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Violenza
Era
tornata a casa con un cerchio alla testa e la nausea.
Era
tornata a casa con la coda tra le gambe.
Aveva trascorso la prima parte della
mattina in ambulatorio con la sua professoressa di psicologia.
Aveva
ascoltato solo una storia e poi era andata via, scusandosi con la docente che le
aveva sorriso mestamente.
Scusandosi
con quella ragazza perché era una vigliacca e non aveva potuto resistere,
quella stanza era diventata improvvisamente troppo piccola.
Adesso
era a casa, davanti alla pagina bianca di Word e si chiedeva come potesse essere
vero.
Diverse volte aveva provato ad
immaginare cosa volesse dire essere picchiata dal proprio compagno; a volte
aveva provato ad immedesimarsi, per fortuna senza mai riuscirci.
Adesso che aveva visto i segni della
violenza si sentiva una stupida perché aveva creduto di poter capire, di poter
aiutare qualcuno.
Stupida ed illusa. Saccente ed idiota.
I segni della violenza su quella
ragazza poco più grande di lei erano impressi a fuoco nella sua mente. Li
vedeva anche adesso che era a casa.
L’occhio pesto, chiuso.
Il labbro spaccato, ricucito con tre
punti di sutura.
Il braccio immobile, ingessato.
Gli ematomi attorno al collo,
seminascosti dal maglione grigio a collo alto.
Anche adesso che era a casa, rivedeva
quella giovane donna tremare per la paura.
Ascoltava la voce di lei che sussurrava
appena: per paura di ricordare si era detta. Per vergogna le diceva la sua
coscienza.
Vergogna.
Come se la colpa fosse sua! Non era lei
a doversi vergognare, no! Era quella bestia che l’aveva picchiata. Che
marcisse in galera per il resto dei suoi giorni!
Come poteva sentirsi una donna preda
della violenza?
Non lo sapeva.
Vuota.
Inutile.
Sporca.
Questi erano i primi aggettivi che ogni
volta le venivano in mente. Poi c’erano tutti gli altri… umiliata, delusa,
ferita… colpevole, codarda. E tanti altri ancora.
Questo era ciò che aveva pensato fino
a quella mattina, ma adesso era diverso. Adesso aveva un unico aggettivo in
testa: morta.
Quella ragazza poco più grande di lei
anche se parlava, anche se respirava, anche se piangeva, anche se dormiva era
morta.
Morta dentro, morta anche fuori.
Anche adesso che era a casa, la
rivedeva seduta sulla sedia che rispondeva alle domande, con pochi monosillabi.
Sai chi ti ha picchiato? Sì.
Sai perché lo ha fatto? No.
Vuoi denunciarlo? Non lo so… no.
Perché? Ho paura.
Se non lo denunci, lui potrebbe tornare
e farti ancora del male. Lo sai questo? Sì, lo so, ma è colpa mia.
Perché dici così? È sempre stata
colpa mia.
Chi te lo ha detto? Lui.
Ti dice così quando ti picchia? Sì,
dice che sono io a farlo innervosire.
Perché, cosa fai? Niente.
E questo è un buon motivo per
picchiarti? Forse…
Come ti senti adesso? Bene.
Sicura? Sì.
Era riuscita a porre solo quelle
domande. Aveva faticato per formularle. Aveva faticato tanto perché non voleva
darle l’impressione di compatirla.
Non voleva neanche suggerirle delle
risposte. Con l’ultima domanda, però, aveva fallito.
Con quell'ultima domanda aveva cercato
di farla ricredere, aveva cercato di suggerirle una risposta: no.
Non si doveva comportare in questa
maniera. No. Lei doveva solo ascoltarla, in silenzio. Il resto sarebbe venuto
dopo.
La professoressa le aveva detto di
fermarsi. Aveva capito che qualcosa, in lei, non andava.
Avevano sospeso la seduta per pochi
minuti.
Giusto il tempo di farla calmare anche
se, alla fine, aveva deciso di mettersi da parte.
Era disgustata, aveva lasciato il suo
posto alla propria insegnante.
Dopo un’ora, la seduta era finita.
Lei era tornata a casa, lasciando lì
quella ragazza.
Ed adesso, dopo quasi cinque ore, era
davanti il pc. Era davanti ad una pagina bianca di Word per scrivere ciò che
sentiva dentro.
La prima parola che aveva scritto era
stata vergogna.
Sì, perché si vergognava
terribilmente; nella sua stupidità si era convinta di sapere, ed in realtà non
sapeva nulla.
Si guardava le mani e le tormentava,
come aveva visto fare quella mattina…
La seconda parola era stata presunzione.
Lei era la presunzione fatta persona
perché aveva creduto di poter fare la morale a chi parlava della violenza sulle
donne… lei, a parità degli altri, non ne sapeva nulla…
Si mordeva il labbro ed il sapore del
sangue, presto, le invase la bocca.
La terza parola era stata perdono.
Perché voleva chiedere il perdono a
tutte quelle donne che soffrivano, voleva chiedere loro perdono perché aveva
creduto di poterle capire, ma non era così.
Tremava per il freddo e per l’orrore
che ricordava.
La quarta parola era stata dolore.
Lo stesso che aveva provato al sentire
quel racconto. Lo stesso che provava adesso, mentre si conficcava le unghie nei
palmi delle mani… questo dolore, però, era meno intenso.
Chiuse gli occhi ed inspirò
profondamente, come a scacciare tutta quell’angoscia.
La quinta parola era stata fine.
Perché lei non era in grado di parlare
della violenza sulle donne.
Un triste sorriso era comparso sulle
sue labbra…
La sesta parola era fortuna.
Perché lei era fortunata, non aveva
mai provato nulla di tutto ciò.
Prese la pagina bianca di Word e
scrisse solo poche parole:
Non si può parlare di violenza
sulle donne se non la si è vissuta.
Non si può parlare di violenza
sulle donne se non la si conosce.
Non si può parlare di violenza
sulle donne se non si è vista una donna picchiata, brutalizzata, distrutta.
Mi rivolgo a tutte voi che scrivete
fanfiction che trattino il tema della violenza sulle donne… non scrivete se
non sapete di cosa parlate.
La violenza non può essere un modo
per unire due persone.
Una donna picchiata non potrà mai
innamorarsi del proprio carnefice.
Una donna brutalizzata non scorderà
mai i segni della sofferenza.
Una donna distrutta non tornerà mai
a vivere serena, non subito.
Se non sapete ciò di cui parlate,
non scrivete perché così non fareste altro che offendere chi ha subito davvero
una violenza.
L’angolo
dell’autrice
C’è poco da dire… è da un po’
che ci penso. In questo sito, purtroppo, stanno dilagando le storie che si
basano sulla violenza, gli stupri e le cose più orribili che possano esistere.
Ci sono autrici (è corretto definirle tali?) che utilizzano questi temi senza
aver mai capito cosa voglia dire essere violentate, picchiate, brutalizzate…
è da un paio di giorni che ho in mente questa storia nata da una esperienza
realmente vissuta. La ragazza che scappa dall’ambulatorio con la coda tra le
gambe sono io. Sono io la vigliacca che ha creduto di sapere quando in realtà
sono stata solo una piccola stupida saccente…
Quello che chiedo è scritto alla fine,
in corsivo, non scrivete se non sapete. Grazie.
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