Maschere in
un castello di favola ~
prompt: #032,
mirror/reflection
{ la mia unica
forza ricordare la voce d’una storia d’amore e di vanità
}
Lo stupore con cui La Voce aveva accolto la sua proposta era quasi
offensivo. Probabilmente glielo avrebbe fatto notare, se le circostanze fossero
state diverse – se lei non fosse stata La Voce, ma semplicemente
Penelope. Ad ogni buon conto, si era limitato a disporre senza fretta i pezzi
finemente intagliati, chiedendosi quanto diavolo potessero valere, e riversando
nel microfono l’amara ironia del proprio sorriso.
«Certo
che so giocare a scacchi. Io so giocare praticamente a tutto.»
«Immagino.»
La
Voce se n’era stata zitta per un po’. Forse si era presa del tempo
per studiarlo. Non capitava spesso che lui venisse così vicino allo
specchio; chissà se le piaceva, quello che vedeva. [Quello che non vedeva non le
sarebbe piaciuto di sicuro; vero, Johnny?]
Avevano
cominciato a giocare così, una voce senza viso e un viso senza
identità, dai due lati della stessa fredda superficie a senso unico.
Lo odiava,
quel coso. Non era per niente
piacevole sparare una balla dietro l’altra con il proprio riflesso
perennemente davanti agli occhi. Non era
più così facile mentire, da quando era entrato in quella
dannata sala.
La partita
era a un punto morto. La Voce stava in silenzio, in attesa di una mossa che non
veniva.
Lui
teneva gli occhi fissi sugli scacchi. Non solo per sfuggire al suo riflesso, ma
anche agli occhi di lei.
«Però
non riesco a capire» disse, così di colpo, come per riprendere un
discorso appena spezzato.
La
Voce assunse una sfumatura divertita. «Il motivo per cui quella torre
è in serio pericolo?»
«Il
motivo per cui sei rinchiusa al di là di uno specchio.»
La
Voce sembrò pensarci su. Nel tempo che impiegò a rispondere, lui
contò almeno cinque battiti nervosi.
«Io… non sono rinchiusa al di là di uno
specchio.»
Allora perché dannazione perché
non vieni qui e perché non mi tocchi e perché non capisci che non sono io quello di cui hai bisogno?
«Beh,
può darsi che si tratti di una villa da un miliardo di dollari, ma
è sempre una prigione. Resta sempre una prigione.» Lo
ripeté, convinto, torturando con un’unghia il muso scolpito dell’unico
cavallo che gli era rimasto – l’altro, La Voce l’aveva
mangiato dopo sole quattro mosse – e ostinandosi a tenere lo sguardo
basso. Meglio non mostrarle che quella
prigione poteva anche essere una
salvezza. «Dimmi la verità. Non sei mai uscita di qui?»
La
Voce non rispose.
«Mai? Neanche, che so, un ballo della
scuola, un pigiama party con le tue…?»
«Non
sono mai andata a scuola.»
Fu il
suo turno di non rispondere. Come avrebbe potuto dirle che magari era meglio così, che fuori si soffriva e basta? Lei, almeno, aveva il suo castello delle
favole. Gente come lui non aveva niente. Troppo stupida e immatura per
accontentarsi, per farsi bastare le piccole cose. E in mano restavano i cocci.
Eppure
sentiva che La Voce non sarebbe stata d’accordo. Che avrebbe voluto
almeno provarci, a non accontentarsi
del suo castello. Che moriva dalla voglia di sapere come fosse un ballo della
scuola.
«Hai
paura?»
«Ho
paura di fare paura.»
«Ma
vuoi uscire. Non è così?»
La
Voce si chiuse di nuovo nel silenzio dello specchio.
Sospirò.
Alzò il viso. Johnny aveva detto fin troppo; spettava a Max, adesso, il
compito di proseguire quell’assurda inutile recita.
«Se
non sei mai andata a scuola, allora non ti sei mai presa neppure una cotta per
qualcuno.»
Una domanda
stupida per incrinare appena la barriera: perché la verità da
sola non sarebbe bastata per questo.
Lei
sembrò cadere da un sogno. Forse era proprio così. «Una
cotta?»
«Sì,
una cotta. Sai… Quando c’è uno che
ti piace. Quando ti piace così tanto da rischiare il collasso ogni volta
che lo vedi. Quando l’unico tuo pensiero è come fare per riuscire
a strappargli un passaggio – o a baciarlo, magari con la scusa che…»
«Parli
in modo molto strano, lo sai?»
Sorrise.
Smascherato, o quasi. Dio, quanto odiava quel fottuto fatto di doversi guardare in faccia mentre le
parlava.
«Non
rigirare la frittata. Stiamo parlando di te, non di me.»
Una breve
pausa. Se la immaginò mentre scuoteva la testa, divertita o forse solo
esasperata. Chissà se aveva i capelli abbastanza lunghi da sfiorarle le
guance nel movimento. E di che colore erano, poi?
«Suppongo
di non essermi mai presa una cotta, no.»
«Un
vero peccato.» Diede appena uno sguardo alla scacchiera, azzardò
una mossa, ci ripensò e ne tentò un’altra. «Così
hai impedito a chiunque di prendersene una per te.»
«Max.»
Un nome falso poteva suonare così giusto
anche se a pronunciarlo era una voce senza viso? «Ti hanno fatto firmare
un accordo di segretezza. Pensi davvero che chiunque
si prenderebbe una cotta per me? Il mio alfiere mangia il tuo pedone.»
Accolse
con sollievo la mossa ordinatagli: un’ottima
scusa per continuare a tenere gli occhi bassi – per non farle capire che
lui sarebbe stato quel chiunque anche
mille volte fuori di lì, in qualunque mondo l’avesse incontrata,
in qualunque forma l’avesse conosciuta.
Pazzesco.
Come ci si può innamorare dell’ombra che si cela dietro un
riflesso sbagliato?
«Com’è?»
Le
dita sul bordo della scacchiera, la mente persa dietro un segreto, non
capì subito a cosa si riferisse. «Com’è cosa?»
«Baciare.»
Rise.
«Non è una domanda facile, questa.»
«Una
domanda è una domanda. È difficile solo se non si sa la risposta.»
«Ma
un bacio è impossibile da spiegare… È
come uno dei tuoi libri. Puoi raccontarmeli tutti, se vuoi, ma sei tu che li
hai vissuti. Io non potrei mai sapere quello che ti hanno dato.»
«Allora
fammi vedere.»
Rimase
tanto spiazzato da dimenticare il disagio di alzare gli occhi. «Che?»
«Fammi
vedere cos’è un bacio. Ti prego.»
Certo
non bastavano quelle due parole aggiunte in un sussurro. Rise di nuovo, con
sempre meno voglia di ridere.
«Non
faccio salti di gioia all’idea di baciare il mio riflesso in uno specchio.
Sarebbe piuttosto ridicolo dal mio e
dal tuo punto di vista.»
«Al
contrario, sarebbe interessante. Un po’ come Narciso, la figura della
mitologia greca innamorata di se stessa, che fu trasformato in fiore dopo aver
osato baciare il suo riflesso.»
«Io
non sono innamorato di me stesso,
Penelope.» Ed era incredibile quanto fosse facile dire invece la verità, così a viso
aperto. «Decisamente no.»
Forse
La Voce si era accorta di un cambiamento nel suo umore. Forse fu solo per
delicatezza – perché era
gentile, era buona; era esattamente l’opposto di tutto quello che gli
avevano detto di lei. Era vera –
che volle avventurarsi sulla strada dell’ironia.
«Allora
potresti fingere che con te ci sia la tua ultima cotta.»
Un’ultima
risata, l’unica che avesse un che di sincero; e la maschera finì
in mille pezzi.
«Non
va bene. Non sarebbe vero… C’è uno
specchio che m’impedisce di baciarla.»
Il
silenzio che seguì era quello di una crepa sottile che incrina il solido
vetro, oppure quello di una ragazza spaventata che si alza e fugge in punta di piedi
nel suo piccolo mondo sicuro. Johnny non lo sapeva.
Ma c’era
una cosa che poteva fare per verificare se la fenditura esistesse o no.
Rimase
chino sulla scacchiera, ma si sollevò abbastanza da avvicinarsi alla
superficie fredda. La vide appannarsi appena al contatto del suo respiro caldo.
Meglio così; non sarebbe stato
costretto a guardarsi ancora.
Mormorò
il suo nome nel microfono, piano, con l’accortezza che è dovuta a
una speranza. La Voce gli rispose. No, non era fuggita.
«Sono
qui.»
«Vieni
più vicina.»
Nessun
rumore; persino il suono sconosciuto dei suoi passi sul pavimento era qualcosa
che gli mancava dolorosamente.
Poi,
La Voce risuonò un po’ più forte dagli altoparlanti. «Sono
qui» ripeté.
«Ora
chiudi gli occhi.»
Johnny
detestò tutto, di quel bacio: la distanza fisica, il gelido specchio tra
loro, il non potersi sentire le sue mani sul petto e il non poter conoscere neppure
il suo profumo – il fatto che anche ora che La Voce era solo Penelope,
Penelope fosse ancora poco più
che una voce.
Fu
un suono inaspettato, un accenno di riso, a svegliarlo.
«Sei
buffo, Max.»
Si
ritrasse. «Sì, sì. Lo sapevo che l’avresti detto.»
«Ma
a me piace quando mi fai ridere. È… diverso.»
Johnny
sospirò ancora e si lasciò ricadere al suo posto. Guardò
dritto verso lo specchio, di nuovo. Era strano farlo da Johnny, per una volta. Anche
questo era diverso.
Magari
quella barriera era molto più sottile di quanto lui credesse; chi poteva
dirlo? E se era il suo sangue a impedirgli di romperla, beh, lui non poteva
impedirsi di volerci almeno provare.
«Torniamo
alla partita?»
Sorrise
alla risposta della Voce – no, non della Voce. Di Penelope.
«Sarà
meglio che tu stia attento al tuo re, signor Chiunque.»
Magari
un giorno avrebbe trovato la forza di rompere lo specchio. Magari un giorno lei
gli avrebbe detto se le sue labbra si erano posate nel punto in cui lui le
aveva cercate, o se forse si era soltanto limitata a sfiorarlo con le dita.
Fino
ad allora, il re sarebbe stato
vulnerabile senza la sua regina.
{ la
leggenda del non-amore che si scrive di sera
d’una
cosa che sarebbe bella ma non è vera
è
che tu, mia Riflessa Creatura, mi guardi negli occhi
per una
volta ancora, per una volta ancora prima che giunga Primavera }
Nota: Versione alternativa della
scena in cui Johnny e Penelope giocano a scacchi attraverso lo specchio. L’ultima
frase del testo è una citazione adattata della scena stessa. I versi
riportati come incipit e in chiusura sono tratti dalla canzone Una storia d’amore e di vanità
di Morgan.