Tavola XXXI - Collaudo
«Renda onore al suo ricordo» suggerì.
«Come? Tenendola qui?» sibilò, confuso da quel che aveva appena sentito.
Il suo padrone, l’uomo che aveva servito, gli aveva offerto
più libertà di quanto immaginasse e lui l’aveva
rifiutata. Erano stato ingannato, di nuovo! Quell’uomo aveva
taciuto! Gli aveva fatto credere d’essere schiavo quando ogni
porta era spalancata!
«Credevo avessimo chiarito il punto, ma se proprio vuole darsi la
zappa sui piedi, sappia che è stato lei a predisporre tutto in
maniera che non potessi lasciare il servizio presso i Frasca»
disse Amelia, ostentando calma assoluta.
«Sciocchezze!» inveì, salvo interrompere la sequela
d’improperi già pronta quando vide comparire copia degli
accordi presi un anno e mezzo addietro.
«Ma lei gira con tutta quella carta?» domandò perplesso.
«Sì, visto che ha una sua utilità».
«Capo, per me parla troppo. Devo strappargli la lingua? »
gracchiò Vorticillo, appollaiato sul davanzale della finestra.
«Calmo, va tutto bene» rispose, facendogli segno di appoggiarsi sulla sua spalla.
Obbediente, l’Aquilone riprese le sembianze di rondone e la raggiunse.
«Attento a quel che dici, coso. O ti faccio la festa» minacciò, gonfiando il petto minuscolo.
La donna sollevò gli occhiali sulla fronte per leggere.
«Cito: “A tutela delle opere e del buon esito dei rapporti
clientelari, si dispone che il contratto decada qualora si verifichi
una delle seguenti condizioni: 1. Decesso del professionista
incaricato;” – grazie per averla messa come primo punto,
molto gentile – “2. Grave impedimento psicofisico o
conflitto d’interessi, per qualsivoglia causa, da parte del
professionista incaricato; 3. Abbandono volontario e senza motivazione
della dimora denominata Villa dei Gelsi da parte del
professionista”. Al di là delle ripetizioni
terminologiche, alla luce degli eventi, direi che avesse in programma
sin dal principio di darmi una spintarella per fare in modo che
rompessi il contratto di mia iniziativa, o sbaglio?»
L’uomo serrò la mascella per impedirsi di urlare. Doveva
essere stato distratto da chissà che per aver omesso una sola,
remota, sciocca eventualità. Com’era possibile che avesse
sbagliato, lasciandole la porta aperta?
Jarvis stava seduto al centro del letto, curvo in avanti, l’aria
di chi doveva porre una domanda e non riusciva a formularla. Amelia
provò un certo dispiacere nell’essere stata tanto
drastica, ma non poteva attendere che il Consiglio degli Archimaghi
le desse ragione. E nemmeno permettere che il nuovo Duca
s’impuntasse come un bambino capriccioso. Corrado avrebbe
disapprovato, ne era certa.
«Lo prendo per un assenso, milord» fece lei, sistemandosi
meglio sulla poltroncina che subiva una serie di scossoni, trasmessi
dal tappeto che tentava di volarsene via. «Ora, io ho rispettato
le clausole. Sono viva, non ho gravi impedimenti o conflitti
d’interessi, né mi sono allontanata di mia iniziativa.
Cosa che, peraltro, mi era vietata, visti i salti mortali che sono
stata costretta a fare per elemosinare due uscite»
sottolineò con lieve cinismo.
Lasciò che Jarvis meditasse qualche minuto sulle sue parole.
Aveva previsto le avrebbe trovate indigeste. Quello che non aveva
immaginato era lo stato pietoso in cui l’avrebbe incontrato.
Osservandolo meglio, si rese conto che era dimagrito, sulle braccia
emergevano le vene, sulla schiena premeva la linea della colonna
vertebrale.
«Jarvis, lo ammetta: ha sbagliato. Ed è stata la cosa migliore che potesse fare».
Lo sguardo bruno e tagliente la fece trasalire. Il nobile aveva degli scatti di vitalità spaventosi.
«È pazza. Pazza!» gridò.
«D’accordo, signor Duca. Vuole sbarazzarsi della
sottoscritta? Un modo c’è» replicò,
mettendosi a braccia conserte, quasi volesse sfidarlo.
La notizia lo riscosse ed un accenno di ghigno stirò le labbra sottili e screpolate.
Ang, dietro la porta, si domandò se per caso Amelia non fosse
impazzita per l’eccesso di malsani incantesimi che vorticavano
nella stanza. Abbassò lo sguardo su Isadora, che spiava tra i
battenti. Accanto a lei erano apparse Romilda e Francesca, che
tendevano l’orecchio e incrociavano le dita.
«Me lo dica! Glielo ordino!» tuonò.
«Deve scrivere un atto di rescissione dalle prestazioni»
disse a denti stretti, alzandosi. «Lo firmeremo entrambi, lo
invierà al Consiglio degli Archimaghi e tutto sarà risolto in un mese. Io me ne andrò, lei riavrà la villa, il Consiglio archivierà la pratica. Fine».
Chiuse la finestra, dato che il freddo si stava facendo insopportabile
e il tanfo di chiuso era dissipato. Voltandosi, si rese conto che non
solo Jarvis era ridotto uno straccio: la camera era polverosa, il
pavimento coperto di cicche di sigarette ed abiti stropicciati.
«Tenga» e gli porse carta e penna, che languivano sullo scrittoio in un angolo.
L’uomo poggiò il foglio sulle coperte, senza però
iniziare a stendere quanto indicato. Sembrava che un interrogativo
avesse sollevato altri dubbi nella sua mente. La qual cosa fece ben
sperare l’Archimaga.
«Allora, milord?» lo incoraggiò gentilmente.
«Cosa dovrei scrivere?» sibilò, gli occhi fissi sul foglio immacolato.
Domanda strana, per chi aveva gestito decenni di corrispondenza.
«Comincerei dall’intestazione. Data, luogo, scrivente. Di seguito il resto» suggerì.
«Cosa dovrei scrivere?» ripeté, stringendo la penna con tutte le dita.
La teneva allo stesso modo di un bambino.
«Descriva i motivi oggettivi per cui mi esonera del compimento
delle opere. O meglio, perché preferisce fare a pezzi Villa dei
Gelsi con le sue stesse mani, piuttosto che lasciare che esegua i
lavori previsti. Eviterei di segnalare la sua viscerale antipatia verso
di me. Di solito il Consiglio
non lo ritiene un motivo sufficiente alla rescissione. Come anche il
fatto che lei mi accusi di aver avuto un ruolo nella sua
“nascita”. Dubito che la prenderebbero per un sano di mente
se dicesse loro che era un marid, mentre oggi è un essere umano».
«Cosa-dovrei-scrivere» sillabò irritato.
«Fragolina,
permetti?» chiese Ang, ormai oltre la porta della camera.
«Penso che, in realtà, il signorino non ti stia domandando
cosa deve scarabocchiare. La sua è una domanda… sai, che
si dice per sottintendere una cosa ovvia?»
«Retorica?»
L’elfo si avvicinò al letto, facendo indietreggiare il
Duca. Dopo lo schiaffo, riteneva ogni distanza, inferiore a quella di
un braccio, passibile di infiniti pericoli.
«Jarvis, quante sono queste?» chiese, mostrando tre dita su una mano e quattro sull’altra.
Lui le fissò, corrugando la fronte.
«Quante sono?» insisté.
L’uomo volse il capo dall’altro lato.
«Jarvis?»
«Non lo so!» urlò, gettando a terra penna e carta. «Non so quante siano quelle stupide dita!»
La risposta lasciò senza parole chi ascoltava, dentro e fuori la stanza.
«Come ti dicevo, il nostro ragazzone ha qualche problema».
Amelia sbatté le palpebre, sbigottita.
«Me ne sono accorto l’ultima volta che è venuto
nelle scuderie mi ha chiesto quante balle di fieno avesse portato
Diecichili e, quando gli ho detto di contarsele da solo, è stato
un’ora a guardarle per poi dirmi che non era compito suo, fare
quei conteggi» ridacchiò malevolo.
La rivelazione era sorprendente solo fino ad un certo punto. La donna
riprese a scorrere con attenzione gli appunti del precedente Duca,
arrivando alle ultime pagine del taccuino.
«Ecco qui… “I demoni sono entità incorporee
ed onniscienti. Gli esseri umani, solidi da riempire con minime
quantità di sapere. Che cosa accadrà a Jarvis, se non
posso impedire la fusione di questi due sistemi? Quanto rimarrà
dell’uno nell’altro? Il sapere albergherà integro in
lui, come dopo lungo apprendimento, o dimenticherà ogni cosa?
Oppure manterrà solo una minima parte del suo sapere, quanta ne
può contenere il suo nuovo stato?”» lesse l’Archimaga, assorta. «Direi che abbiamo la risposta».
Divenire umano aveva cancellato gran parte del sapere sia del marid
che dell’uomo: Jarvis possedeva la magia, tuttavia non era in
grado di padroneggiarla, così come tutto il sapere dentro di
lui. Questo spiegava ogni cosa, inclusa l’insonnia che
l’affliggeva da mesi. Era come un bambino, che doveva imparare
ogni cosa dal principio, essere guidato e corretto. Doveva imporre
abitudini e volontà ad un corpo che aveva abitato, ma non
conosceva. Poco importava che, all’atto pratico, avesse
abbastanza male maniere per opporsi gli aiuti.
«Mi ascolti, Jarvis. Per favore» disse Amelia, sedendo sul
letto accanto a lui. «Sa che non le ho fatto niente, anzi. Il mio
operato le è servito a superare la fase di umanizzazione, stando
agli appunti di Corrado. Senza i lavori alla villa, il corpo in cui si
è incarnato non avrebbe sopportato l’unione delle due
entità. Questo però adesso non m’interessa».
Gli prese una mano, stringendola fra le proprie, accarezzandone il dorso con gentilezza.
«Jarvis, si rende conto della fortuna che ha avuto?»
Il Duca la fissò scettico. Davvero vedeva un evento positivo in tutta quella marea di disgrazie?
«Corrado, per tutto il bene che le voleva, le ha fatto il
più grande dei doni. Un dono che tutti noi abbiamo vissuto e di
cui abbiamo memoria solo attraverso i nostri genitori e parenti».
Jarvis seguitava a non capire. E quelle mani ancora fredde, chiuse intorno alla sua, lo infastidivano.
«Corrado, come un autentico padre, l’ha aiutata a
nascere» spiegò, gli occhi che brillavano. «Lei si
è reso conto di venire al mondo come persona, cosa che noi
nemmeno riusciamo a immaginare. Corrado non poteva impedire al marid
di morire, poteva però aiutare un uomo a nascere» sorrise,
stringendo un po’ di più la mano dell’improbabile
neonato.
Il tremito che avvertiva era più che comprensibile. Jarvis aveva
deciso di combattere la sua nuova natura: accettare l’idea di una
mutazione, di una trasformazione, di una nascita, era per lui
inconcepibile. Aveva paura, sentimento più che umano, che in
secoli, forse millenni, non doveva aver mai conosciuto. Ecco
perché suo padre, il suo nuovo padre, aveva voluto che qualcuno
gli fosse accanto. Gestire le emozioni umane era cosa tutt’altro
che semplice per chi già le conosceva, figurarsi per chi stava
iniziando a scoprirle.
«Mi perdoni, Jarvis, ma… quello è un occhio nero?» domandò, sporgendosi per controllare.
Lui si ritrasse, provando un’immensa sensazione di disagio. Era talmente vicina, cordiale. Disposta a parlare, a capire.
«Colpa sua. Non guarda dove cammina» fece Ang, girando lo sguardo intorno.
«Ang, alzare le mani non è mai la soluzione» lo ammonì.
«Non l’ho picchiato. Era in scuderia e siccome non se ne
andava e continuava ad insultare, gli ho sfilato il sacco del mangime
da sotto i piedi. Che colpa ne ho, io, se ha sbattuto la faccia contro
l’anta del box che avevo lasciato appositamente aperta? Poteva
sbattere da un’altra parte o caderci con un’altra parte del
corpo» rimbrottò.
«Sapevo che l’avevi fatto apposta!» ringhiò
Jarvis, riempiendo la stanza di paperelle di gomma che esplodevano come
bolle di sapone.
Amelia era indecisa su chi tra quei due stesse manifestando un minor livello di maturità.
«Deve ringraziare qualunque dio gli venga in mente, perché
se fossi stata incinta ed avessi dovuto partorire nostro figlio lontano
da me, e non avessimo potuto crescerlo insieme, ti giuro che quel coso
senza cervello l’avrebbe pagata molto più cara!»
borbottò l’elfo, poggiando la fronte al muro.
Si rifiutava di guardare l’amico di un tempo, la rabbia era troppa. L’Archimaga l’abbracciò.
Tutta l’ansia che aveva percepito nella voce di Angheledrior
l’aveva convinta che non si trattasse di semplici ripicche. Come
lei, aveva temuto di non poter mai più avere una vera famiglia.
«Adesso basta» li esortò la cuoca, entrando insieme
ad Isadora e a Francesca. «Credo che Jarvis abbia dovuto
sopportare abbastanza per oggi. Gli avete dato una bella raddrizzata.
Ora fatelo respirare».
Il Duca la fissò stranito. Era stato molto duro con quella donna
negli ultimi tempi, aveva offeso lei e la sua cucina solo per il gusto
di farlo, eppure lo stava proteggendo.
«La nonna ha ragione, abbiamo tempo per chiarire tutti i
dettagli. Vero, milord?» disse Amelia, sospirando sollevata.
Dubitava di reggere ancora quella conversazione. «Abbiamo tempo
per discutere, litigare e… imparare. Se mi permette di
restare» ammiccò.
Messo alle strette da quei volti che lo scrutavano ansiosi, Jarvis acconsentì con una nervosa scrollata di capo.
«E se vogliamo dirla tutta, suppongo ti sia accorta che non sa a
cosa serve la vasca da bagno» ridacchiò Ang, tenendola
stretta a sé.
Aveva ragione: aloni scuri e lunghe gocce di sudore asciutte tingevano
la pelle dell’uomo; uniti all’incuria generale, gli davano
un aspetto da clochard. Cercò fra gli indumenti gettati a terra
qualcosa di abbastanza lungo da coprirlo. Scovò una veste da
camera spiegazzata e gliela gettò addosso.
«Su, su. Dopo un bel bagno si sentirà meglio. Magari
verrà a trovarla anche Lojana» scherzò, aiutandolo
ad alzarsi.
«Viene su ogni giorno» sbuffò Francesca.
«Cosa?!»
«Sì, sì. Canta quando sale le scale» confermò Isadora, imitandola.
«Viene qui, anche se lei è in questo stato?» chiese sbalordita.
«E come non potrebbe? È la mia Horla» replicò abbattuto, appoggiandosi ad Ang.
«Horla?» domandò Amelia, perplessa.
Aveva già udito quel nome, eppure le sfuggiva il contesto. Dove l’aveva sentita?
«Per l’esattezza, era l’Horla di Carew. Me l’ha detto il Duca, pochi giorni prima di morire».
Qualcuno si schiarì la voce con fare eloquente.
«Tuo padre, non “il Duca”» corresse Romilda.
Corrado, relegato a letto dopo gli eventi nel sottosuolo della villa,
aveva trascorso intere giornate leggendo. Si era imbattuto in un testo
di Maupassant, intitolato “Le Horla”. Vi erano narrati i
deliri di un pover’uomo, convinto d’essere perseguitato da
uno spirito che era metafora delle sue paure. Allo studioso era bastato
poco per comprendere. In un vecchio testo sulle possessioni demoniache,
aveva scovato un riferimento a quegli esseri. Per i comuni mortali, le Horla
si manifestavano con fobie e attacchi d’ansia, mentre per i
maghi, queste angosce assumevano forme concrete e tali rimanevano
finché il mago non trovava il modo di sconfiggerle o accettarle.
A Jarvis però, questa possibilità era negata.
«Milord… mio padre» si corresse, «mi chiese di
cercare tra gli averi del precettore. Fu lì che trovai molti
biglietti per il teatro. Era una passione che condivideva con…
mio… nonno?» azzardò, ricevendo un segno
d’assenso dai presenti. «Carew e… mio nonno,
seguivano gli spettacoli di una giovane cantante d’opera
spagnola, Carmen de Loja, di cui erano invaghiti entrambi. Carew
l’amava, ma deplorava la sua vita mondana, le sue frequentazioni,
senza contare che biasimava tutto quel che riguardava il contatto
fisico».
«Mi sembra di conoscere questa storia. “Non mi toccate!
Lasciatemi stare!”. Lo urlavi quando siamo andati a recuperare
tuo padre» sogghignò Angheledrior.
La sua risata non era di scherno, era carica di comprensione.
«Carew voleva un rapporto platonico con Carmen, era la sua musa
ispiratrice, ma lei era troppo esuberante per accettarlo.
Evidentemente, anche lui desiderava altro, benché fosse incapace
d’esternarlo. Mio padre pensava avesse avuto degli insegnamenti
piuttosto rigidi e… violenti» disse, massaggiandosi la
guancia, lì dove era stato colpito dall’Archimaga, che arrossì di vergogna. «Il conflitto interiore fu tale da generare Lojana».
«E suo nonno? Cosa c’entra?» domandò Amelia, incuriosita dal racconto.
«Mio padre è certo che, alla base di ciò che
è accaduto, ci fosse la gelosia di suo padre, che non accettava
la relazione fra Carew e Carmen. Ricordava una litigata furiosa tra i
suoi genitori nel cuore della notte. Mia… nonna aveva scoperto
la sua infatuazione e doveva avergli dato un ultimatum. Così,
mio nonno decise che se non avesse potuto avere Carmen, non
l’avrebbe avuta nemmeno Carew. Per questo l’ha usato come
vittima sacrificale. Purtroppo, quando ho cominciato ad assimilare il
corpo di Carew questi era ancora vivo. Pertanto ho ereditato Lojana.
Lei appartiene a quell’uomo, è lui che avrebbe avuto il
potere di farla scomparire. Ecco perché non mi lascia in pace:
io sono Carew e non lo sono. Sono entrambi e nessuno dei due».
Amelia tornò a sedere sulla poltroncina. Altro problema, altro
lambiccarsi, altre discussioni. Vista da lì, la situazione si
complicava ad ogni passo.
«Beh, pensiamo ad una cosa alla volta. Non è
meglio?» propose Francesca, frastornata da quella girandola di
parole.
La proposta fu accettata di buon grado. Romilda si offrì di
andare a preparare un pranzo coi fiocchi per celebrare il ritorno
dell’Archimaga, mentre
Francesca e Amelia si sarebbero preoccupate di ridare un aspetto
decente alla stanza. Isadora andò a festeggiare con Orlando e
Galileo. Ad Ang rimase l’ingrato compito di spiegare al padrone
come ci si lavasse, compito che mai avrebbe permesso toccasse alla sua
donna.
Stavano uscendo tutti, quando si voltarono, richiamati
dall’esclamazione soffocata di Francesca. All’altro capo
del letto, Amelia fissava inorridita tra le lenzuola.
«Jarvis… non è quello che penso io…» balbettò l’Archimaga,
indicando una chiazza il cui lezzo l’aveva raggiunta non appena
aveva scostato le coperte. «La prego… è troppo
grande per fare la pipì a letto!»
L’uomo non rispose, scambiando uno sguardo indecifrabile con l’elfo.
«Gliel’avevo detto che non ti controlli
granché» sghignazzò Ang, battendogli una mano sulla
spalla.
***
Il sole brillava con tutta la forza del pomeriggio inoltrato. Orlando
ronfava beato sotto al gelso che, fino a poche ore prima, era stato il
perno della catena di Angheledrior. Ogni tanto, un venticello sottile
agitava le foglie e qualche bacca precipitava con tonfi sordi sulla sua
corazza, andando in pezzi.
Galileo, astutamente, se ne stava raggomitolato nello spazio che restava tra la gola del drago ed il terreno, sonnecchiando.
«Non ci credo che l’ha fatto per davvero» mormorò Francesca, intenta a sbattere una tovaglia.
Per lei era quasi un’assurdità poter rivedere quello spiazzo così come era sempre stato.
«Nemmeno io» rispose Romilda, sorridendo stanca alle puntarelle che stava terminando di mondare.
Levò lo sguardo nel cortile invaso dalla luce. Ang e Amelia
erano seduti nella porta della stanza dello stalliere, lei fra le gambe
di lui con la schiena contro il suo petto, avvolti in lenzuola
d’erba e fusti di lino intrecciati. Anche se i postumi dell’Odimaé
la rendevano languida e coccolona più del solito, ciò non
le impediva di perdonare l’apprendista mago per quel che aveva
fatto.
«Te l’ho sempre detto che quella felpa era orrenda» rise, guadagnandosi una gomitata non troppo convinta.
Subito dopo pranzo, Jarvis aveva tentato di sciogliere per
l’ennesima volta l’incantesimo con cui aveva imprigionato
lo stalliere. Per aiutarlo a focalizzare il punto su cui agire, non si
era trovato di meglio della famigerata felpa col cuore di Murano.
Rimbrotti e sibili isterici si erano sprecati, prima che il Duca
riuscisse finalmente a trovare la giusta concentrazione per prepararsi
a lanciare l’incantesimo. La formula aveva funzionato, facendo
tornare integro l’albero e dissolvendo il legame con Ang, ma
l’indumento tanto amato dall’Archimaga
era sparito. O meglio, era servito per ricucire la spaccatura del
tronco, al punto tale da integrarsi con esso. Il risultato più
eclatante però, si vedeva tra le fronde: le grosse more scure,
ormai pronte per essere mangiate, erano state sostituite da cuori di
vetro delle stesse dimensioni. Cuori identici a quello che campeggiava
sulla stampa, di finissimo vetro veneziano, percorso da una fascia non
più nera, ma del colore delle more. Di tanto in tanto una bacca
si staccava dai rami per il troppo peso e precipitava a terra, andando
in frantumi.
In quel momento, Malcanto attraversò il cancello, seguito al
piccolo trotto da Violacielo, il suo puledro. Calpurnia era riuscita
finalmente a portare a termine la gestazione, regalando all’Incubo
un erede tutto zampe e zanne, il cui mantello aveva
un’improbabile tonalità di lilla, simile a quella che
tingeva il cielo poco dopo il tramonto. Era stata Isadora a notarlo e a
decidere il nome.
«Bisognerà pulire l’aiuola. Non vorrei che qualcuno
si facesse male» sospirò Amelia, vedendo il puledro
annusare l’erba dove brillavano le schegge di vetro.
«Credo non ce ne sarà bisogno, capo» pigolò Vorticillo, appollaiato sulla grondaia.
Aveva ragione: i due Incubi avevano preso a sgranocchiare quegli improbabili frutti con gusto, producendo suoni stridenti e raccapriccianti.
Isadora uscì dall’androne, camminando rigida e coi pugni
serrati. Si diresse dalla cuoca, tirando calci alla ghiaia. Dietro di
lei erano rimasti mucchietti di neve che andavano squagliandosi
rapidamente nella calura. Dall’espressione dell’anziana
ebbero conferma dei loro sospetti.
«Non ci credo, hanno litigato di nuovo… è la quarta volta da stamattina!»
«Se Jarvis fosse una donna direi che è “in quei
giorni”» bofonchiò, rientrando nella stanza per
vestirsi, imitato da Amelia.
Si cambiarono senza fretta, aiutandosi a vicenda. Dal suo rientro alla villa, l’Archimaga
aveva cominciato a vestire seguendo le richieste del suo compagno: non
c’era quasi più traccia di indumenti sintetici nel suo
guardaroba.
«E Lojana è brutta!» sentirono urlare alla bimba.
«Fantastico, ora se la prende pure con la Horla…»
disse lui, affacciandosi. «Eh, sì. Guardala là,
come se la ride dalla finestra. Ci scommetto quello che vuoi che si
è appena rivestita. Poi Jarv viene a farmi certe tirate e a
dirmi che si sente… com’è che ha detto? Ah,
sì: “violato e degradato ad oggetto di piacere”. A
me sembra che gli piaccia. Uh, accidenti, Marcella»
esclamò, udendo uno strillo acuto.
Amelia si affacciò appena in tempo per vedere una parte del
tetto cedere ed afflosciarsi sotto il peso della neve che Isadora aveva
creato in uno scatto d’ira. Neve che avrebbe dovuto essere nel
cortile, ma che era finita altrove, spinta da un maldestro incantesimo
del padrone di casa, ora affacciato alla finestra. Rannicchiata dietro
le ampie spalle di Francesca c’era Marcella, la nuova cameriera,
che aveva ancora parecchi problemi ad abituarsi all’inconsueto
menage. Era poco più che una ragazzina, ma aveva avuto
già a che fare con fantasmi e draghi nella dimora in cui
lavorava la sua famiglia. La poveretta però era quasi svenuta
per lo spavento quando aveva incontrato Lojana, che se ne stava ad
attendere il Duca nello studio, nuda e in una posa affatto composta. E
vedere un tetto che cedeva non l’avrebbe aiutata di certo.
«Cillo?» chiamò sconsolata.
Aveva ancora parecchio lavoro da fare con i nuovi rilievi, quella era
l’ennesima tegola tra capo e collo, nel vero senso del termine.
«Tranquilla, mi tengo pronto» garrì, prendendo il volo.
Amelia vide Ang fare un cenno in direzione del cancello ed
un’ombra sparire rapida. Gromi doveva aver sentito il fracasso
delle travi che si flettevano e le tegole che precipitavano nel
sottotetto, e doveva aver deciso di dare un’occhiata, in attesa
di ricevere qualche commessa da parte sua.
«Sai, a volte mi chiedo se davvero volevi tornare in questa
gabbia di matti» le disse l’elfo, posandole un bacio sulla
tempia.
L’Archimaga sorrise serafica. Non avrebbe scambiato quel manicomio con nessun altro posto al mondo.
E così si conclude questa mia prima original, che si è
meritata la creazione di unbannerino apposito. Carino, eh? Ci ho
lavorato un bel po'...
E' stata davvero una bella esperienza, che conto di ripetere al
più presto. Il riscontro delle letture è stato
incoraggiante, avendo sempre scritto nel fanfom di Harry Potter non
sapevo bene cosa aspettarmi, ma non posso che essere felice del
risultato!
Un grandissimo ringraziamento va a tutti i lettori che hanno seguito,
capitolo dopo capitolo, le vicende di Amelia e di tutti gli abitanti di
Villa dei Gelsi, primi fra tutti i miei fedelissimi: Emrys, Gaea e Alicia84, che non hanno mai mancato di farmi avere i loro pareri. Grazie anche a Columbine_Iceshimmer, natalie1977, scricci_, bloodingeyes, erikanordkapp, FeverOfCullen e victorialol, che hanno inserito "Archimagia" tra le storie seguite o preferite.
Con questo vi saluto e... alla prossima storia!
|