Bene,
signori.
Vi
dico subito che tengo molto a questa storia, ma non aspettatevi
grandi slanci amorosi o romanticherie del genere. Quello che
narrerò
sarà l'amore... a distanza.
Sì, perché mi sono sempre
chiesta che cosa abbia fatto, cosa abbia provato e quante volte si
sia abbattuta o meno la nostra Sana Kurata dopo aver visto il suo
Akito partire.
Voi non ve lo siete mai chiesto?
Certo,
nel manga si vedono qua e là cosa hanno fatto i due in quei
tre anni
ma il tutto è narrato molto velocemente e, per un'amante
delle
introspezioni come me, questo non è abbastanza. Quindi, la
domanda
che mi sono posta è stata: come si è sentita Sana
dalla partenza di
Akito in poi? <3.
Or
bene, signori e signore, questa fan fiction comprenderà un
periodo
dell'adolescenza di Sana compreso tra i tredici ed i sedici anni (se
non vado errata, i due sono stati separati per ben tre anni –
e
mica cavoletti, eh ò.ò).
Ringrazio
in anticipo chi mi seguirà, vi dico subito che questa
sarà una long
fic non più lunga di quindici capitoli.
P.S.:
risponderò alle vostre recensioni tramite il nuovo servizio
di EFP
<3.
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È
già ieri,
è quasi domani.
I.
«Se
lo ripeto, funziona davvero»
Mi
guardo attorno disorientata, sembra che tu sia partito veramente;
certo, lo so che la scelta è stata necessaria, capisco anche
le
ragioni che ti hanno spinto a prenderla ed io stessa ti ho chiesto di
andare. È che una piccola speranza la covo ancora nel
profondo –
magari potresti decidere di scendere dall'aeroporto
e gettarti
con uno slancio poco coordinato tra le mie braccia, proprio come in
un film americano –, ma questa è solo la fantasia
di una ragazzina
che ha smarrito per un attimo la ragione.
Mi
precipito verso le immense vetrate dalle quali solitamente gli aerei
decollano; i mormorii degli altri li lascio indietro, in questo
momento ho bisogno di dirti arrivederci –
perché sarà un arrivederci, vero? –,
non ci disturberà nessuno.
E
così mi trovo con le mani incollate ai vetri, a sperare che
anche tu
faccia la stessa cosa da lontano; non voglio piangere, ti ho promesso
che non l'avrei fatto.
Il
motto era “sorridi”,
giusto?
Il
volo per Los Angeles è in partenza.
Una
voce fastidiosa mi entra nei timpani, sembra quasi l'eco della
coscienza. Anche da questa distanza posso udire il rumore delle
eliche, i segnali acustici, una seconda voce fastidiosa che ripete lo
stesso messaggio – sta succedendo veramente, ripeto a me
stessa –;
chiudo gli occhi, poi tutto accade in un attimo. Le mie mani, quasi
per empatia, si staccano dal vetro e l'aereo si libra su,
più in
alto degli uccelli, più elevato di qualsiasi montagna...
Lassù, per
arrivare in un altro mondo, per incontrare un altro destino.
E
quando apro gli occhi quello strano gioco di luci, segnali e suoni
è
terminato.
È
terminato, sì.
Le
piante dei piedi rimangono incollate al pavimento, è solo la
parte
superiore del busto a muoversi; non credo che saresti fiero di me:
riaprendo gli occhi mi sono accorta che qualcosa di salato mi ha
bagnato le labbra.
Sospiro,
tra poco troverò il coraggio di voltarmi e sorridere
– ho bisogno
ancora di un attimo di panico, giusto il tempo che
Rei e gli
altri mi trovino.
La
sera prima eravamo racchiusi in uno spicchio lunare –
scopriva solo
le nostre figure, il resto era nascosto nell'ombra –, era
superfluo parlare. Sapevamo che semmai avessimo tirato in ballo
l'argomento Los Angeles uno dei due ne sarebbe
uscito ferito
e, a giudicare dalle recenti vicissitudini, io sarei stata la
più
debole.
Ho
tenuto la tua mano nella mia, tutto il tempo necessario. Avevo
l'impressione che mi sarebbe mancato quel calore, sentivo che dovevo
guardarti bene, rimanere ancora paralizzata da quegli occhi color
miele, perdere il respiro se mi avvicinavo più del dovuto
e...
«Non
pensare.»
Mi
sussurrasti, con un fil di voce – per quale motivo sai sempre
cosa
penso, eh?
«Questa
è la tua politica, Hayama?»
Ridacchiai,
voltandomi a guardare l'ultimo quarto di luna.
«E'
insistente questa luna.»
Dissi
alla fine, sospirando un po' affranta.
«Mai
quanto te.»
Mi
voltai verso di lui, certo che sapeva davvero come spezzare
l'atmosfera. Dopotutto, non mi aspettavo una frase da romanzo rosa
ma... niente, alla fine l'avevo già
perdonato. Quello era il
suo modo di farmi sentire speciale, quello era l'Akito Hayama di cui
mi ero follemente innamorata.
Alla
fine, restammo faccia a faccia – ad una spanna dal volto
– per
interminabili minuti, il tempo però non mi sembrò
mai passare così
velocemente. Era il tempo che avrei voluto allungare, fare in modo
che tutto fosse rimandato, escogitare una mossa oppure una strategia
per ricordarci ancora, per rivedere ogni tratto e inscatolarlo nella
memoria.
Poi
qualcosa ci destò, forse una lucciola oppure la presa di
coscienza
del fatto che era davvero tardi e l'indomani sarebbe stata una
giornata lunga.
Mia
madre ci chiamò, lo fece con un fil di voce
poiché evidentemente
aveva intuito l'atmosfera tesa che si era creata – non
stavamo
respirando anidride carbonica bensì parole, sospiri, attimi
di
smarrimento.
Fu
un attimo: le mani di Akito lasciarono le mie, così un pezzo
di me
se ne andò insieme a lui. Mi lanciai contro di lui quasi
istintivamente, poi ricordai che quello stesso pezzo lui ce l'aveva
indosso – sui vestiti, sulla pelle e... nel
cuore, forse?
Ritornò
per un attimo sui suoi passi, sillabò velocemente qualcosa
di
incomprensibile e poi mi avvicinò a lui; fu un gesto dettato
dall'istinto, i miei capelli si erano ritrovati sul suo petto senza
che me ne rendessi conto.
«Ricordati
che... Los Angeles è vicina. Vicina... vicina.»
Mi
costrinsi a non piangere, strizzai gli occhi con tutta la forza che
possedevo. L'aveva detto in modo incerto, trapelava un po' di
insicurezza nella sua voce. Più ripeteva quella supplica
sottovoce,
tanto più sembrava crederci, così decisi di
adottare quel metodo
anch'io.
E
ci ritrovammo a parlare sottovoce, per infinitesimali secondi, forse
quella era l'unica parola sensata da dire in quel momento.
«Se
lo ripeto, funziona davvero.»
Lascio
la debolezza da parte, stringo le nocche con vigore e dirigo lo
sguardo verso l'alto.
Dobbiamo
trovare sempre un punto d'appoggio ma, allo stesso tempo, imparare a
guardare oltre; detto così non sembra tanto difficile no,
Hayama?
«Sana,
che fine avevi fatto? Ti abbiamo cercato ovunque!»
Borbotta
Rei spazientito, sempre troppo premuroso. Fuka e gli altri si
avvicinano a me, chiedono se tutto va bene, anche loro un po'
ansiosi.
«Che
ne dite di mangiare? Il mio stomaco sta brontolando...»
«Sempre
la solita, Sana!»
Fuka
mi rimbecca, poi mi prende sottobraccio.
Ora
ci separa solo qualche miglia di troppo, Hayama... Cerco ancora di
non pensarci ma quel giorno, al ristorante, ho ordinato un hamburger
– volevo sentirti vicino a me... se lo
ripeto, funziona
davvero.
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