Questo racconto ha partecipato al "Natale a Camelot Contest" di LyndaWeasley, aggiudicandosi il Quarto Posto e il Premio Originalità. Qui sotto il giudizio di Lynda e i Banner fatti da lei :)
Quarta classificata: DubheShadow “The Olde Village Lanterne”
Grammatica: 9.96/10 Stile e lessico: 10/10 Caratterizzazione: 10/10 Originalità: 20/20 Utilizzo del regalo: 5/5 Giudizio personale: 4.5/5 Per un totale di 59.46/60 punti.
"Questa tua storia brilla specialmente per l'originalità. Non so che dire, tu hai inventato una trama davvero molto bella e che riesce a stregare il lettore. Quei 0,04 punti in grammatica che ho tolto, sono solamente dimenticanze di punti fermi. Ho trovato tutto perfetto, dallo stile alla grammatica e lasciatelo dire, l'idea del regalo è spettacolare. Non so davvero come commentare questa shot perché probabilmente non ci sono parole. Sei stata bravissima, complimenti vivissimi per questa piccola perla!"
Flebili
fiocchi di
neve cadevano su Camelot. Erano piume d’angelo strappate
attraverso lampi di
magia, e disperse, come grano su un terreno da poco arato, come chicchi
gettati
da mani di nuvole ed aria. Si riversavano dal cielo di bianco dipinto,
trascinate
dalle correnti, poggiandosi sul terreno col rumore di un bacio caduto.
Una
coltre adamantina che si posava dolcemente sull’altura della
città e sui
terreni vicini, portando con sé un’aria fresca e
gioiosa, un’aria di festa. La
brezza si spargeva gelida, accogliente fra le gocce gelate di cui la
volta
celeste la rivestiva, limpida come solo in inverno può
accadere. Ogni suono si
ripercorreva di mattone in mattone, di pietra in pietra delle
costruzioni
paesane, cristallino e ridente.
Per la festività, ad ogni
capanna era stata appesa una
lanterna in ferro battuto, che anche in pieno giorno era accesa della
sua
accogliente e calda luce. Ogni abitazione aveva il suo piccolo faro
d’allegria
e speranza, la fiammella che vibrava e danzava, rifuggendo gli spifferi
di
vento che tentavano di spegnerla attraverso le minute fessure
dell’intelaiatura. Ogni tanto si udiva anche lo sferragliare
momentaneo del
metallo, che sfregava contro il gancio a causa di una raffica
più audace delle
altre. Da lontano, i lumi parevano spiriti appostati ad indicare il
sentiero,
seduti fra la paglia di un tetto o su un barile rovesciato, oppure
ancora
aggrappati a un’asta, i piedi a sfiorare le cataste di legna
per i camini.
Nelle
strade, i bimbi
erano una fiumana che si spandeva, sempre in corsa verso la
felicità; talvolta
picchiettavano ruote di ferro con un bastone stretto in mano, usando la
stessa
foga di un fabbro alle prese con un ferro di cavallo e
un’incudine. E anche i
cerchi volavano come i loro piedi lesti e agili, galoppavano
giù per le strade,
lasciando un’orma continua e ondulata sulla terra imbiancata
da poco.
«Milady,
attendete!» una giovane serva rincorreva ridendo
una fanciulla. Si muoveva velocemente per le vie della città
bassa, superando i
bambini e le case, lo sguardo in avanti per non perdere di vista la
padrona. Le
mani alzavano appena la povera veste per evitare che strusciasse in
terra e
intralciasse il cammino, il tessuto grinzoso che si ripiegava
zuccherato in
mille e mille onde giallo oro.
«Gwen, che meraviglia, ha
cominciato a nevicare!» la donna fuggente
si fermò, voltandosi verso la compagna, il fiato che le si
condensava a poco
dal viso per il gelo. «Non ricordo
quand’è stata l’ultima volta che la neve
si
è posata su Camelot prima di Yule» aggiunse, e
alzò le mani nude al cielo. Fece
un giro su se stessa, i batuffoli ghiacciati che la ricoprivano di
brillanti
colorati d’arcobaleno, e s’intersecavano ai suoi
capelli corvini intingendoli
di gocce d’inverno. Frammenti rilucenti come diamanti
s’incastrarono anche
sulla pelliccia bianca di volpe che le proteggeva le esili spalle.
«Mio padre
diceva che, quando nevica a questa maniera, sono gli angeli del cielo
che
dall’alto sbattono i loro piumini dopo una notte di
sonno».
«Sì, ma
così vi sporcherete tutto il vestito, e gli angeli
non ve ne regaleranno uno nuovo. Stasera avete la cena con il re, non
avete
tempo per cambiarvi, e vi devo ancora preparare
l’acconciatura» Gwen le arrivò
vicino che già la rimproverava dolcemente, il fiato grosso
per la corsa e il
volto appena aggrottato dall’apprensione, che subito si
distese in un sorriso.
Morgana era felice, e solo questo, per ora, contava.
La nobile le prese delicatamente le
mani, guardandola con
fare affettuoso «Non ti struggere. Faremo in tempo, e un
po’ di ritardo non
farà di certo arrabbiare Uther».
«Certo, è solo
la vigilia di Yule. E a Camelot stanno
venendo solo i più grandi re e principi di tutti i regni
confinanti» mormorò la
serva, «e voi mi dite di non
preoccuparmi…» ma Morgana era già
avanti, a
perdersi fra i giochi della prima neve, a carezzare volti di piccoli e
a
rincorrere il nulla, una musica lontana che si spandeva
nell’aria.
“The olde village
lanterne
Is calling me onward
Leading wherever I roam
The olde village lanterne
A light in the dark
Bringing me closer to home”
[La vecchia lanterna del villaggio
Mi sta chiamando in avanti
Dominante ovunque io vada
La vecchia lanterna del villaggio
Una luce nel buio
Che mi porta più vicina a casa…]
«… di pace,
serenità e,» Uther Pendragon bloccò il
suo
discorso, sentendo le porte del salone del castello aprirsi con il loro
clangore inconfondibile. Ne entrò una guardia che fece pochi
passi all’interno
e poi si fermò, profondendosi in un inchino.
«Avevo chiesto di non
disturbare la cena» disse il re,
stizzito, una vena di preoccupazione nella voce al pensiero di cosa
avrebbe
potuto costringere la sentinella a irrompere nella stanza.
«Mio signore, volevo
annunciare l’arrivo di lady Morgana» il
soldato tornò indietreggiando al suo posto davanti al
portone, che richiuse non
appena la ragazza fu entrata. Per un secondo gli sguardi di tutti i
convitati
furono puntati su di lei, attratti dalla bellezza e dal contegno che
sprigionava
la sua figura. Un lungo abito violetto ne avvolgeva le forme sinuose,
stringendosi sulla vita sottile con una cintura intarsiata
d’oro e ametista, la
gonna che si apriva in numerosi veli dalle tonalità del mare
di notte, dei
glicini e delle lavande, delle orchidee e della porpora più
scura. I capelli
erano stati raccolti dietro il capo con una spilla in modo da lasciarle
il
volto scoperto, e una poinsettia irradiava le sue tonalità
rosse rubino dal
lato destro del capo.
L’avevano
attesa per
lunghi minuti, dopodiché Uther aveva deciso di cominciare
anche senza la sua
presenza. Già si dubitava della sua partecipazione, e alcuni
cortigiani avevano
ipotizzato
pettegolezzi e dicerie il cui
dilagarsi fra gli invitati non s’era fatto attendere. Ma ora
era qui, splendida
portatrice d’incanto.
«Scusate, padre, scusate
tutti voi» pronunciò, il capo chino
e le mani giunte in grembo in segno di spiacere.
«Credevo non saresti
più venuta» fece notare l’uomo,
duramente, quindi le fece cenno di posizionarsi sullo scranno vuoto al
suo
fianco.
Il
salone era un
enorme vano diviso in tre navate da colonnati in tufo semplice. Nelle
navate
laterali, più piccole, erano stati posizionati i servitori
di ciascun
convitato, che prendevano parte al banchetto stando in piedi o su delle
panche
addossate alla parete. Al centro, invece, delle lunghe tavolate erano
state
disposte a ferro di cavallo, con la famiglia reale di Camelot posta sul
lato
più breve che fronteggiava il portone in ebano.
«Allora,
sì» continuò Uther, cercando di
riprendere ciò che
si era interrotto, «stavo appunto affermando come questa cena
abbia l’intento di
portare al nostro, e ai regni confinanti, un periodo di pace e
serenità.
D’altronde Yule è sempre stata definita una festa
magica, pagana, e il mio
impegno è di debellare non la festività in
sé, in quanto radicata nella
tradizione del popolo e della stessa corte, ma distruggere la sua
celebrazione
malsana. È per questo che, per stasera, due turni di guardia
si divideranno per
tutta la città, imprigionando chiunque venga sorpreso a
compiere atti malefici
di spudorata magia. Yule deve continuare a vivere come una festa
innocua, e non
malefica. Perciò buona cena, miei cari, e che la mia lotta
al male possa, col
vostro consenso, continuare imperterrita e vincente» al
concludersi delle
parole del re, i commensali brindarono, e in un attimo un centinaio di
calici
dai riflessi dorati e d’argento si portarono alla bocca di
ognuna delle persone
presenti in sala. Ogni coppa riluceva dei bagliori inviati dalle
numerose
lanterne e torce appese a intervalli regolari sulle pareti in pietra
del
castello, creando un gioco di fasci luminosi che rendeva
l’ambiente festoso e
piacevole.
Tutti
sedettero e,
fra risa e chiacchiere scoppiate d’improvviso dopo il
silenzio del discorso di
Uther, presero a consumare le numerose pietanze portate dalle cucine.
Da un
angolo cominciò a dipartirsi una musica allegra e gioviale.
Alcuni musicisti,
fra cui spiccavano un suonatore di ghironda e una giovane che
strimpellava una
chitarra, avevano attaccato un movimento d’introduzione al
banchetto. Una
ragazza dai lunghi capelli biondi e mossi avanzò di qualche
passo sulla pedana
rialzata riservata ai musicanti, e intonò il suo canto
ammaliante e delizioso,
una voce che avrebbe accompagnato, soave, l’intera cena.
“Some choose to fall
behind
Some choose to lead
Some choose a golden path
Laden with greed
But it’s the noble heart
That makes you strong
And in that heart, I'm with you all along...”
[Alcuni scelgono di restare indietro
Alcuni scelgono di guidare
Alcuni scelgono un sentiero d’oro
Gravido d’avidità
Ma è il cuore nobile
Che ti rende forte
E in quel cuore, io sono con te da sempre…]
«Giornata pesante,
Uther?».
Nella
semioscurità
della sua stanza, il re si stava preparando per andare a letto. La
stanchezza,
dopo la fine dell’estenuante cena, si era riversata sui suoi
occhi come un
manto, un panno steso sul corpo di un morto: irreversibile, impossibile
tentar
di riaprire le palpebre che sempre più ardivano a chiudersi
e avvolgere tutto
nell’ineluttabile oscurità del sonno. Era stata
una giornata lunga, sfibrante,
e i postumi della fatica avevano investito il re tutti in un momento,
quasi a
ricordare la sua età avanzata.
Una
voce però lo
riscosse dai suoi pensieri rivolti alle lenzuola calde, un sussulto che
gli
percorse le membra. Quel suono era così familiare alle sue
orecchie, che gli
occhi cercarono subito il viso pallido di una donna, e i suoi capelli
raccolti
in ciuffi come serpi lacustri emerse da un lago.
«Nimueh»
sussurrò l’uomo. La strega era comparsa vicino a
una delle colonne del baldacchino, e ne sfiorava la tenda di raso
amaranto con
la mano sinistra. Le sue labbra contornate di un rosso scuro erano
aperte in un
sorriso devastatore, le sopracciglia inarcate come quelle di chi sa
cosa cerca,
cosa vuole.
«In persona»
rispose lei, avanzando di poco. Le sue vesti,
delicate e dello stesso colore di un acero giapponese, frusciarono
appena fra gli
sfregiati tagli e strappi nella parte bassa dell’abito.
«Dimmi cosa ci fai qui. Non
ho tempo da perdere in
chiacchiere» Uther non staccava lo sguardo da quello della
donna, la ragione
persa fra ricordi tristi, sconvolgenti. Non voleva lasciare che si
prendesse
gioco di lui, non di nuovo, e intanto rimaneva immobile vicino alla
cassapanca
su cui aveva appena posato la cintura con la spada. Qualche membro
della
servitù aveva avuto l’accuratezza di poggiarvi
sopra un vaso pieno di ellebori
freschi, che spargevano nella camera da letto il loro lieve profumo.
«Ho assistito al tuo
piacevolissimo discorso di prima, al
banchetto» cominciò con tono neutrale Nimueh,
«questa volta hai davvero
superato te stesso. Tramutare Yule in una semplice festa per comuni
mortali…
lodevole».
«Ho fatto ciò
che dovevo, sai bene che non tollero la magia,
non qui a Camelot».
«Sai che a Yule noi
Sacerdotesse della Religione Antica
usavamo fare dei doni?» chiese d’un tratto Nimueh.
«No, ne ero
all’oscuro» Uther parve per un secondo
corrucciato, non riuscendo a capacitarsi di cosa l’altra
avesse in mente. La
stanza era illuminata solo da qualche raggio di luna che penetrava
dall’ampia
vetrata posta alle spalle del re, e illuminava di un’ombra
tetra la strega. «Ma
non vedo come questo possa avere a che fare con il nostro
rapporto».
«Uther, sei così
solo ormai. Pensavo di farti un dono» così
dicendo si spostò verso la finestra
a
volta, che dava sul cortile interno del castello, «un dono
speciale».
«Temo i nemici anche quando
portano doni».
«Io ero tua
amica».
«Da quando Ygraine
è morta, non lo sei più, Nimueh».
Seguì
un lungo
silenzio, in cui i due si studiarono, fuggendo l’uno lo
sguardo dell’altro. Il
re attendeva solo che la strega se ne andasse, o almeno dicesse
esplicitamente
cosa stesse cercando di ottenere da lui. Ma non osava chiederglielo di
persona,
e intanto taceva, mentre fuori ricominciava a nevicare.
Una
neve sterile e
sottile cadeva dal cielo, e andava a posarsi sul manto più
compatto delle
nevicate precedenti. Nella notte, anche quei fiocchi freschi si
sarebbero
ghiacciati, rendendo il lastricato del cortile e delle strade
un’unica lamina
scivolosa. I soldati di Camelot non avrebbero potuto usare i destrieri
ancora
per alcuni giorni.
«Morgana ama la
neve» proruppe la donna, d’improvviso.
Uther
rimase sorpreso
da questa sua affermazione fuori luogo. «Non ne ero a
conoscenza…».
«Perché non le
presti abbastanza attenzione. Così tanto
impegnato a combattere la magia! La tua figliastra sta crescendo, e il
tuo
unico pensiero è che sia viva come avevi promesso a suo
padre».
«Basta!» rispose
infuriato, interrompendola, «non puoi
venire qui a rimproverarmi per quel che decido di fare, né
tanto meno se ciò
interessa Morgana».
«Che maleducato…
nemmeno a saper reggere una conversazione
normale. Bene, Uther, sta’ attento. Per Yule, domani su
Camelot…» cominciò a
proferire la donna.
«Taci, strega!»
l’uomo le si fece vicino con fare
minaccioso.
«Domani, su Camelot,
nevicheranno incantesimi».
Nimueh
scomparve, e
così anche l’ultimo urlo disperato del re si perse
dietro i fumi della sua
promessa di dono. «Sta’ lontana da mia
figlia».
Ma
la donna era già distante,
chissà dove. Uther si lasciò cadere sul letto,
affondando nella morbidezza del
materasso. Ogni sera, sentirlo così vuoto gli ricordava
Ygraine, e, ogni sera,
una lacrima solitaria gli solcava il volto. Stavolta, nella stessa
goccia
d’oceano, due volti femminili si condividevano il dolore del
re. Ygraine,
Morgana, Ygraine. Maledetta Nimueh.
“Don't shed a tear
for me
I stand alone
This path of destiny
Is all my own
Once in the hands of fate
There is no choice
An echo on the wind
You'll hear my voice...”
[Non lasciar cadere una lacrima per me
Io resisto da sola
Questo sentiero del destino
È tutto mio
Una volta nelle mani del fato
Non c’è scelta
Un’eco nel vento
Sentirai la mia voce...]
Si
sentì il dolce
suono di un paio di calici che si scontravano fra loro. Il rumore
dilagò per la
grotta come un liquido versato su un tappeto, impregnando ogni fessura
della
sua voce cristallina e felice. Le stesse gemme vermiglie, incastonate
sul
manico in vetro, spandevano la loro calorosa luce. Un richiamo che,
lento,
veniva sussurrato di candela in candela, di torcia in torcia, ogni
fiamma che
tremolava quasi stesse cantando la stessa melodia delle altre.
L’antro
era, per una
volta l’anno, luminoso e caldo, benché restasse
per lo più spoglio com’era
sempre stato. Pareva però aver abbandonato la sua veste
sobria e melanconica,
cercando di preservare la scintilla del Sol Invictus e cullandosi in
essa.
Nimueh
era seduta in
braccio a un uomo e reggeva con una mano un bicchiere colmo di vino
rosso,
mentre con l’altra attorcigliava al dito i ricci biondo
cenere del compagno.
Sorridevano entrambi, sorseggiando ogni tanto dalla coppa.
«Il fuoco ha deturpato il
tuo viso, Edwin… ma l’altra metà
è
di una bellezza esasperante».
«Se mi vedessi con altri
occhi, non diresti così» il giovane
poggiò il calice su un tavolino di legno appena sbozzato che
giaceva affianco
alla poltrona dove erano seduti. Dicendo questo, il suo volto
s’adombrò un poco,
gli occhi verde chiaro trapassati da un bagliore del fato, dalle fiamme
del
passato.
«È una bellezza
solo mia» Nimueh si avvicinò alla guancia
piagata di Edwin, e vi diede un bacio soffuso d’amore.
«Der Shöwel» sussurrò
dopo.
Una
lastra tersa
comparve davanti agli occhi del giovane, tremolando come fosse acqua di
fonte. L’incantesimo
della Sacerdotessa rifletteva un uomo d’immane fascino,
cosparso di un’avvenenza
regale, incantevole. Con l’ingannevole magia, Nimueh aveva
fatto scomparire per
poco le cicatrici lasciate dall’incendio in cui Edwin era
stato coinvolto, e
ora gli mostrava in quella specchiera come era bello, magnifico, se
solo avesse
messo da parte una volta per tutte quel tragico incidente.
«Ti ho sempre detto che non
voglio tornare com’ero,» con lo
sguardo, Edwin percorreva le sue forme lisce che si riproducevano nello
schermo
marino, erano delicate, inconsuete per lui. Gli sembrava
d’esser tornato
fanciullo. Aggiunse: «non voglio… non voglio
mostrare di essere sopravvissuto
così alle crudeltà di Uther».
«Amore, Uther prima o poi
morirà».
«Ma ciò che ha
fatto vivrà per sempre. E se lui deve morire…
che lo faccia per mano di chi cerca pura vendetta». Edwin
passava la sua mano
sulla schiena arcuata della strega, sentendo il gelido tatto della sua
pelle
attraverso la veste sottile. L’incantesimo intanto
sfumò come una bacchetta
d’incenso, lentamente.
«Partirai per
Camelot» lo rimproverò lei, allontanandosi a
stento e facendo presa sui manici di velluto della sedia, il riverbero
di
quella scelta che le offuscava i pensieri.
«Sì, Nimueh.
Solo così potrò far tacere i miei
incubi». La
decisione era chiara sul suo volto, ritornato quello oscuro di un
tempo, le
labbra strette in una smorfia di risolutezza.
«Ma puoi far smettere le
anime che ti tormentano! La
vendetta non è nel tuo cuore: è quella che loro
t’impongono. Cacciali, e sarai
libero».
«Libero come Uther? Non si
merita un giorno di vita in più».
«Altri faranno il lavoro
sporco al posto tuo… potrei
provarci io. Ci ho già provato». Gli occhi della
donna manifestavano
apprensione per il giovane.
«E hai fallito».
Edwin voltò lo sguardo verso una torcia
appesa sulla parete opposta, dove ombre di forme arcane
s’intersecavano alle
rientranze e alle fratture della volta in roccia. Racchiuse un
po’ del rimorso
nel suo cuore, e più dolcemente si rivolse a lei:
«I miei genitori sono morti
in quell’incendio, e per poco non feci la stessa fine
anch’io. Nimueh… sono
loro che cercano pace nella vendetta. Posso rifiutare la pace a chi mi
ha dato
per primo la vita?»
Ma
fu una domanda che
rimase senza risposta. Il silenzio scese fra loro: Nimueh semplicemente
si
strinse al petto di lui, l’emozione che le sconquassava le
membra. A lungo
aveva cercato, con diversi espedienti, di eliminare Uther e di
inseguire lei
stessa quel soave piacere della rivalsa. Ma mai, mai si era arrischiata
a mettersi
così in luce come Edwin aveva deciso di osare. Con Merlin a
corte, pronto ad
ostacolare ogni suo intervento com’era accaduto in precedenza
per lei, poteva
davvero perderlo. E saperlo le doleva il petto e le squarciava
l’anima.
Affondò
il viso fra i
sui ricci, baciandone il collo profumato di gardenia e acqua sorgiva,
pelle
fresca che pulsava di vita. Sentì le braccia di lui legarsi
attorno alla sua
vita, e avvicinarla ancora di più, stringendola in un
abbraccio impetuoso. Le
loro labbra si cercarono, gli occhi chiusi, per perdersi in un istante
d’eterno
fra le onde della passione.
“So when you think of
me
Do so with pride
Honor and bravery
Ruled by my side
And in your memory
I will remain
I will forever be within the flame...”
[Così quando penserai a me
Fallo con orgoglio
Onore e coraggio
Schierati dalla mia parte
E nella tua memoria
Io resterò
Sarò per sempre all’interno della
fiamma…]
Gli
aveva regalato
una lanterna. Di tutti i baci, i doni, gli incantesimi che avrebbe
potuto
dargli, lei gli aveva donato solo una lanterna.
Yule,
la luce… il
simbolo del sole che rinasce sull’oscurità. Un
simbolo di vittoria. E la
lanterna avrebbe significato questo: un lucore affettuoso che dondolava
leggero
nella sua intelaiatura in ferro, e che l’avrebbe guidato come
uno stendardo
portatore di salvezza. O, più semplicemente, portatore di
una speranza di salvezza.
Finché
la lingua di
fuoco avrebbe sfavillato a indicare la via, Nimueh sapeva che il suo
cuore
sarebbe stato con lui. Le rinvennero alla mente le parole che, quella
sera
prima, aveva detto a Uther. Sai che a
Yule noi Sacerdotesse della Religione Antica usavamo fare dei doni?
Quella
stessa notte,
quando Edwin si era preparato per partire alla volta di Camelot, il suo
spirito
di Sacerdotessa aveva preparato il dono della lanterna. Lui le aveva
sorriso
dolcemente, e aveva accolto quella manifestazione di cura con una delle
tante
appassionate effusioni d’amore che si erano scambiati in
quelle ore. La strega
già sentiva la mancanza di quell’aria pervasa di
gardenia, e la sua grotta ora era
impregnata dalla solitudine, la stessa che si era insinuata nel suo
cuore.
Le
fiamme delle torce
e delle candele erano tornate color ghiaccio, l’unica fonte
di colore più vera
rivelata dal suo abito rosso scuro. Dalle sue labbra, che soffrivano la
mancanza di carne da agguantare, e che diventavano man mano
più gelide, pietrificate
in un’espressione impura.
Il
momento di
preparare il dono per Uther era arrivato. Con questo, sperava di poter
quanto
meno spianare la strada ad Edwin.
Erano
già alcuni
minuti che Nimueh camminava avanti e indietro nella sala adibita a
preparare
magie, il mantello che aveva indossato quella mattina che frusciava a
contatto
col terreno ruvido. Non era altro che una stanza circolare dalla volta
a
cupola, priva di sbocchi verso l’esterno e con i muri stipati
di tavoli, armadi
e librerie in legno di diverse altezze. Al centro, si stagliava la
fonte con
cui prevedeva e osservava ciò che accadeva a Camelot,
caratterizzata da un alto
piedistallo e un vaso in granito poggiato sopra. Entrambi erano
decorati con
motivi floreali intersecati a rune e segni magici che contribuivano a
far
apparire le visioni nel recipiente. In quel momento, però,
l’acqua era torbida
e piatta, calma, e non mostrava alcunché.
La
furia continuava a
crescere all’interno della donna. Prima flebile, appena
emersa sotto la cappa di
una tranquillità all’apparenza impassibile, poi
più potente, stravagante, con
culmini e discese improvvise. Ad esse, si accompagnavano istanti di
lucidità in
cui l’idea di un “dono” speciale si
formava nella sua mente, come un pupazzo di
neve in una fredda giornata, la cui bellezza si può ammirare
solo una volta che
il lavoro è concluso.
Così,
una volta che
fu sicura di ciò che stava per fare, si diresse spedita
verso il centro della
sala. Una profezia, una sorta di piccolo gioco, in cui Nimueh sarebbe
stata
giudice e regina, creatrice di distruzione.
«Mieror,
de’filäch, naström
chiåner» dalle sue dita scorsero
fiocchi di neve e spicchi di specchi, che cadendo incresparono le acque
della
conca, da cui furono inghiottiti. Ora una lieve corrente
d’aria opaca si
muoveva in circolo appena sopra il livello del liquido, formando su di
esso
delle piccole onde agitate.
«Mieror, necht
vebeyr». Una fiamma nacque sul catino e ne
percorse velocemente i bordi in pietra, un riverbero viola che
s’accese di
vigore e che in pochi istanti implose su se stesso, spegnendosi senza
alcun
rumore e filamento di fumo. L’unico ricordo che rimase di
esso fu il suo
colore, che ancora si diffondeva violaceo come il mantello della
Sacerdotessa.
«Bene, Uther. Il mio dono
è compiuto» disse compiaciuta, gli
occhi blu oltremare che scrutavano nella sua singolare finestra su
Camelot,
«chiunque calpesterà il segno di Nimueh,
morirà per mano di un mago».
«E ora vediamo come se la
passano in città».
La
prima immagine che
comparve fu quella del cortile interno al castello, illuminato da
sparuti raggi
di sole che perforavano la coltre di nuvole da nevischio, nonostante
fosse già
il crepuscolo, e che venivano estesi dallo spesso strato di neve che
ricopriva
il lastricato. L’impressione che si aveva, osservando bene
l’aria, era che
nevicasse ancora. Però i fiocchi erano spessi; talvolta, fra
miliardi e
miliardi di piccole gocce di ghiaccio, comparivano striature
più luminose e
ampie, dall’aspetto affilato.
Quadrati
di forme
diverse che si abbattevano al suolo, atterrando in un suono attutito
che si
confondeva fra lo spirare del vento e i suoi gelidi sospiri. Nessuno si
sarebbe
accorto presto di ciò che il cielo mandava: incantesimi,
magia. La profezia di
Nimueh.
Dalla
porta
principale del palazzo, si precipitò in strada una fanciulla
stretta in un
mantello verde smeraldo. Scese pochi scalini della lunga scalinata,
quindi si
fermò. La giovane, dalla pelle pallida quasi quanto il manto
nevoso, si levò
subito il cappuccio dal viso, per rivolgerlo in alto. Non si
preoccupava del
freddo che le inumidiva le guance e le impiastricciava i lunghi
capelli, bensì
respirava ad ampi tratti, il petto che sotto le vesti si alzava e
abbassava
visibilmente. Un sorriso le increspava il volto, un sorriso felice,
soddisfatto,
finalmente in pace.
Era
sola. Nimueh
sapeva di chi si trattava, poiché quei tratti le erano
rimasti impressi nella
mente. La pupilla del re, Morgana, una ragazza così
promettente, con i suoi
sogni premonitori… di sicuro con un futuro intriso di
stregoneria.
Le
dispiaceva
promettere una fine a una donna che, in fondo, faceva parte del suo
stesso
schieramento. Ma una conquista desidera un prezzo, una vita per una
vita. E la
Sacerdotessa restò impassibile quando un coccio di specchio
piovuto dal cielo lasciò
una scia rossa sulla guancia della giovane.
Morgana
si riscosse
dal suo stato di beatitudine, e abbassò lo sguardo per
vedere cosa le avesse
provocato quella ferita. Intanto una goccia di rubino, come una triste
lacrima,
scendeva lenta lungo la sua pelle. S’inginocchiò
senza preoccuparsi di
asciugarla, attratta da un riflesso più intenso che si
propagava da uno scalino
più in basso. Prese in mano il frammento, e se lo
rigirò lentamente fra le dita.
Il bordo era affilato, dalle punte acuminate come lance e spade, armi
vere e
proprie. Sembrava che stesse riflettendo, e che pensasse che non ci
fosse
motivo perché oggetti del genere stessero cadendo
giù dal cielo.
Un
simbolo era quasi
inciso sulla facciata della scheggia, su cui si percepiva al tatto
l’incavatura
dell’intarsio. Pareva una runa, con due V sovrapposte, di cui
una al contrario,
che formavano un rombo da cui fuoriuscivano per un po’ le
linee. All’interno di
esso, un puntino appena percettibile. Dalla polla d’acqua,
Nimueh vide Morgana
rialzarsi in piedi e accorgersi che l’intero cortile pareva
cosparso di
piastrine di specchi.
La
figliastra del re fu
striata da un nuovo pezzo passatole sul fianco, e che sdrucì
il mantello senza
lasciarle apparenti ferite. La giovane rientrò
immediatamente nel castello,
portando il primo frammento con sé.
Nimueh
era
soddisfatta. Chiunque fosse rimasto ferito, anche solo graffiato, da
uno di
quelli specchi, aveva il futuro già scritto: marchiato, con
il suo simbolo, che
lo predestinava a morire per mano di uno stregone. Non importava chi
quest’ultimo fosse, ma sarebbe stata la magia, e solo questa,
a staccare la
vita dal suo corpo, per sempre.
La
Sacerdotessa restò
ancora a scrutare all’interno della sua polla, interessata
agli sviluppi della
vicenda. Morgana era stata la prima, ma chi, poi, l’avrebbe
seguita? Non ci fu
tempo di riformulare il pensiero, che manipoli di guardie comparvero,
in
piccoli gruppi, dalle varie uscite del castello. Probabilmente la
ragazza
aveva, una volta tanto, deciso di interpellare subito il padre
sull’accaduto.
Uno,
due soldati
furono presi di sorpresa, e graffiati dalle punte acuminate attraverso
la cotta
di maglia. Altri tre ebbero il viso striato da un taglio sottile. Non
parevano
preoccuparsene, solo si precipitarono all’esterno della corte
per perseguire
chiunque sembrasse essere l’artefice di tutto ciò.
Ogni
persona
dilaniata dagli specchi era una vita in più per il suo animo
avido di morte, e
la gioia s’effondeva in Nimueh. Solo di una cosa provava
ancora rancore: Uther
non era uscito a perlustrare il territorio, quindi non pareva essere
passato
sotto la sua profezia. Temeva che ricollegasse la loro discussione
all’avvenimento prima di poter anche rimanere minimamente
scalfito dal suo
dono.
«Un peccato… un
peccato che colui cui ho preparato il mio
tenero regalo non possa sperimentarlo egli stesso».
Ma
la strega non poté
soffermarsi oltre, rifletterci ancora. Un malessere la percosse tutta,
e fitte
lancinanti sembravano volerle perforare la testa. Un formicolio le
attraversò
le mani, facendole tremare. Andò nell’altra
stanza, per sedersi un attimo sulla
stessa poltrona rivestita in velluto verde su cui soleva stare con
Edwin.
La
posizione seduta
non agevolò però il suo malore, che
continuò ad acuirsi, tanto che ogni
briciolo di lucidità le abbandonò le membra.
Tanto che lei stessa perse
conoscenza, accasciandosi sulla seggiola, gli occhi blu dalle pupille
dilatate,
enormi, e che la facevano sembrare preda di una follia o posseduta da
un
demone. Ma le sue mani ora erano immobili, completamente prive di forza
vitale,
le braccia sottili da cui s’intravedevano le vene violacee
appoggiate
sgraziatamente sui braccioli della sedia. Nimueh era diventata una
statua di
dolore, in cui lo spirito si era staccato dal corpo.
Nell’altra
mente, nell’altro
mondo, una visuale si faceva largo nella nebbia di un’anima
ingabbiata dal
fato. Una visione indigesta, non voluta, ma che gli occhi del cuore
miravano a
continuare a vedere. Forse gli Spiriti della vita e della morte avevano
richiamato, anche solo per pochi istanti, la loro Sacerdotessa.
Così, per
mostrarle, e farle vedere, qualcosa di cui avrebbe potuto pentirsi per
l’eternità. E lei vide…
Edwin
camminava lungo
il freddo sentiero che guidava alle porte di Camelot. Nella sua mano
era
stretta la lanterna di Nimueh, accesa anche se fosse pieno
dì. Erano passati un
paio di giorni da Yule, e lui, armato della sua forza di
volontà, era giunto a
piedi fino al luogo del suo premeditato delitto. La neve si era
sciolta, e un
sole rischiarava di poco dall’alto del cielo.
L’uomo
entrò con passo
deciso nella città, e percorse i suoi viali diretto al
castello, trascinandosi
con la fatica del viaggio lungo le intricate strade dei bassifondi. Il
suo
sguardo… così forte, vigoroso, così
meraviglioso se nascosto dal mantello da
viaggio, s’illuminava nell’ombra gettata dal
cappuccio.
D’un
tratto inciampò
con i suoi sandali in qualcosa di spigoloso che non aveva notato, e
incespicò
un po’, ma non cadde. Un’imprecazione gli
sfuggì di bocca quando vide la
lanterna evadere dalla sua stretta e precipitarsi in terra, i vetri
sottili che
attorniavano la fiamma spaccati in miriadi di fini frammenti. Il
fuocherello al
suo interno si spense quasi contemporaneamente, sfrigolando appena.
Mentre
cercava di riprendere l’equilibrio, zoppicando per alcuni
passi, l’uomo cercò
con lo sguardo cosa fosse stata la causa di quel piccolo incidente.
Individuò un
frantume di specchio, ma gli aveva solo arrossato l’alluce,
non protetto dai
semplici sandali aperti che indossava.
Edwin
continuò il suo
cammino, abbandonando la lanterna in terra, ormai inutile.
Gli
sarebbe mancato,
il cuore di Nimueh… ma lui sarebbe sopravvissuto per
riaverlo ancora, più
vicino di quanto non gli fosse mai stato.
Intanto
Yule, negli
ultimi strascichi della sua festività, aveva preso il suo
ultimo tributo di
sangue.
“Now at the journey's
end
We've traveled far
And all we have to show
Are battle scars
But in the love we shared
We will transcend
And in that love, our journey never ends...”
[Ora alla fine del viaggio
Noi abbiamo viaggiato lontano
E tutto ciò che abbiamo da mostrare
Sono le cicatrici di battaglia
Ma nell’amore che abbiamo condiviso
Noi trascenderemo
E in quell’amore, il nostro viaggio non finirà
mai…]
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