Ciò
che trascende un nome ~
prompt: #100, joy
doubled – sorrow halved
Judy aveva pianto. Aveva cercato in ogni modo di non darlo a
vedere: aveva riso alle congratulazioni farfallone dei McBride,
aveva conversato amabilmente con Julia, aveva distribuito saluti e baci e
abbracci alle compagne venute a complimentarsi e aveva sorriso dolcemente a lui, quando per un istante appena lo
aveva intravisto nel pubblico. Ma aveva
pianto; Jervis lo sapeva. Sapeva fin dall’inizio
che avrebbe trovato quel dolore nei suoi occhi, proprio nel giorno che avrebbe
dovuto essere il più felice della sua vita.
E
saperlo non gli aveva impedito di infliggerle quel dolore. Forse lei lo avrebbe
odiato, se avesse saputo.
Più
tempo. Doveva aspettare più tempo.
Era quasi
sera sul Fergussen; il campus s’era svuotato di
ogni traccia di festeggiamento. Le studentesse erano rientrate nei loro
alloggi, già pronte a dimenticare tutto e a correre in viso alla vita
delle donne adulte che erano appena diventate. Ma c’era ancora una
giovane donna seduta nel verde del campus, e anche ora Jervis
sapeva che l’avrebbe trovata
lì.
«Come
mai così triste, dottoressa Abbott?»
Judy
sussultò. Alzò lo sguardo su di lui. Arrossì.
«Mi
perdoni, signorino Jervie, non l’ho sentita
arrivare.»
Sedette
accanto a lei, con naturalezza, proprio come erano soliti fare sulle colline a Lock Willow. Le sorrise, quasi
meravigliandosi di quanto fosse diverso,
detto da lei, quel ‘signorino Jervie’ che
nella bocca zuccherosa della signora Semple non
riusciva a suonare così dolce.
«Non
occorre che tu sia tanto formale con me, lo sai. Dimmi cosa c’è.»
Judy
chinò il viso. I lunghi capelli sciolti le scivolarono sulla tempia,
nascondendogli allo sguardo i suoi occhi incupiti – grazie al cielo: non era sicuro di poterne ancora sopportare la
vista.
Tormentandosi
le mani in grembo, la voce ridotta a un sussurro, lei buttò fuori quel
segreto che prima le aveva fatto scegliere un solo fascio di fiori [non quelli
di Jervis Pendleton:
solo quelli di Papà Gambalunga]
e poi le aveva ucciso dentro ogni speranza.
«Non
è venuto. Era la mia festa di laurea, e lui non è venuto.»
Jervis lasciò passare qualche istante. Sperò che
Judy, nella sua innocenza di piccola ingenua sognatrice, pensasse che le stesse
dando il tempo di riprendersi. Odiava sapere che la realtà era ben
diversa: era lui ad aver bisogno di un
momento per non rivelarle subito tutto, ora e subito, prendendole il viso tra
le mani e guardandola finalmente
negli occhi e dicendole quelle tre dannate parole – lui sono io, Judy, sono io, sono sempre stato io – che no, no, non poteva ancora
dirle, non ancora. Se lo avesse fatto adesso, l’avrebbe persa per sempre.
Non
avrebbe mai immaginato, quando la signorina Pritchard
aveva letto quel tema scolastico ai Consiglieri del John Grier,
che la ragazzina che lo aveva composto sarebbe diventata una parte così
indispensabile del suo cuore. Non avrebbe mai immaginato che le parole di Jerusha Abbott si sarebbero fatte strada attraverso la
vuotezza della sua facciata e sarebbero permeate in profondità,
lì dove c’era Jervis: non il Pendleton, non il consigliere, non il filantropo, neppure
il ‘signorino Jervie’.
Ma
era accaduto. E da quando la curiosità lo aveva spinto a venire ad
incontrare quella ragazza, non poteva
più permettersi di rischiare di perderla.
Recuperò
l’ardire necessario a prenderle delicatamente una mano – quella
mano che gli aveva scritto fiumi di lettere che lei non aveva mai saputo finissero
regolarmente nelle sue, a farlo ridere, a farlo riflettere, a farlo emozionare –
e le parlò a bassa voce, senza forzarla ad alzare lo sguardo.
«Non
odiarlo per questo. Potrebbe avere mille ragioni per non essersi presentato. Non
parliamo di lui; vuoi?»
Le
labbra di lei si tesero in un sorriso amaro. «Non parlo mai di lui. Non so abbastanza di lui da
poterne parlare con qualcuno.»
Jervis sospirò. Era mai possibile arrivare al punto
di essere gelosi di se stessi?
Judy
levò finalmente il viso, e lui poté vedere che, malgrado quell’espressione
di accettazione, nei suoi occhi erano comparse delle lacrime nuove che non c’era
più bisogno di soffocare. Si maledisse mille volte, per il suo non
poterle mandar via [non ancora non ancora non ancora] – eppure c’era una cosa che avrebbe potuto
fare; una cosa semplice, che non teneva conto di nomi, di soprannomi, di
identità poiché trascendeva tutto il resto.
Si chinò
su quel viso prima che il pianto lo inumidisse, sfiorando la sua bocca per la
prima volta.
Judy
restò per un istante immobile, incerta, meravigliata. Ma proprio quando lui
stava per scostarsi, sciolse la mano dalle sue e lo strinse a sé, piano,
come un sogno che si cerca di non infrangere alla luce del mattino. E a Jervis venne quasi da sorridere nel chiedersi se lei, nella
sua prossima lettera, avrebbe raccontato anche questo a Papà Gambalunga.
La
baciò ancora, e ancora e ancora e
ancora, consapevole che Judy non aveva bisogno di un nome in quel momento, che
con lei era quel se stessi a contare,
nient’altro.
Un giorno
avrebbe saputo e allora forse lo avrebbe odiato. Ma forse no; perché forse
lo amava almeno una piccola parte di quanto l’amava lui.
Ormai
era quasi buio sul Fergussen e su di loro: loro che
in quel momento erano soltanto un uomo e
una donna.
[ 865 parole ]
Nota: Lessi Papà Gambalunga per la prima volta in quarta o quinta
elementare. Il bello del rileggere a distanza di tanti anni un libro che ti ha
accompagnato nell’infanzia è che puoi trovare mille sfaccettature,
mille significati, mille prospettive che all’epoca non potevi comprendere
appieno. Rileggendolo per la – forse – dodicesima volta, ora che qualcosina in più posso notare, ho deciso di
concentrarmi per un attimo sul punto di vista di Jervis
Pendleton.
Il problema del romanzo epistolare è che il lettore conosce
unicamente il punto di vista di chi scrive le lettere, dunque del protagonista.
Gli altri personaggi ci appaiono sfocati, filtrati dagli occhi e dalle parole
di chi ci racconta la storia rivolgendosi a un destinatario che ci è comunque estraneo. Io però mi
sono sempre chiesta come si sentisse Jervis, se gli
facesse male continuare a mentire a Judy sulla sua identità, e cosa l’abbia
spinto a tenerle tutto nascosto fino alla fine. Sono giunta alla conclusione che
il suo unico timore era di essere odiato da lei; quando però Judy scrive
a Papà Gambalunga di essere innamorata del signorino Jervie,
naturalmente tutto si risolve con un bel lieto fine. Ugualmente mi sono domandata
quando, esattamente, sbocci qualcosa tra i due: Judy non lascia indizi sul
fatto che Jervis si sia dichiarato a lei prima di proporle di sposarlo, a Lock Willow, ma ho immaginato che
ciò potesse esser accaduto in un momento come la festa di laurea –
quando Judy è disperata per l’assenza del suo Papà
Gambalunga e Jervis è lì e non
può dirle niente: non può dirle che in realtà lui c’è.
Questa è una one-shot senza pretese su un
libro che forse non è davvero un ‘classico’ del Novecento,
ma che a mio avviso racconta una delle più belle storie d’amore che
siano mai state raccontate. Spero che i lettori apprezzino il piccolo omaggio
con cui ho voluto attirare un po’ l’attenzione sul capolavoro di
Jean Webster. Un felice 2011 a tutti voi <3