendo il
tono di voce alla
fine della sua frase e coprendosi quella fede che solamente ora avevo
notato.
“Che
fai, ti imbarazzi con me?” Sorrisi nuovamente
ricordandomi del nostro primo rapporto. Avevamo appena trascorso una
giornata
in giro per Roma, ed eravamo finiti a casa mia. Sopra il mio letto..
Marco,
hai davanti una donna sposata. Non hai più diciotto anni,
ricordatelo bene.
“Ma
no..Che dici..E’ che, insomma..Dopo quello che
accad..” Balbettò riferendosi alla nostra sto..si
insomma a quello che eravamo
in passato.
“Cristin,
eravamo giovani. Giovani e stupidi.” Le
dissi guardandola negli occhi.
Anche
se vorrei ancora essere stupido. DI nuovo, magari solamente
un’altra
volta..Solo con te.
Mi
sorrise mentre la cameriera le porgeva il suo
caffè.
“E
tu? Cosa hai fatto in tutti questi anni?” Mi
domandò, soffiando dentro quella tazzina e provocandomi un
brivido che mi
percosse tutta la schiena.
Le
sue labbra sensuali che lambivano la mia pelle, le mie labbra. Ed erano
solo
mie. Mie, solo mie.
“Mi
sono buttato nel lavoro. Sono socio di una
grande impresa pubblicitaria che lavora per molte ditte europee.. Avrai
sicuramente visto molte mie creazioni attraverso i mezzi di trasporto
parigini.”
“Uhh..Abbiamo
una star!”
“Scema..
E tu?” Sorrisi posando l’attenzione su un
interessante posacenere. Sembrava che il tempo non fosse mai passato.
Che quei
venti anni, non fossero mai passati. Eravamo noi due, seduti e
spensierati.
Quell’imbarazzo, che avrebbe dovuto caratterizzare questo
incontro, non c’era
affatto.
“Io
ho una piccola impresa familiare.Mi alzo la
mattina e preparo la colazione per tutti, poi pulisco la casa, faccio
il
bucato, preparo il pranzo, vado a prendere la mia piccola peste
all’asilo,
ritorno a casa e preparo la cena..Una donna d’affari, come
puoi constatare” Si
auto beffeggiò con il sorriso sulle labbra
“Una
peste, eh?!”
“Si.
Si chiama Peter..Un piccolo lucifero in carne
ed ossa!” Rise pensando forse alla cosa più giusta
che nella sua vita aveva
fatto.
“Quanti
anni ha?”
“Tra
pochi mesi 4”
“Sono
felice per te..” Mentii, e lei se ne accorse.
Ci guardammo nuovamente negli occhi. Infondo, pensandoci, il nostro era
sempre
stato un rapporto silenzioso. I nostri occhi valevano molto di
più di mille
parole. Raccontavano temi lunghissimi e pieni di significato. E, anche
quella
volta, lei mi capì.
“Sei
sempre stato un bravo bugiardo. Uno di quelli
che riesce ad ingannare gli altri, ma molto spesso riesce ad prendere in giro anche se
stesso. Quando stavamo insieme sono stata spesso imbrogliata dalle tue parole
che io
consideravo fredde,scostanti. Riflettendoci adesso, mi viene da ridere.
Infondo,
non c’è ghiacciolo che voglia sentirsi per una
volta caldo. So che quello che
hai detto non è vero, ma farò finta che lo
sia.” Disse con sicurezza
guardandomi negli occhi. E, per la prima volta vidi davanti a me una
donna. Per
la prima volta, in quei 20 minuti, mi resi conto che, in
realtà, lei era cambiata.
“Adesso
dovrei andare..Per quanto riguarda la giacca
e la camicia, mi dispiace immensamente. Se vuoi..”
“Non
dirlo neanche per scherzo..Lo hai detto anche
tu che sono una star.” Scherzai per vederla sorridere. Per
ammirare quelle
labbra distese solo per me, per me. Per l’ultima volta.
E,
infatti, sorrise. Il sorriso più bello che io avessi mai
visto in una donna.
Uscimmo dal
bar fermandoci su quel maledetto marciapiede che ci aveva fatto
incontrare e
che ci avrebbe fatto dividere.
Non
ti incontrerò mai più. E’ il nostro
addio.
Ci
guardammo per svariati minuti, come se non ci
importasse di nulla. Come se il pranzo che avrebbe dovuto preparare per
suo
marito e per suo figlio fosse diventato un dettaglio.
Tempo
fa eravamo una coppia..Forse neanche quella,
pensandoci. Eravamo solamente due cretini che sopra una vespa avevano
vissuto
quel loro amore. Si, eravamo proprio due teste di cazzo che litigavano
in
continuazione e che, alla fine, si erano lasciate veramente. Infondo,
forse..Non avremmo creato nulla di buono. Ma questo, chi lo sa.
La
vita è fatta di troppi se per rimanere fermi a
pensare.
“Addio,
Marco.” Le sue labbra soffiarono quelle che sarebbero state
le ultime parole
del nostro ultimo incontro.
Cazzooo.
Datemi un telecomando che fermi il tempo. Una macchinetta fotografica,
che ne
so..Una matita per poter disegnare il suo volto all’interno
della mia mente.
Dio, fa che non si scordi di me.
“Addio,
Cristine” Pronunciai vedendo il suo corpo
iniziare a percorrere una strada diversa dalla mia.
Una
suoneria riempì il vuoto che si era creato
all’interno del mio corpo. La vidi fermarsi, cercare dentro
la borsa, prendere
il cellulare e rispondere.
“ Marco..”
Pronunciò con un luccichio
negli occhi.
“Si..Sto
per tornare a casa. Tra venti minuti sono
lì, passi a prenderlo tu Peter? Si, ti preparo le lasagne.
Ma devi andare
all’università? Ah..Sisi.Mi muovo, mi muovo..Ciao
amore.”
Il
mio corpo tremò per la seconda volta.
Marco.
Marco. Marco. Marco.
La
raggiunsi posandole una mia mano sopra la spalla.
“Cristine..”
Sussurrai roco..
“Mio
figlio più grande.” Disse sorridendo
forzatamente.
“Marco?”
Chiesi con il cuore a mille.
“Si,
gli ho dato il tuo nome.” Affermò mentre vidi
una lacrima cadere dal suo volto.
E se ne
andò. Proseguì
la sua strada, lontano da
me. Nonostante questo, però, ero felice. Ero contento del
fatto che non si
sarebbe mai e poi mai dimenticata di me e di Roma: involucro del nostro
amore.
Ripresi
a camminare sul marciapiede opposto con le
mani all’interno delle tasche della giacca fischiettando
Cheek to Cheek di
Louise Amstrong . Ad
un tratto mi fermai
incominciando a ridere rendendomi conto che ero finito con una giacca
da
buttare, un cuore che aveva ripreso a battere e, naturalmente, i piedi
che mi
facevano male.
L’ho
già detto che odio camminare?
Balenotta
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