Sweet illusion
Francis ne
era consapevole, Arthur non era mai stato suo.
Non che
l’altro si dimostrasse attaccato ad alcuna persona, in realtà, ma poteva
vantarsi di riuscire a capire abbastanza bene ciò che passava nella testa
arruffata dell’inglese. E poteva vantarsi anche, suo malgrado, di riuscire ad
andare oltre la freddezza che a volte dimostravano quelle pozze verdi che
l’inglese si ostinava a tenere semi nascoste sotto quelle, a suo dire,
orrendamente inglesi sopracciglia.
E poteva
capire che, no, non era e non sarebbe mai stato suo. Non lo era mentre,
cercando di essere più fastidioso possibile, gli sedeva vicino e cercava di
tenergli la mano durante le riunioni internazionali, alla vista di tutte quelle
nazioni che, non riuscivano a tenere i loro occhi sul proprio foglio.
Non lo era
mentre, in un corridoio deserto, o per la strada, o al parco, o al ristorante
gli rubava un bacio, cercando di spezzare quella cortina di freddezza che a
volte tendeva ad isolarlo dal resto del mondo e ricevendo maree di improperi in
seguito.
Non lo era
mentre litigavano, mentre si discuteva per le cose più banali come un pessimo
sugo o un arrosto bruciato, a quelle più serie, quelle che sapevano di sangue e
guerre, di manovre finanziarie tanto azzardate da poter portare un’intera nazione
sul lastrico, se solo si sbagliava di pochissimo.
Non era
suo quando si curavano l’un l’altro le ferite, quando, dopo ogni guerra, si
ritrovavano sporchi, malconci e feriti a riattaccare i cocci di nazioni andate
in frantumi, di vite spezzate e sangue versato.
Non era
suo nemmeno quando facevano l’amore. Quando riusciva a sentirsi totalmente,
interamente legato a lui. Non era suo. La sua testa era altrove, i suoi occhi
vedevano sul suo viso quello di un altro. E sentiva altre mani sul suo corpo,
sentiva qualcun altro muoversi dentro di sé, non veniva per lui. Dietro quel
suo “Francis”, molte volte bisbigliato, poteva sentire, troppe volte, l’eco di
un altro nome. Lo sentiva provenire da quel buco che l’inglese aveva
all’altezza del cuore, quel buco che aveva deciso di riempire con quel vecchio
amore, ormai sbiadito, consumato da secoli di guerre e sofferenze inflittesi
l’un l’altro. O forse solo logorato dalla quotidianità di secoli di conoscenza.
Quell’amore non era per lui. Non era per Francis Bonnefoy che Arthur
accettava quei tocchi e quelle carezze così intime, che cercava di borbottare
il meno possibile per quei baci. Non era per Francis Bonnefoy che sorrideva,
stremato, quando ormai tutto era finito, lasciandosi stringere senza troppe
lamentele.
Eppure a
lui piaceva così tanto illudersi. Gli piaceva pensare che quelle attenzioni
fossero tutte sue, e di nessun altro. Si illudeva di poter davvero dimenticare
ciò che vedeva ogni volta in quegli smeraldi. E si illudeva che l’inglese fosse
in qualche modo consapevole del dolore che riusciva ad infliggergli quando, ad
ogni suo “ti amo” lui fuggiva lontano col suo sguardo.
Eppure non
riusciva a separarsene, non riusciva a smettere di illudersi forse,
semplicemente non riusciva a smettere di amarlo.
“ Je t’aime Arthùr … “
Un
silenzio teso, un live scrollare di capo e l’inglese che si rannicchia di nuovo
contro il suo petto evitando di guardarlo in viso. Quel contatto che non riesce
a dare il calore che dovrebbe, che vorrebbe. Non riesce a raggiungergli quel
muscolo che ormai batte dolorosamente nel suo petto.
“E puoi
sentirlo, Arthùr, quel rumore nel silenzio? E’ il mio cuore che si spezza. Ma
non preoccuparti, c’è abituato. Forse deve solo togliersi il vizio di amarti.”
Solito angolino della El:
Non mi piace, no, affatto. Eppure qualcuno (nome a
caso, Giucchan) ci tiene che la pubblichi. Ergo eccola qua.
So che non è sto gran che. E so che, se siete
arrivati fin qui, non smetterò mai di ripeterlo, avete un gran coraggio.
Se leggete e volete recensire mi fate felice.
Altrimenti credo di poter vivere ugualmente.
Grazie per i pochi minuti che mi avete dedicato.
El.
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