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Il dolore
di Didone
Roma e Cartagine, Enea
e Didone
Cartago delenda est
Le lacrime mi offuscano la vista mentre,
dall’alto della rocca di Cartagine dalle dorate spiagge, osservo le veloci navi
dei Troiani allontanarsi sempre più dalle coste Africane, con il vento
favorevole ed il mare calmo sotto di loro, diretti nella lontana Esperia.
Oh me infelice! Quale dolore mi attanaglia
il cuore vedendo i porti vuoti, segno evidente della partenza del crudele Enea,
figlio dell’Urania Afrodite.
Mi getto a terra e con tremendo spasimo mi
percuoto il petto e mi strappo i biondi capelli, ancora pregni del suo odore.
Queste parole mi escono dalle labbra mentre
languo nel mio immenso dolore: -Oh Zeus! Lo straniero partirà irridendo in
codesto modo il mio nuovo regno?- sì, dopo aver elogiato le bellezze di
Cartagine dalle spiagge dorate, la abbandona per mare, prendendosi gioco di me,
del mio immenso amore nei suoi confronti.
Non può farlo! Dopo avermi illuso, dopo
avermi fatto credere che mi amava, abbandona me e Cartagine vilmente, di notte,
con la protezione delle tenebre.
Vile, meschino Enea! Una ferita profonda hai
provocato nel mio cuore, ferita che non si richiuderà.
Riprendo con rinnovato odio e vigore: -I
miei uomini non imbracceranno le armi funeste né le lunghe lance di bronzo, non
accorreranno da tutta la grande città di Cartagine dorata, non strapperanno le
navi dai cantieri?- mi fermo ancora una volta.
Ipocrita! Sono un’ipocrita: io che per prima
ho accolto i Troiani nella mia grande città e nella mia nobile casa, ora incito
dentro di me il mio popolo a violare questa mia decisione, pur sapendo che
sarebbe impossibile raggiungere la veloce nave di Enea divino.
Ricordo perfettamente quando i Troiani
arrivarono a Cartagine dalle dorate spiagge, e rammento il mio atteggiamento nei
loro confronti.
Accolsi i visitatori nel mio bel palazzo.
Erano stanchi, provati da un lungo viaggio
per mare, ed io non ebbi il cuore di non offrire loro la mia protezione e la mia
ospitalità, la quale è sacra a Zeus Egioco, il grande Dio Padre, colui che
governa il tuono e le tempeste.
Posai il mio sguardo a turno su ognuno dei
Troiani giunti fino a me e lessi nei loro occhi una grande gratitudine, che mi
colmò il cuore di piacere, ma come vorrei ora che il mio cuore fosse stato più
fermo, e le mie decisioni più dure.
Dopo averli osservati, parlai loro con voce
mite ed incoraggiante, ricordando il mio viaggio verso questa terra che ora è la
mia patria.
Infatti anche io, con il cuore colmo di
paura e di affanni, di dolore e rimpianti, ero partita dalla mia terra natia per
approdare con i miei compagni e le ottanta fanciulle che avevo preso con me
dalla bella Cipro per farne le loro future spose, nella terra del nobile re
Iarba. Riuscii perciò a comprendere perfettamente gli stati d’animo di questi
Troiani approdati in una terra straniera.
Anch’io come loro mi ero sentita persa,
spaesata; ora invece sono la regina di Cartagine, ma solo grazie alla mia
intelligenza ed alla mia forza, che mi hanno permesso di governare una città
così grande e potente da sola, senza un uomo accanto.
Ricordo che Iarba, quando mi concesse di
erigere una città sulla sua terra, mi porse una pelle di bue e mi disse, con un
sorriso di superiorità sulle labbra, che avrei avuto a disposizione tanto
terreno quanto ne poteva racchiudere al suo interno la pelle dell’animale.
Sapevo che il sovrano voleva approfittarsi di me, che ero una donna indifesa,
vedova e sola, ma io non glielo permisi: tagliai la pelle del bue in tante
strisce sottili che disposi una accanto all’altra in forma circolare; così creai
il perimetro della città che ora sto costruendo con le mie risorse e governando
con le mie sole forze.
Scossi leggermente il capo e tornai a
concentrarmi sui Troiani che mi stavano davanti; per mascherare questo mio
movimento, reclinai il capo e dissi loro: -Allontanate il nero timore dai vostri
cuori, nobili Teucri, e liberatelo dagli affanni. Una situazione assai
spiacevole ed il fatto che il mio regno sia neonato, mi obbligano a misure
estreme, ed a vegliare con guardie su tutti i confini di Cartagine dalle sabbie
dorate. Chi ignora la stirpe degli Eneadi e la divina città di Troia, sacra a
Zeus Padre, i suoi eroi, le loro gesta e gli incendi spaventosi che provocarono
i Danai vincitori? Noi Punici non abbiamo il cuore così duro: che vogliate
raggiungere la grande Esperia e gli ampi campi saturni, o le terre di Erice ed
il molto nobile re Aceste, io vi congederò da Cartagine sicuri di aiuto e vi
soccorrerò di mezzi. Ma volete voi, nobili Troiani, risiedere con me in questo
nuovo regno? La forte città che sto fondando è anche vostra; ancorate quindi le
veloci navi che dalla Troade splendente vi condussero qui: Troiano o Tirio, per
me non vi sarà differenza alcuna. – feci a questo punto una breve pausa, dopo la
quale pronunciai le parole che ora desidererei non avessero mai oltrepassato il
soglio delle mie labbra – E fosse presente, spinto a sua volta da Noto, vento
meridionale, divino figlio di Eos dalle rosee dita, il nobile Enea! Ma certo
manderò uomini fidati ad esplorare le dorate spiagge di Cartagine divina ed i
confini della Libia, i quali possano riferirci se per caso, il molto nobile
figlio di Anchise, si aggiri naufrago per città o per selve.-
Quando mai tali funeste parole uscirono
dalla mia bocca? Pandemia Afrodite, perché mandasti a me tuo figlio quel funesto
giorno? Perché volesti che me ne innamorassi? Non riceverò mai risposta a queste
domande.
Con lo sguardo offuscato dalle salate
lacrime, rivolto verso il mare aperto dove stanno scomparendo le navi dalle
bianche vele dei Troiani, continuo il mio grido di dolore: -Andate, recate
veloci le fiamme, date armi, forzate sui remi delle agili navi Cartaginesi!- mi
fermo di nuovo.
Qualche cosa dentro di me pare cambiare. Il
mio spirito combattivo si placa, lasciandomi vuota e stanca, accasciata a terra,
con le belle vesti lacere, i biondi capelli scomposti ed il viso rigato di
lacrime amare di dolore.
Non avrei la forza di sostenere una
battaglia fisica contro Enea… il divino figlio dell’Urania Afrodite occupa
tuttora un posto speciale nel mio cuore straziato: penso di amarlo ancora.
Odio me stessa in questo momento. Io, che mi
ero ripromessa di restare fedele al buon Sicheo, il mio defunto marito, mi sono
innamorata di quel giovane Troiano reduce di tante sventure, proprio come me; ma
anche ora che egli mi ha crudelmente abbandonata, invece di ritornare con il
cuore e con la mente ai tempi in cui il mio amato Sicheo era ancora vivo, prima
di essere ucciso da mio fratello Pigmalione, tutto il mio essere è ancora
dedicato al crudele Enea.
Me misera e meschina!
Le parole precedentemente pronunciate
trovano contraddizione in quelle che ne seguono, dettate dal mio nuovo stato
d’animo, dal nuovo pensiero che si è fatto largo nella mia mente, o che vi era
sempre stato insinuato senza che io me ne fossi accorta.
-Cosa dico mai? Dove mi trovo? Quale follia
mi sconvolge la mente? Me infelice! Solo adesso le empie azioni mi toccano?
Allora avrebbero dovuto, quando accordavo lo scettro. Ecco la destra e l’onestà
di colui il quale si dice che rechi con sé i divini Penati della sacra patria ed
abbia portato sulle forti spalle il padre stremato dagli anni! Non potevo
dilaniarne il corpo e disperderlo nei flutti del mare di Poseidone Cronide?- la
voce mi si incrina e taccio ancora.
Le mie erano parole dettate dalla rabbia,
dal rammarico e dal dolore, ma dentro di me so bene che mai avrei potuto fare
ciò che ora urlavo; che mai ne avrei avuto il coraggio o la forza.
Altri ricordi mi affollano la mente,
inaspettati, improvvisi, inesorabili, crudeli, ed io, non riuscendo a scacciarli,
ne sono sopraffatta.
Ricordo che, dopo aver rivolto cordiali
parole di ospitalità ai Troiani giunti nella mia nobile dimora ed aver espresso
il mio dispiacere per l’assenza del molto nobile principe figlio del nobile
Anchise e della divina Afrodite, alzai lo sguardo e vidi apparire davanti a me
Enea.
Simile ad un Dio appariva il figlio
dell’Urania Afrodite: sembrava risplendere di luce propria come il più luminoso
astro che brilli nel cielo di Urano; come se la sua divina madre avesse ispirato
nel figlio la bella chioma aurea ed il purpureo fiore di gioventù e la lieta
grazia negli occhi.
Egli si rivolse subito a me, che apparivo
molto meno impressionata dei suoi compagni, ai quali la sua apparizione era
giunta inattesa, quasi fosse stato un morto tornato dall’Ade oscuro sulla terra
di Gea.
Mi disse allora con voce vigorosa, per
potenza superata solo dal ruggito di rabbia del Padre Zeus prima di un temporale,
queste parole: -Ecco, sono io che cerchi, il Troiano Enea, scappato alle alte
onde del mare di Libia. Oh, sola pietosa delle indescrivibili pene di Troia
dalle divine mura, che noi, relitti dei Danai, ormai stremati da tutte le
disgrazie della terra di Gea e del mare di Poseidone Cronide, bisognosi di tutto,
accogli nella tua divina città e nella tua nobile casa. Renderti giuste grazie
non è in nostro potere, fenicia Elisa, né di alcuno, ovunque sia, della gente di
Troia dalle alte mura, dispersa nel vasto mondo. Gli Dei, se il loro potere
difende i buoni, se in un luogo vale giustizia, ti rendano degni compensi. Quale
età fortunata ti produsse? Quali magnanimi genitori ti crearono tale? Finché i
fiumi sfoceranno nel mare di Poseidone Cronide e le ombre esploreranno il cavo
dei monti ed il cielo di Urano alimenterà le stelle, sempre dureranno il tuo
onore, il tuo nome e la tua gloria, qualunque terra mi chiami.-
Sciocca che mi feci incantare da queste sue
parole, dalle sue lusinghe, poste con quella voce dal timbro irresistibile,
quasi fosse stati ispirato dal divino Apollo, Dio della musica e del bel canto!
Quando mi ebbe detto questo, si volse ai
compagni e ne salutò alcuni fra i più cari al suo cuore, mentre io lo osservavo,
ancora stupita dalla sua improvvisa apparizione, quasi fosse stato avvolto in
una nuvola invisibile, e stupita anche dalla sua straordinaria sorte.
Quando egli ebbe finito di salutare i
compagni ritrovati, io mi rivolsi a lui per la prima volta; se solo non l’avessi
fatto…
-Quale fato funesto ti insegue, figlio
dell’Urania Afrodite, fra tante minacce? Quale forza ti spinge su rive
sconosciute? Sei tu Enea, che Afrodite Urania generò con il nobile Anchise
presso le onde del Simoenta?
Ricordo che il nobile Teucro venne a Sidone bandito dalla patria, in cerca di un
nuovo regno con l’aiuto di Belo; allora questi devastò e conquistò col ferro la
ricca Cipro. Già da quel tempo ero a conoscenza della caduta della città troiana
e del tuo nome. Il medesimo nemico esaltava i Teucri con grandi lodi, e vantava
la medesima discendenza. Perciò avanti, giovani Troiani, entrate nel nostro
palazzo. – dopo questo invito, i miei pensieri precedenti assunsero forma di
parole, che pronunciai perché mi sentivo sicura ed ero certa che mi avrebbero
compresa – Il Fato volle che anche io, col cuore colmo di affanni, mi fermassi
infine in queste terre. Conoscendo il dolore, ho imparato a soccorrere gli
infelici.-
Non l’avessi
fatto, non so cosa sarebbe cambiato; probabilmente nulla, poiché il Fato non si
può contrastare, essendo superiore agli Dei ed allo stesso Padre Zeus.
Detto questo, mi
allontanai dalla presenza dei Troiani, ma nonostante la mia distanza, la figura
di Enea restò impressa nella mia mente di donna infelice e misera.
Riprendo il mio
urlo di odio e dolore dal punto in cui mi ero interrotta, di nuovo animata dal
fuoco del disprezzo: -Ed uccidere con ferro
affilato i suoi compagni e lo stesso Ascanio ed imbandirlo sulla tavola del
padre crudele?- credevo di poter continuare con freddezza, indifferenza, ma così
non è.
Mai la mia mano di donna avrebbe potuto
abbattersi su di un bambino, l’amato figlio di Enea.
La mancanza di un figlio mi è sempre pesata,
tanto che quando vidi Ascanio ne rimasi affascinata e desiderai con tutta me
stessa di poter un giorno avere un figlio… un figlio da Enea…
Ricordo che
ordinai che venisse portato cibo abbondante ai Teucri rimasti presso le navi nel
porto di Cartagine, ed organizzai un maestoso banchetto per Enea ed i suoi
compagni.
Alla sera ci
riunimmo tutti attorno al tavolo per banchettare.
Ed ecco che vidi avanzare verso di me un
fanciullo, il quale recava nelle mani un prezioso manto ricamato a figure d’oro,
un velo bianco con sopra trapuntato un fregio tutto intorno.
Questo era chiaro frutto di un lavoro
sopraffino, e notai che molti si soffermarono ad osservarlo, incantati dalla sua
bellezza.
I miei occhi però si riempirono di lacrime
che riuscii a reprimere a fatica alla vista di Ascanio, il figlio di Enea, più
che dei doni da lui portati.
Vidi il fanciullo incrociare il mio sguardo
per un breve attimo, prima di buttare le braccia al collo del padre, il quale lo
sollevò da terra con affetto.
A questo punto entrambi volsero i loro
sguardi, così azzurri, così simili, verso di me, che, dopo un attimo di
titubanza, accolsi il piccolo Ascanio sulle mie ginocchia.
Me misera! Come vorrei non averlo fatto!
Il mio amato marito, il nobile Sicheo, che
ora provo quasi vergogna a nominare, non era mai riuscito a fecondare il mio
ventre, e mio fratello Pigmalione lo aveva strappato alla vita prima che ci
potesse riuscire, perciò io ero vedova e priva dell’amore di un figlio.
Il desiderio di una gravidanza cominciò a
crescere dentro di me fin dal primo momento che vidi il bell’Ascanio varcare la
porta del mio palazzo e non ci trovo nulla di strano, ma ciò che mi lascia
stupita è il fatto che, quando presi Ascanio sulle mie ginocchia, la mia mente
cominciò a svuotarsi dal pensiero del mio amato marito Sicheo, al quale ero
rimasta fedele fino a quel giorno funesto che accolsi i Troiani nella mia casa.
Cominciai ad accarezzare il capo dorato del
bambino, mentre un sorriso mi increspava dolcemente le labbra ed aumentava in me
il desiderio di recare dentro il mio ventre una creatura così splendida.
E mentre la mia mano entrava a contatto con
i morbidi capelli di Ascanio, nel mio cuore e nella mia mente si insinuava un
unico volto: quello di Enea.
Volevo vedere il suo volto in quello della
mia creatura, volevo che fosse lui il padre di mio figlio.
Ed ora che il mio desiderio è stato
esaudito, desidero con tutta me stessa che questo seme che sta germogliando
dentro di me venga espulso dal mio corpo, cancellando il ricordo di Enea.
Mi porto le mani al ventre ancora piatto, ma
che io avverto essere colmo di vita e lo tasto lentamente.
Le sensazioni che provo sono contrastanti:
provo un senso di dolcezza e di amore nei confronti di questo figlio, misto ad
una leggera punta di odio nei confronti di colui che lo generò.
Un brivido mi corre lungo la schiena a
questo nuovo pensiero che mi balena nella mente e che mi sfugge sotto forma di
dure parole dalle labbra: -Ma insicura era la lotta. E lo fosse stata! Di chi
mai, in punto di morte, devo aver timore? Avessi portato alte fiaccole nel campo
ed una volta empito le tolde di fiamme, estinto il figlio e il padre e la
stirpe, avessi gettato sulla funesta pira me stessa!-
Fu a causa di queste parole e del
corrispondente pensiero che rabbrividii. Se davvero volevo distruggere Enea e la
sua funesta stirpe, anche il figlio che recavo in grembo avrebbe dovuto perire.
Non ci sono altre soluzioni ed io lo so
molto bene; o forse ci sarebbero, ma il dolore che mi affligge è troppo grande
perché io le possa prendere in considerazione.
Abbasso il capo e le lacrime riprendono a
scorrere copiose sulle mie pallide guance, ormai scavate da questo salato
torrente che le percorre in tutta la loro lunghezza.
Mi porto nuovamente le mani al ventre e lo
carezzo dolcemente, questa volta con la mente sgombra per un momento dal
pensiero del padre.
Dentro di me, mentre compio questi gesti,
cerco di figurarmi questo bambino cresciuto. Con rammarico però penso che questo
non accadrà mai: questo bambino non nascerà, poiché io ho intenzione di scendere
nell’Ade oscuro e ritrovare il mio amato Sicheo, che forse mi permetterà di
dimenticare Enea. Il mio dolore si consumerà nella buia dimora di Ade Cronide e
della giovane Persefone, consorte e nipote del Dio dei morti.
Ho preso la mia decisione e non tornerò
indietro. Alzo perciò il capo ed osservo per un attimo l’orizzonte, oltre il
quale sono già sparite da tempo le navi del crudele Enea.
Infine alzo una supplica verso il cielo,
rivolta agli Dei.
Le mie parole sono cariche di odio ed in
esse si percepisce chiaramente la mia brama di vendetta.
-Oh sole di Apollo Lungisaettante che
illumini con i tuoi caldi raggi tutte le opere della terra di Gea, e tu Hera
divina, sorella e moglie di Zeus Padre onnipotente, autrice e complice dei miei
affanni, Ecate invocata dai trivi ululando, ed Erinni vendicatrici e Dei di me
morente, accogliete quello che dico, punite con equa potenza i maligni, ed
ascoltate le mie suppliche. Se l’infame deve raggiungere il porto della bella
Esperia ed approdare alla terra e questo richiedono i fati di Zeus tonante, ed
il termine resta immutabile: ma travagliato dalle armi bronzee e dalla guerra
funesta di un popolo valoroso, allontanato dalle terre, strappato dal dolce
abbraccio del biondo Ascanio, scongiuri aiuto e veda le immeritate morti dei
suoi compagni, e quando si sia piegato alle leggi di una pace iniqua, non goda
del regno e del dolce lume; ma cada prima dell’ora, e giaccia insepolto tra la
sabbia fine. Di questo vi prego, col sangue effondo quest’ultima voce. E voi, oh
Tirii, perseguitate con odio la sua stirpe e tutta la razza futura, offrite un
tal dono alle nostre ceneri. Non vi sia amore né patto tra i popoli. E sorgi,
vendicatore, dalle mie ossa, e perseguita con il freddo ferro e con il bruciante
fuoco i coloni Troiani, ora, in seguito, o quando se ne presenteranno le forze.
Lidi opposti ai lidi, onde ai flutti auguro, armi alle armi; combattano essi e i
nipoti.-
E a queste parole si placa per un poco
l’animo mio, ed io taccio, riprendendo ad osservare il mare azzurro, ora non più
mosso dal passaggio delle veloci navi troiane.
Dentro di me so che queste mie preghiere
saranno esaudite, so che i Cartaginesi saranno in lotta con i discendenti di
Enea in futuro, poiché questo io scriverò con il mio sangue.
Verrà un giorno il vendicatore che
infliggerà dolori e sconfitte infinite alla stirpe del crudele figlio di
Anchise.
Sento dei leggeri passi dietro di me e
subito li riconosco, poiché molte volte li ho uditi risuonare nelle stanze del
nobile palazzo di Cartagine dalle dorate spiagge, o nelle camere del palazzo
della mia patria fenicia ed ora mi è facile riconoscerne il suono fra altri
mille.
Senza voltarmi, mi rivolsi a colei che
avanzava verso di me, credendo che io volessi celebrare un rituale magico per
liberarmi dal pensiero di Enea, chiamandola con l’amato nome di Barce, che fu la
nutrice del mio adorato Sicheo, e le dissi: -Amata
nutrice, chiama la sorella Anna, dille che si affretti a bagnare il corpo
di acqua fluente, e rechi con sé le vittime sacrificali e la prescritta
espiazione; così venga; e tu fascia le tempie di pia benda. Penso di compiere i
sacrifici secondo il rituale intrapresi e disposti a Zeus signore del fulmine,
di porre fine alle mie infinite sofferenze bruciando sul rogo l’effige del
Troiano traditore.-
Ho pronunciato queste parole senza mai
staccare gli occhi dal mare cristallino, leggermente increspato dalla lieve
brezza che spirava, né girarmi verso la nutrice; capisco che se ne sta andando
solo dal rumore dei suoi passi, il quale si fa sempre più debole e fioco fino a
che non scompare.
Ora che l’amata Barce si è allontanata,
riesco a girare il capo.
Sono agitata, stravolta dall’atrocità dei
miei intenti.
Sebbene non possa vedere il mio viso, so di
essere terribilmente pallida, come se il mio corpo si stia già preparando alla
morte.
Rimango lì su quella scogliera ancora per
qualche tempo.
Mi accarezzo di nuovo il ventre che solo io
so essere gonfio di vita e do un muto addio alla creatura che vi dimora, poiché
so che non la vedrò mai.
Il mio pensiero vola di nuovo ad Enea, alle
sue parole, alle sue false promesse, uscite da labbra ancora calde di passioni
amorose, perciò false, affrettate.
Contraggo le mani fino a che non le chiudo
in pugni così stretti che mi ferisco da sola la carne dei palmi con le unghie.
Se così tanto lo avevo amato un tempo,
dimenticando la mia promessa al marito adorato, il buon Sicheo, e tutte le
proposte di matrimonio che avevo rifiutato, nascondendomi dietro ad essa, la
quale però era crollata in un attimo alla vista del bell’Enea.
L’odio monta dentro di me, fino a che non
esplode: correndo mi allontano dalla rocca di Cartagine sacra a Hera e mi dirigo
verso la mia nobile casa.
Irrompo con violenza nel palazzo,
spalancando le porte con forza; salgo i gradini con furia, reggendomi appena le
vesti in modo da non cadere e giunta nell’intimità della mia stanza mi chiudo la
porta alle spalle.
Mi avvicino al letto e sfodero la spada che
vi giace accanto, come abbandonata.
Ne osservo la lama lucente per qualche
istante e vedo riflessi i miei occhi azzurri che bruciano di rabbia e dolore.
Rimango immobile per un po’ad osservarla.
È la spada di Enea.
Egli me l’ha lasciata come ricordo, poiché
io stessa avevo espresso questo desiderio: mai avrei pensato che quel dono
sarebbe diventato lo strumento del mio suicidio.
Infine, abbasso lentamente la spada e mi
guardo attorno, sempre tenendola ben salda nella mano destra.
Vedo sul mio giaciglio le vesti troiane che
indossava Enea… le lacrime tornano a pungermi gli occhi ed il pensiero vola alle
nostre notti d’amore trascorse su quello stesso letto che vedo innanzi a me,
vuoto.
Lentamente mi siedo su di esso, ed infine
appoggio una guancia sul cuscino, ed osservo un punto indefinito davanti a me.
Infine dico, mentre una lacrima mi scende
lungo il viso, finendo a bagnarmi le labbra: -Dolci spoglie accogliete questa
anima e scioglietemi da tali tremende pene. Ho vissuto ed ho percorso la via che
mi aveva assegnato la crudele sorte, ed ora la mia ombra gloriosa scenderà
nell’Ade oscuro, regno del Cronide signore Ade. Ho innalzato una meravigliosa
città, ho veduto erigersi le mura da me costruite, ho vendicato lo sposo amato,
punito il fratello nemico; felice, troppo felice sarei stata se solo le veloci
navi dei Troiani non avessero mai toccato le nostre sponde!-
Dicendo questo, affondo il viso nel
guanciale per soffocare il pianto ed aggiungo: -Morirò non vendicata, ma morirò.
Così voglio discendere fra le ombre eterne. Beva questo fuoco con gli occhi del
mare il crudele Troiano e rechi con sé la maledizione della mia morte.-
Mi rialzo, impugno nuovamente la lucente
spada di Enea e la guardo.
Eravamo così simili tu ed io, amato Enea:
entrambi reduci di tremendi dolori e sofferenze, vedovi e privati del coniugale
affetto, costretti a fuggire dall’adorata patria per portare a termine il loro
destino in una terra straniera.
Avrei tanto voluto fare parte del tuo
destino, ma i piani divini sono diversi per te, crudele Troiano.
Ora tu sei lontano da Cartagine divina, ma
la mia morte porterà rovina su di te e la tua stirpe.
Avvicino la spada al mio petto ed alla fine,
con un movimento rapido mi trafiggo l’addome.
Un dolore lancinante mi avvolge e sento la
creatura che cresceva dentro di me morire e fluire dall’apertura delle gambe,
bagnando le candide vesti di sangue scuro.
Emetto solo un leggero gemito di dolore
mentre mi accascio sul letto.
Odo le urla delle mie ancelle, le quali si
precipitano verso di me, gridando disperate, strappandosi le vesti ed i bei
capelli.
Sento delle braccia sollevarmi con tocco
gentile e delicato: una lacrima mi cade sulle labbra, e poco dopo sento la voce
familiare della mia amata sorella, Anna dalle bionde chiome, che mi dice fra i
singhiozzi convulsi che le squassano il giovane petto: -Era dunque questo,
sorella? Desideravi ingannarmi? Questo mi predisponevano la pira, le fiamme e le
are? Abbandonata, cosa accuserò prima? Spregiasti la sorella nella morte? Se tu
mi avessi chiamata ad uno stesso fato, uno stesso dolore e momento avrebbe
rapito entrambe con il freddo ferro. Ho innalzato il rogo con queste mani, le
stesse che ora stringono il tuo corpo morente; ho invocato gli Dei della nostra
patria, per non essere presente, crudele, alla tua funesta morte? Hai ucciso te
e me, sorella, ed il tuo glorioso popolo ed i nobili padri e la tua bella città.
Fate che io deterga le ferite, se erra ancora un estremo alito, lo colga con le
labbra.-
Questo odo uscire dalle tue labbra, amata
sorella, mentre mi stringi dolcemente al petto e bagni le mie lacrime con le
tue.
Scendi ora dai gradini della mia altra
dimora, e nel frattempo mi abbracci forte, cullandomi fra le tue braccia,
appoggiata al tuo seno.
Il tuo candido abito si tinge del carminio
del mio sangue.
Soffro, Anna; il dolore mi attanaglia, ma io
non sono morta ancora.
Sento il sangue fluire dalla mia ferita
aperta ed odo i tuoi gemiti soffocati, colmi di dolore e di pianto.
Tento di aprire gli occhi, le cui palpebre
sono rese pesanti dalla morte imminente che mi sta prendendo. Cerco di muovermi,
di alzarmi, ma ricado all’indietro, sconfitta dalla ferita nel mio petto,
profonda e dolorosa.
Tre volte provo, appoggiandomi al gomito, a
sollevarmi, e tre volte ricado su di esso, trafitta dal dolore.
Sollevo allora gli occhi pesanti verso il
cielo di Urano, cercando la luce e quando la trovo emetto un gemito di felicità.
So che gli Dei non mi hanno ancora strappato
la vita, tagliandone il sottile filo, poiché non muoio per il destino, ma prima
dell’ora prestabilita; ma ora sento una felicità immensa invadermi, prendendo il
posto della mia anima, la quale scivola via lentamente dalle mie spoglie
mortali.
Chiudo gli occhi e sospiro, e con questo mio
ultimo alito, esce dalla bocca la mia vita.
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