non mandarmi via.
Le luci nel bullpenn
erano spente già da tempo, le lampade da tavolo creavano
un’atmosfera quasi intima. Tony la osservava di sottecchi.
Lei se ne stava lì, alla sua scrivania, come se
non avesse alcuna intenzione di andare a casa.
L’unica volta che i loro occhi si erano incontrati, il suo
sguardo l’aveva turbato. C’era qualcosa
in lei che gli faceva accapponare la pelle, era come una
sorta d’angoscia … insanabile, mista ad una
profonda tristezza, o … più esattamente
era … desolazione. Non sopportava di vederla così.
Ziva sentiva il suo sguardo su di sé, la osservava di
nascosto, con apprensione. Era così protettivo nei suoi
confronti, che le faceva tenerezza di solito, oggi, invece, la
infastidiva. Perché non andava a casa? Perché non
la lasciava sola? Lo sforzo di mantenere il controllo diventava sempre
più duro, la tensione le irrigidiva il corpo, i muscoli
cominciavano a farle male. Non avrebbe retto ancora per molto, ma se
fosse uscita adesso, lui l’avrebbe seguita. Cercò
di resistere, prima o poi si sarebbe stancato andando via.
Tony continuò a fingere di lavorare, la guardava sempre
più palesemente, aveva capito che non avrebbe lasciato
l’ufficio prima di lui, probabilmente voleva rimanere sola,
ma lui non poteva, non voleva lasciarla sola, non questa sera. La sua
postura era rigida, il suo atteggiamento forzatamente distaccato, e
continuava a sbirciarlo di sottecchi, chiaramente sperando che andasse
via. Lui provava solo il desiderio di alzarsi, attraversare lo spazio
tra le loro scrivanie e abbracciarla.
Ziva era quasi al limite, cominciava a mancarle l’aria, i
pensieri vorticavano, senza mai fermarsi, i ricordi affioravano contro
la sua volontà sotto forma di lampi accecanti, e le immagini
si mischiavano agli odori, ai rumori fissati nella sua memoria.
Cercò di placare il suo stato d’animo, un lieve
tremore si impossessò di lei, ed era quasi prossima a
vomitare quando l’odore del loro sudore rancido, e del suo le
invase la mente come se realmente fosse nelle sue narici, come se non
fosse solo un parto della sua mente.
Il tentativo di dominarsi non faceva che aumentare il tremore, doveva
trovare un posto in cui nascondersi…- vai via…
vai via… vai via, - si trovò a supplicarlo
mentalmente. Ma lui se ne stava lì, imperterrito,
e lei non poteva … lasciarsi andare, sottoporlo a quella
vista.
Cercò di concentrarsi sul lavoro, ma in realtà
quel rapporto sull’ultimo caso era finito ormai da tempo, ed
era esso stesso fonte di enorme disagio, non si decideva ad archiviarlo
per non andare a casa, a letto, da sola, coi suoi demoni, stasera
più agguerriti che mai.
Rilesse velocemente e il suo sguardo inciampò sul
nome di Kaylen Burrrows. Male. Cercò un altro
punto su cui focalizzare l’attenzione e si fermò
sui nomi di Tyler e Randall Hammond. Peggio. Altro guizzo veloce per
finire su frammenti sempre più inquietanti del file,
l’aggressione dei due uomini alla ragazza, lo stupro, la
testimonianza dei suoi compagni… parole semplici che
diventavano scosse elettriche, che la scuotevano nel profondo e
contribuivano a spalancare le porte ai suoi ricordi feroci.
Frasi furiose in una lingua straniera esplosero come spari nella sua
testa, e ancora una volta il loro odore, e il cigolio di porte che si
aprivano nel buio… e la rabbia cominciò a montare
dentro di lei, e la paura, che in fondo, per quanto Tony
l’avesse salvata, lei non sarebbe mai stata libera
da Saleem. Una parte di lei era rimasta laggiù, prigioniera
in quella cella satura del suo odore animale, di quello dolciastro del
suo sangue… del suo dolore.
Una boccata di acido le risalì in gola, ed un altro
flashback le esplose nella mente, e un dolore acuto le
squarciò il basso ventre, mentre parole ingiuriose
risuonarono nella sua testa, insieme alla sensazione di mani sudice che
la toccavano.
Si alzò di scatto. Tony si alzò di riflesso.
“Vai a casa?” le chiese.
“Bagno.” Fu l’unica cosa che lei
riuscì a rispondere, prima di precipitarsi via.
Lui rimase in piedi a fissare il punto dove lei era fino a due secondi
prima. Stava lì, immobile, senza sapere cosa fare.
Voleva seguirla, ma non sapeva se era il caso.
Aveva osservato ogni mutamento nella sua espressione fino al
pallore mortale che aveva invaso il suo viso.
Che giornata maledettamente pesante era stata, e lei non si era
risparmiata nulla, nemmeno di rispondere a quell’imbecille
del pivello quando le aveva chiesto cosa avrebbe fatto lei, al posto
della burrows, se fosse stata stuprata.
La sua risposta ferma, lo aveva riempito d’orgoglio,
soprattutto perché nessuno era capace, come lui, di leggere
i suoi occhi, il suo viso … il linguaggio del suo corpo e
quindi di sapere quanto le costasse confrontarsi con quel caso
imponendosi il necessario distacco.
Uno strano miscuglio di orgoglio, dispiacere e tenerezza lo
assalì quando richiamò alla mente
l’espressione di lei nella stanza degli interrogatori, mentre
parlava con la ragazza, cercando di convincerla a collaborare. Lo
guardava, ogni tanto, con la coda dell’occhio,
perché avrebbe voluto parlare più apertamente ma
era frenata dalla sua presenza.
Quello sguardo… sfuggente … lo tormentava, gli
scavava l’anima, lo faceva sentire impotente … e
gli suscitava un bisogno impellente di trovare i cadaveri di Saleem e
dei suoi uomini e crivellarli di colpi fino a disintegrarli. Ma sarebbe
stato di un qualche sollievo solo per sé …
Realizzava, lentamente, che aveva portato via Ziva dalla Somalia, ma
non avrebbe mai portato via la Somalia da Ziva. Non ci sarebbe mai
riuscito e lei, comunque, non lo avrebbe nemmeno lasciato provare.
Voleva seguirla, correrle dietro in bagno come altre volte aveva fatto,
per vedere come stava.
Rimase lì, fermo, aspettando di vederla tornare, con un nodo
in gola che diventava sempre più fastidioso. Cinque minuti,
le dava cinque minuti e poi l’avrebbe raggiunta.
Ziva era riuscita ad arrivare in bagno appena in tempo, poi aveva
vomitato l’anima. Era in piedi davanti al lavello, si
sciacquò il viso, mentre pensava a una scusa per Tony .
Tentava ancora di placare il tremore, quando sentì bussare
gentilmente alla porta. “Ziva? Va … tutto
bene?”
La voce di lui era bassa, ed esitante, e la sollecitudine che
traspariva dal suo tono le fece salire le lacrime agli occhi. La sua
voce era calma e misurata, quando gli rispose. “Tutto bene
Tony. Quel tramezzino al tonno deve avermi fatto male.” La
bugia non era necessaria, lo sapevano entrambi, non poteva rimettere un
tramezzino che aveva buttato senza toccarlo, ma non intendeva dare
conferme a nessuno dei suoi sospetti.
Quando bussò per la seconda volta il suo tocco fu meno
gentile. “Ziva, ti prego apri.” Il tono
d’urgenza nella sua voce la spinse ad aprire, e se lo
trovò di fronte, e il suo sguardo era così
… caldo, così preoccupato, che ancora una volta
le salirono le lacrime agli occhi.
“Ziva …” c’era un mondo in
quel silenzio sospeso dopo il suo nome, e lei evitò di
guardarlo perché lui non le leggesse dentro,
perché non sbirciasse in quell’inferno
che era la sua anima rimanendone contaminato. “Ziva
…” questa volta fu quasi una preghiera
… la supplica … di lasciarlo entrare.
Lei lo guardò negli occhi, pensando intensamente a quanto,
di buono, provava per lui , gli accarezzò una guancia, e si
allontanò.
La seguì con lo sguardo mentre andava alla sua scrivania e
raccoglieva le proprie cose, e prendendo al volo il suo zaino,
già pronto, la tallonò all’ascensore
per uscire con lei.
Ziva non vedeva l’ora di raggiungere la sua auto per
rifugiarsi da qualche parte e lasciare libro sfogo alla sua
tensione.
Tony non aveva alcuna intenzione di lasciarla andare. La
seguì in ascensore in silenzio, cercava affannosamente
qualcosa da dire prima che arrivassero al garage. “Ci vieni
con me al bar per un … bicchiere di …
qualcosa?...”
Lei lo guardò interrogativamente, come se non lo avesse
sentito, “Allora, ci vieni? ... al bar?, con me?”
“No Tony sono stanca, andrò a casa a
riposare.”
– Maledizione!- Si disse lui. Maledizione a lei e
al suo carattere, e stramaledizione a lui, incapace di trovare un modo
per convincerla ad accettare il suo aiuto. Perché
doveva essere così dannatamente orgogliosa, indipendente.
Sembrava così piccola in quel momento, così
bisognosa di conforto, ma di certo se lui avesse teso una
mano gliela avrebbe staccata a morsi.
E… lui, voleva tenderla quella mano, sentiva un
bisogno quasi disperato di accarezzarle il viso, di darle un bacio
sulla guancia, di tenerle la mano dolcemente, fino ad essere quasi
sopraffatto dalla tentazione di stringersela al petto, a costo di
rimetterci un arto.
Riuscì solo a sfiorarle un braccio in un tocco fugace, nel
momento in cui si allontanò dopo averlo salutato.
La guardò salire in auto senza riuscire a far niente per
trattenerla, resistendo alla tentazione di seguirla fino a casa.
Quando vide sparire i fanalini della mini cooper dalla sua vista,
sconfitto salì nella sua auto e se ne andò a casa
a dormire.
- Ziva era legata per i polsi ad un gancio del soffitto, la
testa ciondolava in avanti, i lunghi capelli incrostati di sporco
polvere e sangue le spiovevano come una cortina sul viso.
Qualche lieve movimento del capo lasciava intuire che era
ancora viva.
Un uomo si avvicinò a lei e le strappò
la camicia di dosso, rivelando il suo torso nudo devastato dalle
ferite. C’erano piccoli tagli sul suo addome e tra le coste,
e aveva una ferita proprio dove un tempo poggiava la sua stella di
David, quel punto sotto l’incavo della sua gola che lui amava
tanto …
Poi quell’uomo prese un coltello accostandosi a lei,
e cominciò ad incidere un solco profondo lungo lo sterno, e
a quel punto Ziva sollevò la testa e contrasse la mascella,
e i muscoli delle braccia, per impedirsi di urlare.
Un gemito acuto le scaturì dalla gola, quel gemito
lo scosse nel profondo, più della vista del sangue, quasi
più della vista dei loro corpi sudici che abusavano di lei,
e delle frasi ingiuriose che le rivolgevano in una lingua a lui
sconosciuta, perché quel gemito era
l’accettazione di quel supplizio, che lei aveva sopportato
senza lasciarne trapelare traccia, se non nei silenzi.
Durante tutto il tempo lui rimase lì, legato a
quella sedia, incapace di aiutarla, incapace persino di gridare, di
supplicarli di fermarsi, di minacciarli dei peggiori tormenti
… perché la sua gola era chiusa, stretta in un
nodo che gli provocava un dolore lancinante, e lui, che avrebbe voluto
essere a migliaia di chilometri di distanza, a quel punto, che avrebbe
voluto non sapere e non immaginare nulla di tutto ciò che
lei aveva subito , era, invece, lì, incapace di distogliere
lo sguardo, senza, in realtà, sapere se era ancora legato a
quella sedia, o era semplicemente paralizzato dall’orrore.
Poi, all’improvviso, lei era a terra, immobile, i
capelli coprivano ancora la sua faccia e lui non capiva se era viva, ed
il bisogno di saperlo lo costrinse a muoversi … si
chinò su di lei, sul suo petto fermo, stringendo la sua mano
fredda, le scostò i capelli dal viso, chiamandola per
svegliarla, cercando il suo sguardo, trovando, invece, i suoi occhi
spenti, muti … Il nodo che aveva in gola minacciò
di soffocarlo. Voleva scappare lontano ma di nuovo non poteva muoversi
…
Con la rabbia e l’odio e il dolore che gli montavano
dentro urlò, e urlò, e urlò, ancora e
ancora. -
Tony fu svegliato dalle sue stesse urla. Era in un bagno di sudore, e
la sua gola bruciava, così come i suoi occhi.
Era un incubo, solo un incubo, ma il suo respiro impiegò
diversi minuti prima di tornare regolare e il suo battito cardiaco
risuonava ancora veloce, martellante, nelle sue orecchie. Il
senso di gelo non lo abbandonava.
Era morta, lei era morta, non era riuscito a salvarla. Sentiva il viso
bagnato, sollevò la mano a toccare uno zigomo, erano
lacrime, che scendevano irrefrenabili dai suoi occhi.
- È viva – si disse, recuperando il senso della
realtà, - l’hai lasciata appena un paio
d’ore fa. – L’angoscia non si placava, e
Tony si alzò per rinfrescarsi il viso.
Le scene appena vissute, continuavano a ripresentarsi nella sua mente
come un film che non riusciva a stoppare. Si passò una mano
sulle guance ispide di barba, come i visi degli uomini che la
martoriavano …
Si tolse la maglia e con rabbia la scaraventò nel cesto dei
panni sporchi, dopo averla usata per asciugarsi il sudore dal torso.
Passò le mani tra i capelli con nervosismo e si diresse nel
soggiorno buio.
Alla luce che filtrava dal corridoio si riempì un bicchiere
di whisky, la sua mano tremava mentre versava il liquido ambrato. Ne
bevve avidamente un sorso, e tossì appena il liquore scese
giù per la sua gola dolorante, bruciando.
Tornato nella stanza da letto guardò la sveglia, le due meno
dieci. Non poteva impedirsi di pensare a lei … a
lei che quel giorno faceva la forte, come sempre, a lei che parlava da
cinica, in perfetto stile Mossad, a lei che, si vedeva, avrebbe
volentieri sparato a quei due bastardi degli Hammond. A lei
… che ora di certo si rigirava nel letto, da sola
… a lei con lo sguardo incupito dal dolore …
Gli mancò il respiro, quando si rese conto che non riusciva
a richiamare alla mente il suo sguardo, quegli occhi di brace
così intensi … l’unica cosa che
riusciva a vedere erano quei globi oculari senza vita.
L’angoscia si impadronì ancora di lui, respirare
divenne un’impresa ardua, mentre pensava che se gli incubi di
lei erano brutti la metà del suo … Poi
si diede dello stupido, perché probabilmente gli incubi di
lei erano brutti almeno il doppio del suo.
Con l’ansia che gli attanagliava lo stomaco si
fiondò nella doccia. venti minuti dopo scendeva
dall’auto davanti al suo portone.
- Ziva era rinchiusa nella sua cella, seduta per terra, le
ginocchia tirate al petto strette tra le braccia, i polsi, legati,
escoriati per i trascorsi tentativi di liberarsi dai lacci.
Ora ferma, immobile, aspettava di morire, non importava quanto
tempo ancora mancasse … In
realtà lei si sentiva già morta,
l’unica cosa che la obbligava a prendere coscienza di essere
viva era il dolore che le infliggevano.
Ormai non le facevano più nemmeno domande. Da quando
Saleem, per piegarla, l’aveva ceduta ai suoi uomini,
la buttavano in una stanza e la usavano a loro piacimento. Su di lei
sfogavano i loro istinti animaleschi, la tensione di una guerra che
poteva vederli morti già l’indomani,
l’alienazione di una vita senza via d’uscita.
Lei era il loro nemico, la schernivano, la torturavano, la
prendevano come e quando volevano, senza curarsi della
brutalità dei loro modi… e lei, non reagiva, dopo
i primi giorni in cui si era difesa come una furia, subiva in silenzio
qualsiasi tortura, senza dar loro la soddisfazione di un urlo, una
supplica … chiudeva gli occhi e cercava
di rifugiarsi nel suo posto segreto, tornando alla
realtà solo quando il dolore diventava troppo forte.
Per avere una sua reazione avrebbero finito con
l’ucciderla, ne era certa. Lei aspettava
quel momento, come una liberazione.
Saleem tornava ad interrogarla ogni tanto, le chiedeva se si
era decisa a parlare, dopodiché rideva della sua espressione
vuota e del suo mutismo, scherniva il suo senso di lealtà
verso chi non si curava di cercarla … e se ne andava
lasciandola ancora a loro.
Lei sentiva le voci agitate, le giungevano da
lontano. Ma lei non era lì. Non era con loro. Era
in un ascensore, e aspettava … le persone che ogni giorno
salivano e scendevano da quell’ascensore, più
volte al giorno.
Le aspettava per spiare le loro vite.
Quello era il suo posto segreto, il suo rifugio. Lì
i suoi aguzzini non potevano trovarla.
Ora nella sua cella buia, aspettava che venissero a prenderla.
L’odore del suo stesso sangue le dava la nausea, si
sentiva talmente sporca, che se fosse rimasta viva, di certo non
sarebbe mai riuscita a rimuovere tutto quel sudiciume da se stessa. Ma
lei non voleva rimanere viva. Non poteva. Non dopo tutto questo.
Il dolore era come un ronzio di sottofondo quando cerchi di
guardare un film che ti piace, fastidioso. Le impediva di tornare nel
suo ascensore, era quasi l’ora, non poteva mancare. Con uno
sforzo di concentrazione si ritrovò tra le familiari pareti
grigie, era il suo momento, l’unico momento delle sue
giornate per cui valesse ancora la pena vivere.
Era lì ferma nell’angolo, in trepidante
attesa, temeva che venissero a prenderla … distraendola
… e poi … finalmente, il dlin delle porte, come
musica per la sua anima.
Le porte si aprono, e lei se lo trova davanti, nel suo
completo grigio preferito. Sente l’odore della sua colonia,
della sua pelle, e di muffin al cioccolato. Ed ha voglia di toccarlo,
ma non osa, sporca com’è.
Si accontenta di guardarlo negli occhi, si perde nel mare
verde del suo sguardo che la fissa senza vederla, perché lei
è solo un fantasma, un’anima persa in cerca di un
posto in cui trovarsi.
Solo lì, in quell’ascensore ritrova la
sua pace, posando lo sguardo in quello sguardo, accarezzando
con gli occhi quelle labbra, felice di saperlo al sicuro, da lei, dal
suo inferno privato, dalla ferocia di Saleem… fa appena in
tempo a vedere uno scorcio dei capelli grigi di gibbs, prima che uno
strattone violento la riporti indietro nella sua prigione.
Un senso di freddo improvviso le
provocò brividi incontenibili. Gli animali che erano i suoi
carcerieri, la deridevano, la chiamavano con gli epiteti più
umilianti, ma lei non li ascoltava, ancora persa nel ricordo del suo
sguardo, nella rasserenante consapevolezza che lui era al sicuro.
Le coprirono la testa con un sacco di iuta, il tessuto era
ruvido contro la sua pelle. La condussero senza cerimonie nella stanza
delle torture, e lei era pronta a subire il suo supplizio, la punizione
che le spettava per essere quello che era.
Sapeva che le avrebbero scoperto la testa, e
l’avrebbero scaraventata a terra, aspettava di sentire il
pavimento ruvido contro il suo viso, ma con sua grande sorpresa venne
messa giù su una sedia, - è giunta
l’ora – pensò.
Pronta a sentire la lama attraverso la gola, si
rifugiò nel ricordo dei suoi occhi, richiamò alla
mente i loro visi, tutti i loro visi. Aspettò che le
togliessero il sacco, non aveva intenzione di distogliere lo sguardo,
non gli avrebbe dato la soddisfazione di chiamarla codarda, e quando
sentì il tessuto scivolare via dal suo viso, la
voce di Saleem, beffarda, la colpì come un pugno allo
stomaco, “ho una sorpresa per te, piccola cagna.”
Lo shock esplose nella sua mente come una bomba. Lui era
lì, di fronte a lei, sporco e insanguinato come lei
… e ziva si sentì morire. –
Perché? Perché mai era venuto. -
Stava lì, immobile, legato a quella sedia, e la
guardava, come se non la vedesse. Perché era venuto
a cercarla … quando lei lo aveva lasciato indietro tornando
a quella metà della sua vita in cui non c’era
posto per lui, quando lei aveva scelto di essere fedele a quella parte
di sè che non lo comprendeva.
Eppure lui era lì e lei non
poteva salvarlo e … ironia della sorte, si
sacrificava per qualcuno che non esisteva più
perché lei, almeno quella che lui conosceva, era
già morta.
Il tempo si fermò, tra le loro due sedie, come una
bolla sospesa a mezz’aria, lui non parlava, non si muoveva.
Una frase lontana giunse come un’eco alla coscienza
di Ziva … - Non posso vivere senza di te, credo. - Quella
frase che pacificò la sua anima, grata di essere ancora
amata, benché immeritevole di esserlo, quella frase la
costrinse a tornare viva
– Ziva, puoi batterti ? – No. Non poteva,
e con una singola lacrima si arrese agli eventi. E
sentì, improvviso, tutto il dolore di quei mesi di torture,
l’orrore della violenza subita ogni giorno.
No. Non poteva combattere, ma ora non poteva nemmeno
arrendersi perché lui non poteva vivere senza di lei.
Da qualche parte nella sua mente, deflagrò un colpo
d’arma da fuoco, Ziva attese di vedere Saleem, crollare a
terra, ma lui era ancora lì, accanto a lei, e le tirava i
capelli torcendole il collo all’indietro, impedendole la
vista di lui.
Era confusa, qualcosa non stava andando come doveva
… Sentì la lama inciderle la pelle tenera del
collo, aveva aspettato tanto questo momento ma ora lo accoglieva con
disperazione.
Tony non voleva che lei morisse, e quindi no, non poteva
accadere, non poteva causargli altro dolore.
Ziva era impotente, l’unica cosa che potesse fare
era desiderare di non morire, pregare di non morire, per lui.
Sentì la lama scivolare affilata attraverso la
pelle, ma non provava dolore. Aspettava di vedere la fine, in qualche
modo sapeva che Saleem sarebbe morto, non aveva idea del come,
né del perché, sapeva solo che entro qualche
secondo sarebbe scivolato a terra e finalmente lei avrebbe potuto
guardare ancora Tony negli occhi, dirgli che stava bene …
Ma ancora quella sensazione … di sbagliato.
D’improvviso il musulmano le abbassò la
testa in avanti per forzarla a guardare il pavimento …
Sentì il sangue scorrerle lungo il collo, dove un
tempo avvertiva, lieve, il contatto rassicurante con la sua stella di
David.
Fissò la forma scura sul pavimento davanti a
sé, era un uomo, ma lei non capì.
La sedia su cui lui sedeva non c’era più.
Era scomparsa in quel modo strano in cui si evolvono i sogni. Al suo
posto, il corpo disteso, immobile.
Non aveva bisogno di guardarlo, ora, per capire. Le
mancò il fiato, annaspò, in preda al panico, non
era così che doveva andare, doveva esserci Saleem a terra,
morto, non lui, non Tony, lei lo sapeva, lui e McGee
l’avrebbero riportata a casa …
Distolse lo sguardo per non vedere quello che non poteva
sopportare … non esisteva più niente al mondo.
Ormai niente aveva più senso e lei voleva solo morire, ora,
ancora una volta, non con rassegnazione, ma con rabbia con un desiderio
feroce di impalare la sua gola su quel coltello… e quando
Saleem la strattonò per costringerla a guardare il corpo
senza vita, Ziva si lasciò sfuggire un grido soffocato. -
Tony chiamò l’ascensore ma non ebbe la pazienza di
aspettare che arrivasse. Salì i gradini a due a due, e
arrivò al terzo piano con il fiatone, mentre velocemente si
avviava alla porta. sentì un urlo soffocato provenire
dall’appartamento di lei.
Cominciò a bussare chiamandola, “ Ziva! Ziva, sono
io, apri.” Nessuna risposta. “Ziva?! Ziva fammi
entrare.” Il tono di voce quasi isterico, Tony
suonò il campanello quattro, cinque volte di seguito per poi
tornare a bussare forsennatamente. Sentì la sua voce,
all’interno pronunciare il suo nome. “Ziva. Ziva,
sono qui. Apri cristo santo!”
Stanco di aspettare e con il cuore in gola aprì la
porta con un calcio, precipitandosi in casa.
La trovò per terra in un angolo della camera da letto,
raggomitolata su se stessa, il viso devastato dalle lacrime.
“Ziva …” si inginocchiò di
fronte a lei, tese una mano a volerla toccare, a rassicurarla.
Lei si ritrasse di scatto. Lo guardava fisso negli occhi, ma sembrava
non vederlo, mormorava qualcosa tra le lacrime, e Tony ad un
tratto riuscì a riconoscere il suo nome tra le parole
smozzicate.
“Ziva.” La chiamò ancora.
“Ziva, sono io, sono qui.” Qualcosa
sembrò filtrare nella nebbia che avvolgeva la sua mente, e
finalmente sembrò vederlo. “Ziva, eccomi, sono
io.”
Lei lo guardò riconoscendolo, finalmente, ed un sorriso le
distese per qualche secondo le labbra tese dall’angoscia.
“Tony …” la sua mano salì a
toccargli la guancia, come volesse assicurarsi che si trattava di lui,
veramente. Lo accarezzò, indugiò qualche istante
sulla linea della mascella.
Lui si beò del suo tocco esitante, voleva abbracciarla,
consolarla, proteggerla, stringerla. Si trattenne, nonostante fosse un
bisogno quasi doloroso. Si accontentò di perdersi nel suo
sguardo offuscato, in un tocco esitante, delle nocche sul viso
… spostandole una ciocca di capelli.
Lentamente lei recuperò la consapevolezza, e lui vide
sparire a poco a poco lo smarrimento dai suoi occhi, sostituito via via
dal controllo. Ancora una volta si allontanava da lui…
sfuggiva alla sua portata.
Le cinse il collo con la mano, carezzandole la guancia col pollice, lei
chiuse gli occhi tremando, gli afferrò il polso, come a
volerlo allontanare, lui rispose al debole tentativo cingendole il
collo anche con l’altra mano.
Rimasero così per alcuni interminabili secondi…
lei rannicchiata a terra nell’angolo accanto al letto, lui
inginocchiato di fronte a lei, scrutando il suo viso, entrambi col
respiro irregolare, con lo sguardo incupito dal dolore.
Quando Ziva abbassò gli occhi per sfuggire ai suoi, lui si
chinò, baciandole la fronte. Lei si irrigidì ed
intensificò la stretta sul polso.
No, non glielo avrebbe permesso, non questa volta.
“Ziva… ti prego… non mandarmi via. So
che puoi farcela, anche da sola, so che ce la farai… ma ti
prego, lasciami… permettimi… di starti
vicino… sono io che ne ho bisogno. Ho avuto così
tanta paura."
La guardò ancora per qualche secondo, lo sguardo esitante, e
senza darle modo di rifiutare la tirò a sé,
stringendola delicatamente.
Sentire il suo viso contro il proprio petto lo fece sentire
… forte. Lei era lì, con lui. Era viva, e tanto
bastava per ora. Sedette a terra, le spalle poggiate conto il bordo del
letto, se la tirò sulle gambe, stringendola più
forte.
Una lacrima gli scivolò sulla guancia, le
depositò un bacio sulla sommità della testa. Il
suo respiro che si regolarizzava era il suono più bello che
avesse mai sentito.
Con un sospiro Ziva si arrese e si abbandonò contro il petto
di Tony. Esitante, gli fece scivolare un braccio intorno alla vita,
alzò l’altra mano al suo petto aggrappandosi alla
stoffa della camicia, si rilassò lasciando andare i
pensieri, i ricordi… Una lacrima le scivolò sulla
guancia, lui era lì, con lei, era vivo, e tanto bastava.
Si addormentò cullata dal battito del suo cuore, si sentiva
al sicuro e per quell’ultimo istante, prima di chiudere gli
occhi su quel giorno infernale, pensò che quello…
quello era il posto in cui ritrovarsi.
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