feast of five senses
Premessa:
"Kyo" è lo pseudonimo del cantante Tooru Niimura. Quindi
Tooru e Kyo sono la stessa persona, solo che nella mia testa sono
come due entità o personalità ben distinte che
albergano in lui. In questa storia "Kyo" (l'adulto) ha preso il
sopravvento su "Tooru"(l'adolescente).
“Feast
of five Senses.”
<< What
will be the proof of my existence, if it disappears with the wind?
>>
Te lo chiesi in una fredda notte di Novembre; notte fonda, se non
ricordo male - non che io abbia mai avuto una così grande
memoria, in effetti: tendevo a dimenticare pure il mio vero nome,
talvolta. In fondo Tooru era un nome alquanto stupido, non credi? Mi
sono sempre chiesto cosa i miei genitori avessero pensato,
affibbiandomelo felici. Un
“chissà se gli piacerà”
o magari pure “se
gli fa schifo se lo tiene comunque”.
Ah, Dio. Sento un grande peso scomparso, da quando Tooru non esiste
più - può sembrare molto strano, lo
so. Quando
ero piccolo, mio padre tutti i dannatissimi giorni mi chiedeva com'era
andata a scuola, ed io gli rispondevo “normale”.
Normale, sì - è quel che ti risponderei anche
adesso, se tu mi chiedessi come mi sento.
In realtà non so a quel che realmente mi riferissi, quando
scandivo lentamente tali parole, senza guardarlo neppure - so solo che
non avevo voglia di parlare, non avevo voglia di raccontargli la mia
giornata; non avevo voglia di niente. Quale attuamento migliore, se non
rimuovere tutto?
A quel punto, non avrei veramente avuto nulla da dire. Vuoto.
La mia vita era normale. Quel che facevo era normale. Proprio normale
come può esserlo un gatto che si lascia pian piano sbranare
da
un topo, sì. Per te è normale, no? Normale. Io
ero normale - eppure
odiavo esserlo.
Ed è stata
forse tutta questa ostentata normalità, a rendermi
così privo di sentimenti?
Rispondimi, tu che ti vanti di sapermi leggere dentro: cos'è
che
mi rende speciale ai tuoi occhi, Daisuke? Sono un essere prettamente
normale - mi cibo di normalità a piccoli morsi e poi mi ci
cucio
un vestito. Era normale svegliarsi la mattina, mentre mia madre stirava
abiti di
grosso costo che nemmeno mi ero e sarei mai messo - mio padre intanto
guardava stupide ed insulse moto alla televisione, intente nel
duellare per un podio di tre posti. Odiavo
tutto questo. Lo odiavo da fare schifo.
In realtà odiavo anche tante altre cose. Odiavo
il riflesso del mio specchio quando mi sorrideva di rimando - un
sorriso di per certo falso, perché io un poco mi
conoscevo. Non ho mai avuto voglia di sorridere, però... a
volte
bisogna saper recitare, nella vita. Questo lo sai anche tu, no? Non sei
così immune alla tua
esistenza, mi pare. Forse per certi versi ci assomigliamo, io e te.
Magari è proprio per tale motivo che tu riesci ad amarmi:
alla fine molto probabilmente io sono solo la tua rappresentazione
interiore, sicuramente più estremizzata. Ti piace osservare
il
mio declino pensando al tuo, ti piace vedere fino a che punto riesco a
spingermi. Qualche volta riesco ad odiare pure te, Daisuke - come
odiavo mia madre,
quella madre che prendeva il ferro da stiro e lo spalmava su una
t-shirt, perché fingeva di capirmi; come odiavo l'uomo che
si
autodefiniva mio padre,
che nemmeno faceva finta di capirmi.
Capii parzialmente di avere qualche problema - di non essere poi
così normale
come tutti volevano farmi credere - solo quando arrivai a sentirmi
male, un fottuto male fisico. Adoravo starmene ore ed ore intere dentro
la doccia, privo di pensieri concreti ed isolato dal resto del mondo:
qui ustionavo il mio corpo per mezzo di acqua bollente, cercando di
pulirlo da uno sporco che forma concreta non ce l'aveva. Anche quella
volta - come altre mille volte avevo fatto; più
specificamente
trecentosessantacinque per dieci: proprio come avevo fatto altre
tremilaseicentocinquanta volte, sì - mi spogliai
di
tutti i miei abiti e mi infilai dentro al bagno, senza neanche
guardarmi
allo specchio; forse solo una timorosa occhiata di sfuggita. In
realtà riuscivo a spenderci pomeriggi interi, davanti a
quello schifoso oggetto; non potevo farne a meno, come una ragazzina
malata e scontenta del proprio corpo. Magari quel che io
chiedevo al mio riflesso poteva considerarsi una richiesta d'aiuto, un
urlo silenzioso:
“chi sei tu e
cosa vuoi da me?”.
Una sera sognai, sognai veramente: c'ero io, c'era un bisturi ed ero
nudo. Tagliavo e ancora tagliavo, senza nemmeno pensarci, senza
riflettere sulle conseguenze. Tagliavo anche il naso, le guance, il
cazzo. Poi mi guardavo allo specchio - ossi che spuntavano da buchi
di carne, viso deturpato e tutto, proprio tutto colorato di rosso - e
non mi riconoscevo lo stesso. Quando mi svegliai, ebbi veramente una
fottuta paura.
Ci pensai in quell'attimo - quando l'acqua calda cominciò a
non
esistere più e le mie gambe sparirono; pensai a quel sogno,
ed
al suo significato. Avrei voluto uccidermi, avrei voluto linciarmi? Ero
affetto da qualche strana malattia mentale, ero forse io un non normale?
E tutto fu all'improvviso veramente tranquillo, come se mi fosse stata
somministrata qualche droga: l'acqua che scorreva, il sapone nei miei
capelli che aumentava di volume, lo scroscio del getto e poi... il nulla.
Sapete cosa vuol dire, sentirsi morire? Io l'ho provato - il buio ti
devasta ed in un attimo inizi a sentirti infinitamente piccolo, quasi
impotente.
Quando la testa comincia a girare la tua forza inevitabilmente se ne va
- e puoi anche essere o ritenerti l'uomo più forte del
mondo, ma la tua testa
gira e giri pure tu. Cosa puoi fare, insulso umano,
arrivato a quel punto? Cascare,
solo questo. Caschi inesorabilmente per terra, ti abbandoni al
pavimento quasi
freddo - sarà questa l'unica cosa che riuscirai a portare a
termine, l'ultimo atto di una vita patetica. Ti porterai dietro almeno
gran parte di tutti i fottuti recipienti di
sapone
che tua madre teneva nel box doccia, mentre ti accascerai disteso sul
piastrellamento, senza nemmeno accorgertene. Continuerai
inevitabilmente ad udire, forse pure ad avvertire; ma il resto? Nada o
nulla, nothing!
E te lo
chiederai, cazzo se te lo chiederai: a cosa ti è servita la
scuola, quelle tre o più lingue imparate a forza di studio e
pomeriggi passati sui libri, se poi arrivi a morire quindicenne dentro
ad un fottuto bagno? Magari non avrai risposta e ti dovrai ritenere
fortunato; magari invece
una vocina avrà il coraggio di parlarti ancora, un'ultima
volta
in più: a
niente, ti dirà con tono freddo. Quindici anni
buttati nel cesso, ecco. Pardon!,
o meglio
dire nel bagno?
Tutto ciò potrebbe forse essere l'abbandono del tuo corpo
che se lo lega al dito
- se sopravviverai te lo rinfaccerà per sempre, quanto gli
hai
fatto del male. Perché è questo quel che ho
imparato
dalla vita, in fondo: quando commetti uno sbaglio nessuno perdona e
nessuno dimentica mai del tutto. Nemmeno te stesso.
M'addormentai in quello schifoso scompartimento doccia, credo - so per
certo che in qualche modo persi i sensi, scollegai completamente il
cervello. Adesso mi duole pure ammetterlo, soffocando il mio orgoglio
grazie ad odiose congetture: non pensai nemmeno per un attimo
all'ipotesi di mettermi ad urlare -
sto morendo, sto morendo dentro al cesso!
- e non aprii bocca, se non per mugolare qualche frase sconnessa.
Quando tutta la mia vista se ne andò, quando le piccole
lucciole
nere che mi davano noia divennero una farfalla intera ed adios, mondo!,
capii di aver raggiunto il culmine. L'ultima immagine che la mia testa
recepì prima di
spegnersi fu
quella del registratore di calore dell'acqua. Abbastanza deprimente, no?
“Muoio.”
mi dissi. Poi più nulla.
Quando mi svegliai - dopo un'ora, due ore, mezz'ora forse? -
la piastrella fredda del muro cui avevo appoggiato la testa ed il suo
contrasto con l'acqua bollente mi stordirono non poco: cazzo!,
fu il primo ed ultimo pensiero che si affacciò nel lasso di
pochi secondi nella mia mente. Sono sempre stato fin troppo volgare, lo
so. Ma che potevo farci? Forse imprecare e sparare bestemmie erano il
mio unico sfogo, a quel tempo; ancora non avevo imparato a coesistere
con me stesso e con il grande casino che mi portavo dentro, riuscivo a
malapena a sopportarmi: come soffocare la malignità
incombente
che uccideva pian piano il mio spirito?
Ma, mentre l'acqua in quel momento più fredda mi continuava
a
bagnare e mi apprestavo ad uscire dalla doccia, me lo dissi
internamente: chissene
fotte.
“È
normale.”, scandii ad alta voce, coprendomi con
un asciugamano e sentendomi barcollare appena.
Riuscivo a crederci veramente. Cristo,
ci credevo.
Quindi quella sera te lo chiesi, malgrado nemmeno riuscissi a capire il
perché: le parole uscirono dalla bocca fluide e viscerali,
senza
filo logico o riflessione. Lo domandai con fare ingenuo, magari senza
neanche guardarti in faccia, mentre il mio pensiero ritornava di
slancio al mio passato ed a tutto ciò che mi aveva oppresso.
Tu
mi guardasti di striscio, sorridendo appena.
<< Stasera
non tira vento, Kyo. >>
mi dicesti, accarezzandomi di scatto una guancia e facendomi tirare un
fioco sospiro di sollievo; perché cazzo sì, era
vero.
[ Love is what everyone
suppose to want. ]
Tutto ciò è fin troppo normale.
The end
Note:
Le due frasi in inglese fanno parte del testo di "Vinushka" dei Dir en
grey.
Saranno due anni che non scrivo e non pubblico, anche se lo scheletro
della storia è molto
vecchio. Spero comunque che questa sequela di riflessioni esistenziali
vi possa essere piaciuta. Ciao,
AintAfraidToDie
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