I
libri vanno e
vengono, sono come le foglie di questo autunno invadente e impreciso.
Quasi li
si vede, appesi con mollette in legno ai rami degli alberi, le pagine
che
frusciano, scricchiolano, sbattute incessantemente dal vento. Come dei
sogni
racchiusi nella morsa del tempo, che cercano di fuggire urlando, ma le
loro
catene li tengono ancorati al palo arrugginito del fato; loro si
ritraggono
spauriti nel loro cantuccio, per poi tentare la libertà una
volta di più. Un
libro è un sogno prigioniero delle sue stesse parole.
I
libri vanno e
vengono. Alla fine, ciò che resta di loro è solo
un’emozione. L’emozione che si
prova quando si legge, o quando si è appena finita una
storia: quel sentore
alla bocca dello stomaco, proprio lì, quel brivido che ogni
tanto ti percorre
le dita delle mani, il viso che si avvicina alle parole e alle frasi,
risucchiato. Un
senso di noia che
profuma di nebbia, una tranquillità celata che si trascina
dietro il peso di
una storia che non si riesce a narrare. L’indifferenza
iniziale, l’approccio,
che poi talvolta si tramuta in invaghimento, e raggiunge una passione
indecente… si
può amare così tanto un
pezzo di carta?
Questo pomeriggio l’aria
è come un buon libro, ti trasporta
nell’amplesso delle sue trame, ma lo fa piano, dolcemente.
Quasi non ti accorgi
che, a un certo punto, è stata lei a guidarti in quel luogo,
a muovere i tuoi
stessi passi.
È
fresca, leggera. Le
foglie umide invadono a tratti i sentieri del parco, impiastricciate
come lo
schizzo di un bambino, si appiccicano fastidiosamente alle suole, e
là restano,
mezze marcite, con quell’odore persistente e intriso di
pioggia e di sole.
Pizzica appena il naso e libera i polmoni dal fumo dei ricordi, si
insinua per
la gola come tante praline di cioccolato piccante.
Un
uomo cammina su
quelle vie, il capo chino, il passo lento di un fantasma che si
è smarrito fra
i meandri del suo castello. Anche i capelli, di un biondo cenere, sono
smorti
come quelli di uno spirito. Si stringe un po’ nel suo
paltò del colore delle
caldarroste. È fatto di un tessuto morbido e rigato, due
ampie tasche ai lati
per contenere un altro mondo, magari più bello, fatto di
primavere e di gite
nei boschi. L’uomo sente il freddo pungergli la pallida
pelle, e ha le braccia
incrociate, le mani che sfregano la stoffa del cappotto alla ricerca di
un granello
di calore. Una di esse stringe un libro, il pollice e
l’indice che impugnano il
dorso sbiancando attorno all’unghia, e i polpastrelli rossi
come se immersi in
succo di lampone.
Si
siede su una
panchina, e comincia a leggere. Pagina dopo pagina, il freddo lo
abbandona per
rifugiarsi in altre lande desolate, forse nelle steppe del nord, o nei
pressi
di qualche baita scandinava, a gelare fra le volpi artiche e a
sussurrare
segreti alle miti alci. Gli occhi non guardano che la storia, la sua
storia, e
i passanti che scorrono davanti a lui sono solo una cornice appena
percepita
dalle iridi incantate. Una cornice d’autunno su cui scorrono
anonime scene,
fotografie in negativo. Una madre si ferma un attimo per aggiustare la
copertina in pizzo e lana del suo bambino, infagottato in una
carrozzella che
fra un po’ sarà troppo piccola per lui, poi
prosegue veloce per la sua breve
camminata. Un nonno accompagna la nipote a dar da mangiare alle anatre
e ai
cigni in riva al lago artificiale, passeggiano lenti, lei aggrappata al
suo
braccio rinsecchito che a sua volta si sostiene a un bastone. Due
innamorati
mano nella mano, il lampo più fugace che l’occhio
riesce a scorgere –
fotogrammi di vita.
Il
tempo è relativo,
scorre, si ferma, poi riprende impetuoso, un orologio sincronizzato con
il
battito d’ali di una civetta. Il segnalibro è un
rametto di mimosa raccolto la
primavera prima, gli steli verdognoli sottili come fili di raso. Nei
primi
tempi, ogni tanto restava sulla carta una polverina giallognola dal
sapore
acre, e dal ricordo amabile.
Il
tempo va. Le nubi
in cielo si scuriscono, è un nastro argento che si trasforma
in onice,
lentamente, sfumando come un carboncino su tela, la mano imprecisa di
un cieco
pittore.
Lui
si sfrega le mani
sul jeans consunto, poggiando il romanzo sul resto della panchina vuota
al suo
fianco. Per quel che ne sa, è sempre rimasta
così, senza nessun occupante se
non lui, nell’angolo, a sedere nel minimo spazio in quel gelo
di ferraglia
verde. Si alza, esce dal giardinetto. Torna a casa, con
l’animo un po’ più
leggero, nonostante l’aria immobile dia
l’impressione di una cappa pesante e
opprimente.
Percorrendo
la
strada, su un marciapiede trova un colombo che prende subito il volo.
Dall’alto, il parco pare un’oasi in una giungla di
palazzi alti e grigi, la sua
forma tondeggiante immersa nella solitudine della sera.
Ogni
libro riflette i
particolari della vita, ingloba la giovinezza terrena e la rende
eterna.
Deforma e incanta, persuade, insinua la sua lingua fra i paesi del
pensiero. Un
lettore è un cacciatore, l’autore un cacciato,
preda delle sue stesse parole –
armi e fucili dell’insaziabile immaginazione. La voce
dell’anima, che viene a
galla e rimanda alle vicissitudini dell’inconscio, gioca con
i sentimenti. Uno,
due, tre, stella! Vizio solitario, la lettura. E quando ti giri, vedi
solo le
foglie cadute e spostate dalla brezza passeggera che, impietosita, ha
portato
avanti qualche fronda. Ma è una giocatrice inesperta, non si
ferma, o si ferma
troppo presto, o sbaglia mira…
Uno
specchio enorme
che inghiotte chiunque, questo è un libro.
Questa
mattina,
l’acqua del laghetto è così. Piatta,
incantevole superficie dai riverberi
venati di azzurro cielo. Ogni tanto si vedono galleggiare briciole di
pane,
piccoli soli senza luce, che volteggiano e ritornano poi fra le
profondità del
lago.
Una
donna, il
cappuccio del giubbotto di cotone violetto calato sul volto, supera la
polla
d’acqua e percorre uno dei tanti vialetti in ghiaia. Il
rumore dei suoi stivali
fra le pietruzze è come lo spezzarsi di una tavoletta di
cioccolato.
L’aria
le si condensa
a poco dal viso, tante nuvolette di nebbiolina leggera e umettata, il
suo
respiro che diventa palpabile e poi si scioglie di nuovo nel nulla
dell’esistenza.
Sotto le calze di nylon sente il freddo pungerle le gambe, ma non vi
presta
attenzione.
È
presto, c’è poca
gente a percorrere le strade del parco. I barboni hanno già
lasciato le loro
postazioni notturne, mentre gli spazzini hanno da poco completato il
loro
lavoro. È la fascia oraria in cui l’isolamento si
fa più netto, in cui i pochi
transitanti restano in un silenzio religioso, cauto. Il parco diventa
un luogo
quieto, ma venato di malinconia, un cimitero senza morti – i
morti nell’anima,
quelli inevitabili, quanti ne passano, quanti camminano ancora per ogni
via e
ogni goccia di vita.
Trova
una panchina
libera, all’ombra di un grande olmo. Un libro giace al suo
fianco, sottile, la
copertina in brossura sui toni dell’acquamarina,
apparentemente dimenticato.
Lei lo prende, lo apre, nonostante nella borsa di cuoio avesse con
sé un altro
romanzo che era intenzionata a leggere. Lo sfoglia con cura, e un ramo
di
mimosa le scivola in grembo, imbrattandole la gonna di polvere dorata
– è la
speranza, la fantasia, che le intinge le vesti di filigrana
d’oro.
Usa
una bandella
della coperta per segnare la pagina da cui era sfuggita la frasca. Esce
il suo
libro dalla tracolla, schiude la facciata dove c’è
il suo segnalibro. Un petalo
di rosa essiccata, in passato di un rosa acceso, ma che col tempo ha
perso gran
parte del suo colore. Delicatamente, tiene in mano entrambi, quasi
ponderando
un pensiero nascosto e lontano, che però si sta facendo
spazio nella sua mente
e, come la corsa di una bambina, giunge a una conclusione avventata.
Decide
di portare con
sé il libro dimenticato. Lo infila nella borsa, di fretta,
è una ladra, una
ladra di storie. Invece lascia il suo sulla panchina, il suo libro
profumato di
fiori, carezzato come la tastiera di un pianoforte, la mano che ne
percorre il
dorso allo stesso modo del musicista, con cautela e passione.
Qualcosa
le dice che
lo troverà. Qualcuno, presto.
Pomeriggio.
L’aria è
cambiata.
Frizzante,
animata,
ha lo stesso sapore di mele e cannella di una lettura incompiuta. Si
trascina
in raffiche violente che cessano all’improvviso, la calma
dell’occhio del
ciclone – ti guardano, gli angeli, dall’alto delle
nuvole, il respiro sospeso.
Poi il soffio riprende, e ancora sconquassa gli alberi nei vortici di
fogliame,
ti getta addosso le memorie delle stagioni.
L’uomo
tossisce. Alza
gli occhi al cielo, e s’accorge che grumi scuri di nubi
minacciano pioggia, a
breve. Ha con sé un ombrello, nella tasca del
paltò. Affretta il passo verso la
sua panchina, implorando a mente che uno scherzo del destino abbia
fatto in
modo di preservare il suo libro. Magari sotto il ventre di una gatta,
che vi si
è seduta sopra, e che l’ha protetto dalle ingiurie
del mondo. Oppure in un
cerchio di folletti che l’hanno reso invisibile, fino al suo
sperato arrivo.
Forse
la mano di una giovane
ne ha lisciato il risvolto, il guanto lilla ad avvolgere dita lunghe e
affusolate.
Un
libro c’è. Un
romanzo in cartonato blu, la copertina tolta a darne un aspetto
anonimo. Lui sfoglia
le prime pagine per trovare l’occhiello, e sotto,
inaspettatamente, trova una
scritta a matita. Vergata con premura, imprigiona il suo sguardo
più del titolo
dell’opera: “Grazie!”
Le
lettere sono affinate,
curve, le vocali che sembrano parti di cerchi, il punto esclamativo un
fiore con
cinque petali, e una striscia cinerina per gambo. Sembra la scrittura
di una
donna.
Comincia
a leggere,
come è sua consuetudine, le spalle abbandonate sullo
schienale freddo della
panchina. Un giorno qualunque, un giorno d’ottobre che si
ripete uguale,
identico. Cambia il profumo della carta, ora dolciastro, cambia la data
sul
calendario. Ma il giorno è sempre lo stesso.
Dopo
un po’, un
petalo di rosa s’interpone alle pagine. È secco,
delicato, pare potersi rompere
al minimo tocco. Fra le venature, ci sono strati quasi trasparenti,
appena
rosati, fra le dita fruscia come lo scampolo di una tenda di seta.
Qualcuno,
d’un
tratto, interrompe il flusso di gente e d’ombre che lo
attorniano di solito, e
prende posto accanto a lui. È una ragazza, i capelli
impregnati d’autunno,
cinnamomo spruzzato di rame, che ricci le si attaccano al viso
piacevolmente
ambrato. Lei li discosta con un gesto lento della mano, e gli sorride.
Apre
la borsa nera, e
tira fuori un libro. Il suo libro. Fa per restituirglielo.
Lui
la blocca, con un
cenno tenero, il viso giovane passato da un bagliore di gioia che
rimanda il
sorriso. Uno scambio equo, la mia storia per la tua, il tuo segno di
primavera
per il mio, una reminiscenza alla volta. Lo stesso viale, gli stessi
passi, che
si sono incontrati in momenti diversi, sbiaditi sulla stessa ghiaia e
le stesse
foglie, forse più scure, forse più rovinate dal
vento – lo stesso – l’aria – la
stessa. I tempi, diversi, ma è il giorno che è
uguale, e le coincidenze
cambiano, viaggiano, la confusione rammenta… e il cuore,
ricorda.
Comincia
a piovere. I
due si avvicinano, lui che la tiene al sicuro sotto il suo ombrello blu
acciaio.
Piove
cauto. Poche
gocce alla volta, che s’uniscono fra le fronde
dell’olmo, e poi ricadono in
sorsi e flussi, campanelle che precipitano e risuonano, scontrandosi.
Il mondo
si trasforma in una macchia indistinta, flebile, dalle forme mutate,
grondante
di monotonia. O forse è la vista che s’offusca, e
non riesce a vedere oltre,
oltre questo loro piccolo universo, oltre la vita che ora si spande in
un’isola
di conforto.
Piove
lieve. Il volto
di lei affonda nel suo giubbotto, si poggia sulla spalla ad assaporare
quel
vago sentore di pino. Le lacrime si riversano dal cielo, non hanno
fretta, sono
gradevolmente amene, pure, una doccia fresca che lava via il male.
Piove
lieto. Gli
occhi di lui, cinerei, percorrono il suo volto, con calma, le labbra
posate
sulla sua chioma ondulata. Forse serve un po’ di tempo, un
silenzio in più. Un
giorno, i loro passi si confonderanno, uniti nello stesso destino. Ma,
in
fondo, oggi è un giorno qualunque. Solo un giorno qualunque.
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