CHAPTER 1
Un candido
petalo dalle sfumature rosate entra dalla finestra aperta, posandosi
delicato sul mio banco perfettamente lindo.
Lo prendo
delicatamente tra due dita, saggiandone la consistenza quasi eterea:
scivola come fosse seta.
Lo rinchiudo
nel palmo puntando lo sguardo reso ghiacciato dalle lenti
artificiali sul panorama offerto dalle imposte spalancate:
Tokyo si estende coi suoi palazzi grigi che da bambino mi ricordavano
le guglie di un antico castello medievale. Di quelli che ricoprivano le
pagine dei miei libri di favole e che credevo fossero un sogno
stupendo. Sorridevo guardandoli. Ora capisco che sono solo abitazioni e
fabbriche, nonostante un barlume di allegria riesca a trapelare dai
loro profili, grazie al caldo sole primaverile.
Oggi
è una giornata troppo bella per essere sprecata dietro a
questo pezzo di legno, ad ascoltare una vecchia raggrinzita spiegarmi
qualche assurda formula di Trigonometria che sicuramente non
capirò -dato che nemmeno mi interessa farlo.
Vorrei solo
uscire, respirare l'aria fresca e frizzante, sentire il sole scaldarmi
la schiena: e invece sono bloccato qui ancorato coi piedi per terra.
Io non voglio
stare a terra. Io voglio volare, spiegare le mie ali e librarmi in
cielo, sentendo l'aria fredda dell'alta quota lambirmi la pelle del
volto e scompigliarmi i capelli.
Chiudo gli
occhi e simulo la sensazione che proverei con l'immaginazione: favoloso.
Poi, il mio
ritaglio di perfezione viene sottratto dal suono trillante e fastidioso
della prima campanella del lunedì: il primo giorno di scuola
è forse il più frustrante, coadiuvato interamente
dalla nostalgia dei giorni di libertà e dalla consapevolezza
di avere innanzi a sè ben undici mesi di scuola.
Sospiro
immaginando la signora Fuwa entrare col suo passo baldanzoso,
ampollosamente vestita e col suo solito cipiglio poco amichevole aprire
il registro, gracchiare l'appello e incominciare con le solite
prediche, ormai di rito ad inizio anno per una classe turbolenta e poco
partecipe come la nostra.
Prendo una
penna e inizio a giocherellarci, conscio che non la userò
per tutto il giorno.
Sto appunto
rigirandomela tra le dita poco interessato, incassato nel banco, quando
sento una voce sconosciuta -e maschile- salutare amichevolmente.
"Buongiorno a
tutti"
... e questo
chi è?
E
così questo è il mio primo giorno in questo
istituto.
Non
posso fare a meno di trattenere un sorriso divertito.
Il
mio primo giorno e già mi ritrovo a fronteggiare una classe
descritta dal corpo docenti come un ritrovo di teppisti, tanto che
nessuno voleva occuparsene.
Alla
fine mi sono offerto di farlo io.
Non
mi faccio di certo spaventare da un gruppo di marmocchi.
In
fondo deve ancora nascere chi sarà in grado di sottomettermi.
Non
conosco la parola sconfitta.
Così
come non conosco la parola sottomissione.
E’
qualcosa che hanno imparato persino i miei genitori.
Nessuno
ha il controllo della mia vita.
Nel
momento in cui sono sgusciato via dal ventre di mia madre ed il mio
cordone ombelicale è stato reciso, sono diventato un uomo
libero.
Libero
di vivere la sua vita come vuole.
E
di compiere le sue scelte.
Ed
io ho scelto di cantare.
Di
far vibrare la mia voce al di sopra degli altri denunciando i mali di
questo mondo corrotto.
Se
in questo momento mi trovo a camminare nei corridoi di questo istituto,
cercando di evitare degli alunni in ritardo che corrono come una
mandria di bufali, è solo perché questa dannata
società non ha posto per i poeti.
Per
i sognatori.
Vuole
materialismo.
Fatti
concreti.
Fredda
materia senza ideali.
Chi
non segue questa regola, è tagliato fuori dalla
società e destinato alla miseria.
Prima
o poi riuscirò a realizzare il mio sogno.
E
ci sono vicino, lo sento.
In
fondo la mia è una delle voci più apprezzate nei
locali notturni.
Ogni
volta che salgo sul palco la piccola folla davanti ai miei occhi
comincia ad agitarsi e ad invocare il mio nome come un esercito di
soldati invoca il proprio condottiero trionfante.
Si,
ormai manca poco.
E’
solo questione di tempo, poi finalmente riuscirò a compiere
quel salto di qualità necessario per dedicarmi solo al canto.
Ma
in attesa che questo accada vado avanti con il mio lavoro.
Mio
padre avrebbe voluto che diventassi un medico.
Un
pezzo grosso.
Pretendeva
di manipolare la mia vita come se non fossi altro che un pezzo da gioco
su una scacchiera.
Non
lo accettavo.
Non
potevo accettarlo.
Stare
rinchiuso in uno studio non era quello che volevo dalla mia vita.
Mi
sono ribellato e sono stato cacciato di casa.
Disconosciuto.
Senza
che neanche la mia propria madre prendesse le mie difese.
Costretto
a rifugiarmi dai miei nonni per un tetto sopra la testa e a
pagarmi gli studi solo con la potenza delle mie corde vocali.
Già
gli studi.
Ho
sempre odiato studiare.
Ma
la verità è che senza un titolo di studio non si
può fare niente in questa città e dovevo
guadagnarmi da vivere.
I
soldi che le mie esibizioni mi fruttavano erano quasi insufficienti per
le spese scolastiche, tanto che per riuscire a coprirle dovevo
trascorrere intere nottate insonni nei karaoke o in localacci malfamati
che pur di attirare clienti accettavano di assumere minorenni..
Per
quanto sia un’amara e scomoda verità,
non importa quanto talento si possa avere.
Finchè
non riesce a sfondare, un vocalist non riuscirebbe nemmeno a pagarsi
l’affitto di casa. A meno che non faccia
anche un altro lavoro.
Credo
di essere la dimostrazione vivente di questo.
Se
volessi contare solo sugli introiti delle mie performance canore, non
ce la farei a sostenere i costi della pigione per il mio
appartamento e tantomeno quelli delle bollette.
Ma
non è stata solo per una futile questione di soldi che ho
scelto di fare questo mestiere.
Dicono
che i giovani sono il futuro.
La
speranza per un mondo migliore.
Tante
frasi usate solo per far leva sugli elettori da politici che in
realtà dei giovani ed i loro problemi se ne sbattono
altamente.
Ma
io invece voglio crederci.
Voglio
credere che un giorno una nuova generazione spazzerà via la
corruzione e la crudeltà del mondo.
E
fin quando il mio sogno di condannare i mali che affliggono questa
terra devastata dall’alto di un palco non
sarà realizzato, voglio essere uno di quelli che
contribuiranno alla formazione di quei ragazzi che potrebbero salvare
il futuro.
Perché
in questo stesso istante, in uno dei banchi di queste aule, potrebbero
esserci coloro che saranno in grado di abbattere i muri della
crudeltà delle persone e risanare le ferite che storpiano la
società e la faccia stessa della terra.
Ed
io ho un solo modo per aiutarli: insegnargli a pensare con la loro
testa.
A
non tollerare costrizioni, né sottomissione, né
schiavitù.
Solo
in questo modo avranno le armi per realizzare i loro sogni.
Le
stesse armi che sto usando io.
La
campanella che annuncia l’ultimatum per gli allievi di
entrare in classe trilla e mi distoglie dai miei pensieri.
Mentre
continuo a camminare il mio sguardo corre alle targhette
sulle porte delle aule, alcune già chiuse altre ancora
aperte, finquando non arrivo alla prima classe della giornata in cui
avrò lezione: la V D.
Quella
dei teppisti.
Senza
esitare ne varco la soglia passando in rassegna con lo sguardo i suoi
occupanti.
La
mia scolaresca finquando la loro insegnante non sarà dimessa
dall’ospedale.
Con
un sorriso che vuole essere il più amichevole
possibile mi avvio verso la cattedra, salutandoli.
“Buongiorno
a tutti.”
Un
brusio perplesso si leva dal fondo dell’aula fino ai primi
banchi.
Sicuramente
si stanno chiedendo che fine abbia fatto la loro insegnante.
Con
calma appoggio la cartellina e il registro che ho con me sul ripiano
della cattedra, poi mi avvio alla lavagna.
Il
familiare odore del gesso mi solletica le narici mentre afferro un
gessetto nuovo e lo spezzo, lasciandone una metà
nell’apposito contenitore metallico, accanto al
cancellino.
Con
un movimento quasi artistico procedo a tracciare il Kanji di Kyo,
occupando lo spazio intero della lavagna.
Kyo.
E’
così che mi presento a questi ragazzi.
Tooru
Nishimura è il nome che mi hanno dato quei genitori che mi
hanno voltato le spalle.
Il
nome con cui questa società cinica e materialista mi ha
schedato.
Il
nome di uomo in ceppi.
Ma
io ho spezzato le mie catene, sono libero da loro.
E
il mio vero nome adesso è Kyo.
Completata
la mia opera ripongo il pezzo di gesso ora smussato e mi volto verso i
miei allievi.
Vedremo
se sono davvero i teppisti che gli altri dicono che siano.
In
fondo anche io sono stato definito un teppista solo per essere un uomo
libero.
Nuovamente
scandaglio la classe con lo sguardo in un’altra panoramica
generale, poi passo alle presentazioni.
“Il
mio nome è Kyo. La vostra insegnante di matematica, la
Signora Fuwa, ha avuto un incidente domestico e attualmente
è ricoverata in ospedale per un braccio rotto e
l’anca lussata. Ne avrà per qualche mese, ma a
parte questo sta bene. Fino ad allora la sostituirò io. Per
andare d’accordo con me ci sono solo tre regole da
rispettare: Prestatemi attenzione quando spiego; Impegnatevi; E
soprattutto, in tutto ciò che fate dalla mattina quando
aprite gli occhi fino alla sera quando li chiudete, pensate
sempre e solo con la vostra testa.”
Un ragazzo,
che non dimostra più di 25 anni, è appena
entrato, stretto nei suoi pantaloni di simil-pelle e una giacca dello
stesso tessuto. Ha capelli biondi arruffati e sul suo volto svettano
diversi piercing. Ha uno sguardo molto austero, quasi inviolabile, come
avesse messo un lucchetto alla propria anima.
Va verso la
lavagna -lasciando la porta aperta- e inizia a scrivere un Kanji.
Mentre traccia le corpose linee col gesso precedentemente spezzato,
noto che sulle dita della mano destra ha un tatuaggio... anzi, tre. Un
tribale sull'indice e due scritte in una qualche lingua dell'est
europeo su mignolo e anulare.
Quando termina
di scrivere ripone il gesso e si fa da parte per permetterci di leggere.
Kyo.
Kyo.
Kyo!?
Sì,
Kyo!
Fa ballare i
suoi occhi castani per tutta la classe, osservandoci uno ad uno. Poi
parla e una scarica infinita di brividi mi si propaga lungo la spina
dorsale.
“Il
mio nome è Kyo. La vostra insegnante di matematica, la
Signora Fuwa, ha avuto un incidente domestico e attualmente
è ricoverata in ospedale con un braccio rotto e
l’anca lussata. Ne avrà per qualche mese, ma a
parte questo sta bene. Fino ad allora la sostituirò io. Per
andare d’accordo con me ci sono solo tre regole da
rispettare: Prestatemi attenzione quando spiego; Impegnatevi; e
soprattutto, in tutto ciò che fate dalla mattina quando
aprite gli occhi fino alla sera quando li chiudete, pensate sempre e
solo con la vostra testa.”
Dio. Non solo
ha una voce profonda e sensuale... ma pure delle idee proprie. Sento
che potrebbe iniziare a piacermi quest'assurda materia!
Non
è male, in ogni senso. Mi incuriosisce il suo comportamento,
i suoi sguardi e la sua gestualità.
Non ho mai
fissato tanto intensamente qualcuno.
E' il classico
insegnante che è per la libertà assoluta
d'espressione, suppongo: credevo esistessero solo nei telefilm.
Continuo a
giocare con la penna, e lo guardo con l'espressione più
intensa che i miei occhi abbiano mai assunto, mentre Kyo si siede alla
cattedra ed apre il piccolo registro che ha portato con sé.
Prende anche
lui una bic e la scorre lungo tutto il foglio con la scansione dei
nomi, poi inizia a fare l'appello.
Ogni lettera
scivola tra quelle labbra adorne di un cerchietto metallico con la
stessa fluidità dell'acqua e io mi ritrovo in balia delle
onde.
"Natsu Aime"
La ragazza
più corteggiata della classe alza una mano dalle unghie
laccate di rosa shocking, sbattendo le lunghe ciglia finte e muovendosi
un poco dietro al banco.
Kyo la guarda
giusto un attimo e poi si rituffa sul registro, completamente
disinteressato dai tentativi di abbordaggio di Natsu.
Credo sia un
ragazzo parecchio corteggiato: insomma, non solo ha un viso armonioso e
uno stile suo, è anche parecchio sopra le righe e in modo
non troppo appariscente. Sembra quasi si voglia rivelare a pochi e sono
determinato a raccogliere quest'assurda, ma quanto mai intrigante,
sfida.
"Matsumoto
Takanori".
Alzo con uno
scatto fulmineo il braccio.
"Io, ma mi
chiami Ruki" dico riabbassando l'arto.
Lui mette da
parte il registro, allaccia le dita sotto al mento e vi si poggia per
poi dire "Perchè, cos'ha il nome Takanori Matsumoto che non
va?" con un sorrisetto sbilenco e terribilmente strafottente.
Io arriccio un
angolo della bocca, per poi rispondergli, alzando lo sguardo dalla
penna che ancora rigiro tra le mani "... Takanori Vicino al Pino*? Oh
nulla" esalo ironico.
La classe si
lascia andare a qualche risolino.
Lui socchiude
lievemente gli occhi e poi inarca un sopracciglio cesellato,
spronandomi a parlare senza usare parole, solo gli occhi. E'
impressionante questo ragazzo.
Prendo fiato
prima di parlare.
"Takanori
Matsumoto è il nome con cui il mondo mi ha etichettato. Non
sono io. Solo delle stupide lettere datemi da due persone che non mi
conoscevano -e non è cambiato molto da allora. Il nome
migliore che una persona può possedere è quello
che si crea da sola. E il mio è Ruki."
Kyo apre gli
occhi qualche millimetro di più, fissandomi quasi
ipnotizzato. Poi sorride enigmatico e mi risponde in un modo che mi
lascia esterrefatto.
"Mi piaci,
Ruki."
“Mi
piaci, Ruki.”
Le
parole fluiscono spontanee dalle mie labbra, dirette verso il ragazzo
seduto nel banco a destra dell’ultima fila.
Dal
resto della classe si leva un sommesso brusio perplesso e la ragazza
che ha cercato di ottenere le mie attenzioni durante
l’appello mi fissa indignata.
La
mia affermazione deve aver fatto scandalo, ma la cosa infine mi
diverte.
Potranno
scervellarsi per tutto l’anno per capire cosa abbia voluto
dire con quel mi piaci, ma nessuno di loro potrà mai
arrivare alla verità con assoluta sicurezza.
Quel
Ruki mi piace.
Mi
piace il modo in cui ragiona.
Mi
piace il modo schietto in cui affronta qualcuno più grande
di lui senza sottomissione o servilismo.
Mi
piace il fatto che porti la sua divisa aperta, esattamente come facevo
io.
Mi
piace quel ciuffo fuxia che spicca tra il nero dei suoi capelli e che
lo distingue dal resto della classe.
Mi
piace il suono cristallino della sua voce.
Ma
più di ogni altra cosa, mi piace perché pensa nel
modo giusto.
Nel
mio stesso modo.
Quel
modo che mi sono ripromesso di insegnare a questi ragazzi per
rovesciare le sorti di un’umanità destinata alla
sofferenza.
Continuo
a guardarlo negli occhi, resi azzurri da qualche paio di lenti
artificiali, godendo del loro stupore.
Chissà
a cosa sta pensando questo figlio della ribellione.
Mi
piacerebbe saperlo.
Sorrido
ancora, poi termino di fare l’appello.
Tutti
presenti.
Bene,
per essere una classe indisciplinata almeno non hanno saltato il primo
giorno di scuola.
Con
calma mi alzo e vado a chiudere la porta, tornando a far risuonare la
mia voce.
Si
zittiscono all’istante.
Probabilmente
li incuriosisco.
“Sapete
una cosa ragazzi? Il vostro amico Ruki ha ragione.” Comincio
tornando verso la cattedra, saltando a sedere sul suo ripiano, prima di
proseguire “Il miglior nome per una persona è
quello che quella stessa persona compone per se stessa. Per questo
motivo, la prima lezione di oggi la passeremo in questo modo: voglio
che prendiate un foglio, uno qualsiasi, ci scriviate il nome che vi
hanno imposto alla nascita e sotto questo quello che invece voi
scegliete per voi stessi. Perché sarà con quello
che io vi chiamerò d’ora in avanti. Esattamente
come voi mi chiamerete sempre Kyo, in ogni circostanza. Persino di
fronte al Preside se dovesse capitare.”
Finalmente la
campana dell'ultima ora trilla, lasciandoci liberi.
Ripongo
celermente i libri dentro la tracolla ed esco.
Il sole mi
coglie impreparato e strizzo gli occhi. Infilo gli occhiali da sole e
procedo spedito per la via che mi condurrà a casa.
Con le mani
affondate nelle tasche, l'i-pod nelle orecchie che mi aiuta ad aprire
le porte del mondo da sogno che ho creato procedo lungo le grandi e
affollate strade di Tokyo, col sole a lambirmi il volto.
Quel prof,
Kyo, mi piace.
Molto.
Le sue idee,
il suo modo di fare schietto e diretto, la sua franchezza: tutto ha un
effetto calamitico sulla mia mente, che ammetto essere ai limiti del
ribelle.
Sembra abbia
le mie stesse idee su molti punti. Mentre la classe pensava a che nome
fosse meglio utilizzare per descriversi ha parlato un po'.
... e per la
prima volta ho visto i miei compagni pendere dalle labbra di qualcuno,
letteralmente.
E'
incredibile, ha una presenza fortissima e una personalità
complicata, di certo.
Ne sono
estremamente affascinato.
Poi anche il
fatto di usare dei nomi d'arte per chiamarci… è
così schifosamente fuori dagli schemi che potrei amarlo.
Forse sta
cercando di fare il grande, ma non mi importa: almeno ci prova.
Gli altri
insegnati -così come gli adulti nella maggior parte dei
casi- non tenta nemmeno di capire qualcosa di noi ragazzi. Restiamo
sempre e comunque dei poveri bambini ignoranti, incapaci di articolare
pensieri concreti e di avere idee nostre.
Mentre
cammino, calpesto involontariamente dei piccoli fiori rosati, dai
petali così simili a quello che si è posato sul
mio banco stamattina.
A proposito:
lo estraggo dalla tasca posteriore in cui l'avevo precedentemente
infilato e lo faccio scivolare sulla pelle della mani senza guardarlo.
E' così liscio che sembra realmente seta.
Passo per il
parco, fermandomi su una panchina. Poggio la testa sullo zaino e fisso
i rami di un ciliegio, genuflessi dal peso degli steli vergini in
boccio.
Un fascio di
luce si fa strada tra i delicati petali lievemente dischiusi, arrivando
a centrare il mio occhio destro. Mi scosto.
Non vedo l'ora
di sapere quando avrò un'altra ora con quel biondino.
Quel 'mi
piaci' lanciato così enigmaticamente mi ha lasciato a dir
poco perplesso. Insomma, è un qualcosa di totalmente
inusuale da dire a uno studente, nonostante debba ricordarmi di star
parlando di Kyo. Tutte le leggi vengono stravolte quando si tratta di
lui, il giorno e la notte si uniscono e tutto va guardato al contrario.
E'…
forte.
Incredibilmente.
Anche lui mi
piace, parecchio, a tutto tondo. Ogni minima piccolezza sia riuscito a
cogliere oggi mi ha stregato e affascinato a tal punto che ho maledetto
la campana che segnalava la fine dell'ora: evento unico, non
c'è che dire.
Però
ho voluto lanciargli anche io un piccolo segnale, adesso sta a lui
coglierlo.
Un ghigno mi
si disegna in volto al pensiero di cosa gli ho lasciato scritto sul mio
biglietto...
In
fin dei conti come primo giorno non è stato poi male.
Oltre
alla famigerata classe di teppisti ho avuto a che fare anche con due
terze e una quarta, fin troppo disciplinate per i miei gusti.
Di
quelle che si alzano dai banchi e si inchinano per salutare il
professore.
Un
gesto che ho sempre odiato.
E’
vero è un segno di rispetto verso l’insegnante, ma
se l’insegnante stesso non ricambia quel saluto, allora non
ha motivo di esistere.
Un
professore non è in cima alla piramide del sapere.
Gli
allievi hanno da imparare da lui, tanto quanto lui ha da apprendere dai
propri alunni.
Qualcosa
che molti sembrano ignorare.
Come
se fosse qualcosa di inaccettabile.
Così,
chiusi nella loro falsa superiorità, pretendono rispetto e
dimostrazioni di quest’ultimo, quasi che
quell’inchino fosse qualcosa che gli è dovuto per
diritto, restituendo in cambio solo uno sguardo sprezzante.
Il
preciso modo di comportarsi dei miei professori.
Li
disprezzavo.
Li
disprezzo ancora.
Disprezzo
quel saluto ad inizio lezione così come disprezzo le persone
dall’animo corrotto.
Il
popolo di dannati che infesta la terra.
Gli
ho vietato di inchinarsi di fronte a me.
Non
devono più farlo.
I
gesti meccanici e privi di sentimento sono per i soldati.
E
loro invece sono solo ragazzi che si suppone debbano essere educati da
uomini più saggi di loro ma che invece fanno di tutto per
renderli gli uni uguali agli altri, soffocando la loro
personalità.
Tutto
l’opposto di ciò che desidero io.
Tutto
l’opposto di come dovrebbe essere.
Scuoto
il capo trascrivendo su un quaderno nuovo l’elenco dei
nominativi degli allievi affiancati ai loro nuovi nomi.
Alla
fine ho chiesto in ogni classe dove sono stato assegnato di scegliersi
un nominativo.
Forse
molti non hanno compreso il perché di questo gesto, ma non
importa.
Confido
che lo capiranno nei prossimi mesi.
Perché
se credono di aver a che fare con il classico insegnante che assegna
compiti impossibili, solo per il gusto di metterli in
difficoltà, limitandosi a spiegazioni stentate…
beh hanno sbagliato indirizzo.
Finalmente
termino anche questa classe e passo alla successiva.
La
V D.
Non
posso fare a meno di lasciarmi andare ad un sorrisetto.
Me
la sono conservata per ultima, come ciliegina sulla torta.
Ruki…
Confesso
che è la prima volta che un allievo riesce a catturare
istantaneamente la mia simpatia.
Ho
pensato spesso a lui oggi.
Anche
durante le prove di questo pomeriggio per lo spettacolo di stasera.
Guardo
l’orologio appeso alla parete.
Sono
le sette passate.
Ho
più o meno due ore e mezza per prepararmi.
Abbastanza
per trascrivere il loro elenco di nomi, prepararmi, andare al locale e
mangiare qualcosa lì prima dello spettacolo.
Senza
perdere tempo tolgo la fascia di carta, con su scarabocchiato il nome
della classe, che tiene insieme quei fogli.
Sono
molto soddisfatto di loro.
Ci
hanno pensato su parecchio prima di scegliersi il loro nome.
Esattamente
come avevo suggerito.
Decidere
per se stessi un nome non è una passeggiata.
E’
qualcosa che fa fatto tenendo conto di quello che si prova nel proprio
animo, delle proprie idee e di cosa si vuole trasmettere.
Solo
considerando questi elementi sarà possibile creare un nome
che sembra essere cucito addosso a chi lo porta da sempre, come un
marchio indelebile che dichiara chi si è, cosa si vuole
dalla vita, e quali sono i propri sogni.
Un
nome che potrebbero avere anche altre persone ma che se pronunciato
richiamerà alla mente di chi lo ascolta solo ed
esclusivamente quel soggetto che lo ha scelto per sé
seguendo il flusso di emozioni della propria anima.
Esattamente
come il nome Ruki, se fosse portato anche da dieci, cento, mille altre
persone, mi farà pensare sempre e solo a quel ragazzo con i
capelli neri e il ciuffo fuxia seduto all’ultima fila, con
quel sorrisetto strafottente sulla faccia.
Aggrotto
le sopracciglia, pensieroso.
Questo
mi fa ricordare che proprio lui che aveva già il suo nome ha
consegnato per ultimo.
Perplesso
afferro il primo foglio sulla pila, ossia l’ultimo che mi
è stato dato - il suo -.
E’
piegato a metà.
Senza
indugiare oltre lo apro.
Che
peste!
Non
ha scritto neanche il nome e il cognome veri come avevo chiesto.
Semplicemente
un enorme RUKI scritto a caratteri cubitali in inchiostro nero occupa
l’intero spazio, poi la mia attenzione viene attirata da una
scritta molto più piccola, in basso a destra.
‘Penso
che potrei appassionarmi alla stupida materia che insegni.
Ruki’
Beh…
Questo
è…
Inaspettato.
Leggo
più e più volte quelle righe cercando di capire
cosa si celi dietro di esse.
Ironia?
Una
sorta di ammirazione?
Un
apprezzamento per la mia filosofia?
…un
apprezzamento a ME?
…
Una
risata sommessa fa sobbalzare le mie spalle prima di acquietarsi in un
sorriso mentre porto l’estremità della mia penna
tra i denti, mordendone piano il tappo.
Una
brutta abitudine che dovrei perdere quella di mangiare le penne.
Credo
di poterle classificare come uno dei miei alimenti base, ormai.
Cosa
hai voluto dire, piccolo Ruki?
Mi
hai restituito quel ‘mi piaci’ che ti ho lanciato
senza darti modo di interpretarlo nella maniera corretta, facendo in
modo che adesso abbia io qualcosa su cui scervellarmi tutta la sera?
Bravo.
Molto
bravo.
Ti
ammiro, Ruki.
Ma…
sai una cosa?
Non
credo esista un modo corretto di interpretare quel ‘mi
piaci’.
Potrei
dirti che mi piaci perché ragioni nel modo che io reputo
corretto.
Perché
sento che almeno in parte hai le mie stesse idee, solo guardando il
modo in cui ti muovi e parli.
Perché
il suono della tua voce è cristallino e deciso, privo di
qualsivoglia accenno di sottomissione.
E
anche perché con quella faccia da schiaffi e quel sorriso
impertinente ti trovo molto carino, non lo nego.
In
poche parole, mi piaci nella tua interezza.
Mi
piaci a 360 gradi.
Per
questo motivo, non c’è un preciso modo di
interpretare quello che ti ho detto.
Perché
non si riferisce a qualcosa di specifico della tua persona.
Ma
a te in tutto e per tutto.
Sarà
interessante confrontarmi con te, Ruki.
Non
vedo l’ora, credimi.
Davvero
non vedo l’ora.
Con
un sorriso infilo quel biglietto nella tasca dei miei calzoni e mi
metto al lavoro per completare il mio elenco.
Ho
deciso.
Voglio
darti un segno della mia stima, piccolo.
Anche
se non lo saprai mai, questa sera sul palco la mia voce
vibrerà per te.
____________________________________________________________
*Ehggià,
la traduzione in italiano di Matsumoto è proprio Vicino al
Pino xDDD. Povero Ruru ç_ç
Tora’s
note:
u.u”
Il titolo è preso dalla canzone 'Apple and Cinnamon' di Utada Hikaru, da qui l'ispirazione per la nostra opera letteraria u.u. Inoltre, come
avrete già intuito in questo AU Kyo ha ancora il vecchio
look che il sottoscritto adora (pochi tatuaggi, piercing e capelli
biondi) così come Ruki e il suo stupendo ciuffo fuxia. XD
GurenSuzuki's
note: bhe, che dire, credo non ci vogliano grandi commenti. Ruki
ribelle e Kyo insegnante ghetto-style. La riproponiamo dopo un anno,
qui nel fandom dei gazettE, sperando possiate apprezzarla nonostante la
coppia travagliata. Che dire, non mi aspettavo di rivederla pubblicata,
ma è un piacere poter riscrivere queste righe, una
collaborazione divertente e produttiva, si spera xD. Un bacio
ragazzuole.
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