Un vuoto mi prende allo stomaco. Mi
manca l’aria.
Cado.
Precipito
mentre
venti lontani mi sferzano il viso; la schiena che
d’improvviso diventa nuda.
Più
giù, più veloci,
veli di seta ricamati d’oro, le lievi membrane rilucenti di
rugiada, l’ultimo
tocco di luce che il sole riflette mentre su me scende la sera. Le mie
ali. Non
ci sono più.
Cadute,
recise
dall’odio.
Cerco
invano di
respirare, ma è come afferrare bolle d’aria nella
turba del mare in tempesta.
L’ossigeno mi entra a lenti singhiozzi, che rendono
l’agonia ancora più
dolorosa. Incredibile che sia già giunto il mio momento.
Tocco
terra. Non
lieve, non dolce, la mia discesa nell’oblio. È un
colpo forte alla testa, il
sapore di terra bagnata che si fa strada nelle labbra semichiuse.
È il corpo che
si accascia scosso dai singulti.
Muoio.
Vedo le mie
ali a pochi passi da dove mi trovo. Lì dove un tempo erano
attaccate a me, c’è
solo sangue che ricopre la bellezza dei miei antichi voli.
Muoio.
Chiudo gli
occhi.
E
ricordo che era
ieri quando nacqui dai petali appena schiusi di uno splendido e giovane
pesco…
L’aria
è fresca
nell’immensità della novizia primavera. Una
piacevole brezza scuote i peschi,
lasciando come ricordo una pioggia di miriadi di petali rosa. Nella
tarda sera
si poggiano sull’acciottolato del viale, sulle panchine
riverniciate da poco,
sul disegno di una bambina che, sola, aspetta qualcuno.
Lei li scuote
delicatamente, li fa scivolare in terra, e libera il foglio che piano
si sta
riempiendo della sua storia. Seduta alla luce di un vecchio lampione,
lavora
incessantemente.
“Che stai
facendo?” è un altro bambino, che curioso le si
è
avvicinato di soppiatto. Non lo conosce.
“Disegno.”
Risponde lei. Il volto è concentrato, serio,
mentre con la matita traccia lunghi solchi e curve rosate.
“Cosa?” Continua
il bambino, imperterrito.
“Una fata, non vedi? La mia
fata. Sai, è nata da poco,
proprio da uno di questi fiori.” replica l’altra, e
indica il manto soffice che
ricopre il viale. La creatura di carta ha lunghi capelli dorati,
splendide ali
trasparenti. È vestita di ragnatele d’acqua e
filamenti di onde perlacee, che
si avvolgono sulla figura affusolata che danza sospesa ad ogni soffio
di vento.
“Ma le fate non
esistono!”
“Oh.” La bambina
diventa di colpo triste, la mano che
stringe la matita trema, ma si riprende. Pesca dalla cartellina blu un
nuovo
foglio, una nuova incredibile storia.
“Che stai facendo
ora?” chiede ancora il bambino.
“Guarda.” Lei gli
porge il disegno, poche linee tracciate in
fretta, che raccontano sbigottimento, dolore, promesse perdute.
Il
bambino osserva lo
schizzo, una flebile ruga sulla fronte a segno della sua
concentrazione. Gli
occhi si fanno grandi, le labbra carnose si aprono per dire qualcosa,
ma viene
interrotto.
“È la mia fata,
ma ora è morta. L’hai uccisa.”
|