«E
a quel punto, tu ti avvicini e-»
«Frena, frena, frena, mi sono
dimenticato che cosa devo fare prima.»
«Devi darle i fiori,
Alfred. I fiori,
i fiori che hai in mano, riesci a vederli, perdio?»
«Il fatto
che io stia usando un paio di lenti a contatto non significa che non
veda qualcosa che si trova a meno di venti centimetri dalla mia
faccia.»
Arthur annuì, aveva l'espressione di chi ancora non
è
troppo convinto di quanto appena detto, gli occhi fissi su un mazzo
di rose (idea consigliata soltanto perché se l'era ritrovato
davanti
la porta di casa senza volerlo e perché Francis doveva
capire
quand'era che di preciso arrivasse il momento di darci un taglio con
certe inutili smancerie). Alfred, invece, sbatté le palpebre
un paio
di volte, con l'aria spaesata, un ciuffo che sfidava il gel (e la
forza di gravità) e le mani più sudate del
solito, mentre la presa
si stringeva e le dita cominciavano a fremere.
«E se non fosse
ancora pronta? Lo sai come sono le ragazze, ci mettono sempre un
sacco di tempo a prepararsi...»
«In quel caso aprirà qualcuno –
che ne so... Sua madre? In quel caso aprirà la porta e ti
dirà di
entrare in casa e sederti.»
«Dio mio. E io cosa dovrei
fare?»
«Sbatterle i fiori in faccia e tornare in macchina
urlando a squarciagola che sei un idiota, ma proprio un idiota.»
«Ma
io non poss- Ehi! Non prendermi in giro! Non sei divertente, non sei
affatto divertente!»
I dieci secondi durante i quali concentrò
la propria attenzione sembrarono terribilmente lunghi. Dopo il
dodicesimo (era stato necessario tenere il cervello occupato ancora
per un po') Alfred – purtroppo – era ancora
lì, la faccia per
metà confusa e per metà terrorizzata, la bocca
serrata, come se
stesse per vomitargli sul cruscotto da un momento all'altro, gli
occhi che sembravano volerlo trapassare e... E a quel punto Arthur
arrossì e concentrò la sua attenzione sulla
strada davanti a
loro.
«Senti, vuoi darti una mossa? Non ho tutto questo tempo da
perdere, anzi, non ho per
niente
tempo da perdere.»
«Non sapevo uscissi anche tu!»
«Infatti
non vado da nessuna parte, resto a casa a bere qualcosa per i fatti
miei.»
«Francis però diceva che stasera sarebbe
uscito...»
«E
allora?», Arthur sembrava risentito, «Francis ed io
non siamo
amici, non lo siamo mai stati.»
«Ma di solito bevete
insieme!»
«Questo non esclude il fatto che io possa vedermi con
qualcun altro, perché non potrei vedermi con qualcun
altro?»
«Tipo?»
Arthur rimase in silenzio, le mani si
strinsero con forza sul volante, le sopracciglia si aggrottarono
mentre una lista di nomi gli scorreva repentinamente davanti agli
occhi ma nessuno di essi sembrava essere quello giusto. Dannazione,
odiava quando Alfred colpiva nel segno.
«Ecco, lo sapevo.»
«Cosa
sapevi, razza di idiota? Cosa credevi di poter sapere?»
«Che
saresti rimasto solo anche stasera.»
«Mi piace stare da solo,
qualcosa in contrario? Mi piace da morire. Sai, certe volte mi piace
così tanto che mi sento in un'estasi di
felicità.»
«Non è
vero, sei un bugiardo, non è vero Arthur. Ma preferisco che
tu te ne
stia a casa da solo, non sono tranquillo quando vai a bere da
Francis, se proprio ci tieni a saperlo.»
«Non ci tengo... E
comunque questo che significa? Che significa che non sei tranquillo
quando vado da Francis?»
«... Significa che se non mi do una
mossa, arriverò in ritardo. Alle due prenderò il
Settantasette,
anche se non è romantico per concludere un appuntamento non
importa.
Non aspettarmi alzato, ok?»
«Ok, tanto non avevo intenzione di
farlo, sono stanco.»
«Ma hai appena detto...! Non importa.
Buonanotte, Artie.»
Sentì
qualcosa di caldo ed umido prendere consistenza sulla sua guancia e
poi premere appena, poi il respiro di Alfred sulla pelle e quando si
voltò c'era soltanto un enorme sorriso. Quello che successe
dopo,
Arthur non lo registrò nemmeno. Mentre Alfred scendeva dalla
macchina – il mazzo di fiori in mano, la cravatta che
ondeggiava
fuori dalla giaccia ed i capelli scompigliati – lui si
passava una
mano sulla guancia, così lentamente che ogni centimetro
d'aria gli
sembrava un chilometro.
Alfred gli aveva appena dato un bacio lì,
in quel punto appena sotto lo zigomo sinistro, e poi aveva sussurrato
uno dei “buonanotte, Artie”
più belli che lui avesse mai sentito.
«B-b-buonanotte,
Alfred...»
Erano passate da poco le undici quando
rincasò. La sua auto era quasi a corto di benzina, eppure
aveva
preferito imboccare la strada con la quale avrebbe impiegato quindici
minuti di più per tornare a casa, rispetto a quella che lui
prendeva
di solito.
Non gli andava di passare una serata senza Alfred: da
quando si erano trasferiti insieme in una città nell'est del
New
Hampshire, un appartamento abbastanza vicino al college e abbastanza
vicino ad un Mc Donald's – insomma, era andato bene ad
entrambi fin
da subito – non gli era mai successo di farlo. La loro nuova
abitazione si era rivelata abbastanza comoda, due camere da letto,
cucina, ingresso ed un bagno un poco angusto. A parte un topo di
tanto in tanto – che faceva saltare Alfred sulle sedie ed
impazzire
Arthur quando non sapeva dove cercarlo – non avevano mai
avuto
problemi particolarmente rilevanti.
Arthur e Alfred non erano
nemmeno estranei al vivere insieme, succedeva già da sette
estati:
la villeggiatura con i propri genitori diventava troppo noiosa quando
i figli non potevano condividere la stanza l'uno con l'altro. E
così,
malgrado l'intromissione di Peter di tanto in tanto, i due avevano
condiviso il cottage di Tampa, la camera d'albergo di Miami, la tenda
quando erano stati in vacanza nel Rhode Island ed in Canada. Le cose
non erano cambiate nemmeno quando, l'uno appena diplomato, l'altro
che già inseguiva la sua laurea in fisica nucleare, avevano
deciso
di trovare casa nei pressi dell'università.
I genitori di Alfred
erano stati felici del fatto che tra i due l'amicizia sembrasse
rinforzarsi di anno in anno, ed erano altrettanto contenti che,
grazie all'aiuto di Arthur e al suo buonsenso, loro figlio avrebbe
avuto una laurea in economia in quattro e quattro otto. La madre di
Arthur, tuttavia, non era della medesima opinione: sapeva bene che
suo figlio era abbastanza maturo da capire quanto i costi di un
college gravassero su una donna che da sola doveva mandare avanti una
famiglia, ma temeva che la compagnia di Alfred potesse distrarlo
dallo studio. Arthur aveva assicurato più volte che non ci
sarebbero
stati problemi, che avrebbe preso la laurea il prima
possibile.
Arthur lasciò la giaccia nell'ingresso, si diresse
nella sua stanza e si lasciò cadere sul letto spronato dalla
forza
di gravità. Fissava il soffitto con particolare interesse,
come se
volesse studiarne ogni minima crepa e come se stesse cercando anche
le più piccole ed impercettibili macchie di
umidità, non sbatteva
nemmeno le palpebre, tanto era concentrato. Dannazione, ci voleva del
gin, dello scotch, del whisky o qualunque altra cosa avesse effetto
quasi immediato sul suo cervello.
Perché quando gli occhi
cominciavano a vagare per la stanza, cercando un ragazzone seduto
davanti alla tv con un video gioco in mano, quando le orecchie si
concentravano sul rumore che veniva dalla camera accanto, che un po'
era il materasso che scricchiolava sotto il peso di Alfred ogni qual
volta lui si girasse, un po' era il russare, segno che avesse
finalmente preso sonno, quando perfino il naso cercava di sfidare i
propri limiti per riconoscere l'odore (o la puzza) degli hamburger
che andava a comprare e che custodiva gelosamente nel suo scaffale di
frigorifero, allora Arthur capiva che cosa significava quel vuoto,
dovuto soprattutto a una mancanza che si faceva sentire nei momenti
peggiori.
Il fatto che lui ed Alfred avessero cominciato a
convivere (se così poteva chiamarsi il rapporto che ne era
nato) non
aveva fatto altro che aumentare le angosce di Arthur. Perché
se da
una parte l'idea di avere Alfred vicino ventiquattro ore su
ventiquattro lo allettasse più di ogni altra cosa,
dall'altra la sua
vita era diventata sempre più imbarazzante: la privacy era
sparita
tranquillamente, così come la tranquillità ed il
suo nuovo set da
cucito, nuovo,
fiammante.
Arthur aveva capito quanto fosse diventato pericoloso spogliarsi
senza chiudere la porta a chiave o senza sbarrare le finestre, Alfred
sembrava avere un radar per i momenti imbarazzanti e riuscire di
conseguenza ad entrare in quel preciso istante, né un
nanosecondo in
più, né un nanosecondo in meno.
A quel pensiero, Arthur
ridacchiò nervosamente e scosse la testa. A parte tutta una
serie di
piccoli inconvenienti, che andavano dai boxer color rosa antico al
suo spazzolino da denti usato per togliere il calcare dal lavandino,
Alfred era un coinquilino quasi perfetto – se poi un giorno
avesse
imparato a pulire il bagno dopo averlo usato, lo sarebbe stato ancora
di più. La loro era una convivenza pacifica, in cui le liti
non
superavano i dieci minuti, in cui si completavano a vicenda,
perché
Alfred alzava la musica a tutto volume, ma prima di farlo si
premurava di portare ad Arthur il suo pesante volume di biochimica e
i tappi per le orecchie; una convivenza in cui ogni cosa era di
entrambi, in cui Alfred era ben lieto di andare a prendere Arthur
quando doveva tornare a casa e Arthur era (quasi) contento che fosse
Alfred a guidare, dato che lui era sempre troppo stanco; una
convivenza in cui i lavori part-time si accavallavano, in modo tale
che nessuno fosse mai a casa da solo, Arthur tornava a casa dopo aver
lavorato circa quattro ore in un negozio di camicie, e lì
trovava
Alfred che provava a cucinare qualcosa per lui, e appena lo vedeva
sorrideva e gli raccontava di qualche cliente del bar al quale aveva
sputato nel caffè. In quel modo la casa era sempre piena di
risate,
e nessuno era mai da solo.
Osservò il bicchiere che si riempiva
lentamente, quasi fino all'orlo, e poi appoggiò la bottiglia
sul
comodino. Alfred gli aveva detto di non aspettarlo in piedi, e lui
così aveva intenzione di fare, bere per un paio d'ore,
magari poi
guardare la tv (ma soltanto se fosse stato abbastanza lucido da
riuscire a tenere in mano il telecomando) e poi mettersi a letto e
forse fingere di dormire. In quel momento sentì il suo
cellulare
vibrare sulla scrivania, e per un attimo si ritrovò a
sperare che
fosse Alfred che gli raccontava di come il suo appuntamento fosse
stato un fiasco ancora prima che cominciasse, che la ragazza gli
aveva sbattuto i fiori in faccia e che lui ora era talmente depresso
e sconsolato da voler solo tornare in camera e restare un po' da solo
con lui.
Invece, il display illuminato, gli rimandò soltanto la
sequenza di lettere del nome che più odiava al mondo, della
persona
più subdola, melliflua e spregevole possibile, uno dei tanti
motivi
per i quali Arthur voleva laurearsi in fretta: sparire
dall'università e poi inventare qualcosa come un raggio di
fotoni
che disintegrasse quella brutta faccia in men che non si dica.
«Che
vuoi? Stavo per andare a letto.»
Francis era un ex studente di
letteratura antica e aveva conosciuto Arthur circa due anni prima.
Insomma, Arthur considerava i suoi studi piuttosto vani, per quanto
lui amasse la letteratura e l'arte, e non si era mai fatto problemi a
dirlo apertamente. Tra lui e Francis c'era sempre stato qualcosa, ad
ogni modo, che spesso mandava in crisi lui stesso e anche Alfred...
Beh, Alfred non sembrava andare in crisi, non sembrava nemmeno
accorgersene. Comunque, quello tra Francis e lui era odio di fondo, e
in più sentimenti, che non andavano oltre l'amicizia, o
molto più
probabilmente tensione che non avevano potuto impedirgli di andare a
letto insieme più di una volta.
Ma Francis non si limitava
soltanto a quello, ma sembrava divertirsi a esercitare una vera e
propria pressione psicologica su di lui. Francis riusciva a
influenzare le sue scelte, e in un modo o nell'altro Arthur sembrava
reputarlo l'unica persona degna di sorbirsi un certo tipo di
confidenze.
«Così presto? E soprattutto, con
chi?
Perché non vieni a bere qualcosa da me?»
Arthur appoggiò le
dita sulle tempie e cercò di far mente locale su quali
fossero i
buoni motivi per rifiutare – in cuor suo sperava ancora che
Alfred
tornasse a casa presto. Dall'altra parte del telefono, sentì
Francis
ridacchiare e sussurrare qualcosa nella sua brutta e suadente
lingua.
«Che cosa hai detto?»
«Ho detto che sei adorabile
quando ti arrabbi e hai quell'aria confusa.»
«E tu che ne sai?
Non puoi di certo sapere come-»
«Oh, sì che posso. Perché non
guardi fuori dalla finestra?»
Per un attimo il sangue gli mancò
alla testa, e con la faccia pallida lanciò un'occhiata
all'auto
parcheggiata esattamente davanti al suo viale, al conducente che
rideva e teneva il telefono poggiato all'orecchio e al mazzo di rose
rosse che stava appoggiato sul sedile del passeggero. Che Francis
Bonnefoy fosse una sottospecie di maniaco lo sapeva, che avesse
qualche strano fetish, la brutta abitudine di riempirsi di amanti lo
sapeva, ma fino ad ora non aveva mai immaginato che avesse
addirittura potuto trasformarsi in uno stalker.
«Sorpresa!»,
strillò Francis al telefono, e le tempie di Arthur pulsarono
per un
momento, prima di riattaccare e dirigersi alla porta.
Il circolo
vizioso delle relazioni cominciate e mai finite doveva
essere un capitolo concluso della sua vita, avrebbe dovuto esserlo.
Era difficile stabilire quando e come cominciare a ficcarselo bene in
testa, la solitudine giocava brutti scherzi, delle volte.
A un
certo punto della sera, tardi, un telefono cellulare vibrò
sul
comodino accanto al letto. Francis avrebbe voluto chiedere al ragazzo
mezzo addormentato accanto a lui se voleva o meno che rispondesse, ma
quello lo liquidò con un borbottio pressappoco
incomprensibile.
A
quel punto, decise di fare di testa sua. Appoggiò la
sigaretta sul
legno del comodino, in bilico, e passò un braccio sopra al
petto del
ragazzo, sporgendosi verso la sponda opposta del letto con poca
grazia e afferrando il cellulare. Diede un'occhiata al display e poi
ne lanciò una rapida in direzione del suo amante, una rapida
ed
eloquente, che comunque fu male interpretata oppure non fu
interpretata affatto. Eppure, Francis si diceva sempre, la gente
avrebbe dovuto pensarci due volte prima di augurargli un paio di
occhi più espressivi di quanto già non fossero i
suoi.
Stava di
fatto che comunque, il ragazzo sdraiato accanto a lui e avvolto nelle
lenzuola fino alle spalle, non dava segno di volersene fregare
nemmeno un po' di quella telefonata. Non che gliene fregasse a lui
stesso, voleva solo un po' di appoggio dato che il problema era (ed
era sempre stato) di entrambi.
A un certo momento, quando stava
per premere il tasto verde del cellulare e avvicinarlo all'orecchio
destro, il ragazzo si puntellò sugli avambracci, in un gesto
fulmineo e spigoloso che gli era caratteristico. Lo guardava con aria
sospettosa, come se da un momento all'altro Francis si aprisse una
zip sul petto e si trasformasse in qualcun altro (magari l'unica
persona che non avrebbe mai voluto lì, nella sua camera da
letto,
proprio in quel
momento).
«Pronto?»
Una
voce stridula, vagamente acuta di ragazzo giunse direttamente contro
il suo orecchio, assordandolo per qualche nanosecondo.
«Ahahahah!
Francis! Ti ho svegliato?»
Francis
guardò di nuovo il ragazzo accanto a lui, che era tornato
nella
stessa posizione di prima, avvolgendosi nel lenzuolo e lasciando
intravedere, ora, solo due enormi e inespressivi occhi verde
bottiglia.
«Affatto. Non mi ero ancora addormentato.»
«Ah,
meno male! Anche se alla tua età dovresti riposare... Non te
lo
dicono anche i medici o qualcosa del genere? Che dovresti riposare di
più?»
«Alfred,
ho poco più di trent'anni e comun-»
«Trentacinque.»
«Come
ti pare. E comunque stavo leggendo, cosa che dovresti fare anche tu,
se ne sei capace.»
Francis incastrò il cellulare tra l'orecchio
e la spalla, per poi prendere la sigaretta poggiata sul comodino
accanto a lui. Inspirò una profonda boccata di fumo, per non
farla
spegnere. La cenere cadde sul pavimento o direttamente o scivolando
lungo le lenzuola, dove c'erano le ginocchia di Francis piegate e
coperte.
«Certo
che ne sono capace»,
quel borbottio arrivò dopo quasi due minuti.
«Ho i miei seri
dubbi. Come mai hai chiamato a quest'ora?»
Ci fu un breve
silenzio, durante il quale Francis guardò più
volte in direzione
del ragazzo, che dal canto suo non sembrava interessato al loro
discorso (non
ancora,
almeno). Aveva lo sguardo fisso davanti a sé, il labbro
inferiore
sporgeva leggermente più di quello superiore, come a
conferirgli
un'aria di cane bastonato. Dava l'idea di un super colpevole.
«Arthur
non risponde al cellulare.»
Un
super colpevole, e pure latitante.
«Aveva
detto che non sarebbe uscito. Magari è uscito e si
è ubriacato, sai
com'è fatto, non regge nemmeno un bicchierino. Magari ha
incontrato
qualcuno. Mio Dio, e se avesse incontrato qualcuno? Che ne so, un
malintenzionato, qualche drogato all'angolo della strada, un uomo
armato, un ladro, Goblin!»
«Chi?
Senti. Non avrebbe più senso l'idea che Arthur stia
semplicemente
dormendo?»
In quel momento, Francis abbandonò di nuovo la
sigaretta sul comodino e si voltò a guardare Arthur. Con la
stessa
mano gli mostrò un pugno chiuso, stendendo poi soltanto
l'indice e
il pollice per imitare un telefono. Arthur scattò seduto e
infilò
la mano nel primo cassetto del comodino, dando le spalle a Francis
per qualche secondo. Ne riemerse con un cellulare in mano che vantava
la bellezza di sei chiamate perse e tre nuovi messaggi, tutti di
Alfred, naturalmente.
«No
che non ne ha. Dice sempre che non mi aspetterà, ma poi lo
trovo in
salotto che ricama, che legge o che fa, che ne so, una seduta
spiritica con quel suo maledetto unicorno striato blu. Lo so che non
è normale, ma è fatto così.»
«E
tu sei a casa adesso?»
«Non
ancora, sto aspettando un maledetto autobus. Perché?»
«Perché
allora non puoi sapere se Arthur si sia addormentato oppure no.
Facciamo una cosa, mi richiami appena hai preso l'autobus,
okay?»
«D'accordo...»
Francis
tenne il cellulare all'orecchio ancora qualche secondo, fino al
preciso istante in cui fu Alfred stesso a riagganciare. Si
voltò
verso Arthur, che aveva appena finito di leggere l'ultimo messaggio e
riprese la sua sigaretta.
«Allora?», gli domandò Arthur quasi
subito, quando notò il suo sguardo insistente,
«Che ti ha
detto?»
«Ci risiamo. Sta tornando adesso.»
«E tu che gli
hai risposto?»
«Hai sentito che cosa gli ho detto, no? Sei
diventato sordo?», rispose irritato.
«Sì che ho sentito. Ho
sentito eccome. Dio mio, che situazione assolutamente
penosa.»
«Già.»
Rimasero in silenzio entrambi, coperti fino
alla vita dal lenzuolo e con lo sguardo fisso sulla parete opposta
della camera. Il cellulare di Francis era rimasto sul comodino
accanto a lui, per comodità, nel caso la telefonata di
Alfred
arrivasse entro i prossimi cinque, dieci minuti. Arthur invece
sembrava piuttosto distratto, perso in chissà quali
pensieri, tanto
che il suo, di cellulare, gli scivolò via di mano, cadendo
nel letto
tra loro due. Francis cercò di aiutarlo a riprenderlo, visto
lo
scatto di anguilla di lui, ma Arthur cacciò via la sua mano,
e fece
da solo.
«Te ne devi andare», se ne uscì a un
certo punto,
senza nemmeno guardarlo.
Francis voltò di nuovo la testa verso
sinistra, verso Arthur, con l'aria di chi si sente offeso
nell'orgoglio.
«Come sempre. Ma quand'è che ti deciderai a
dirglielo, invece di prenderlo in giro e di prendere in giro te
stesso?»
Arthur scattò sull'attenti, non aspettandosi una
reazione del genere.
«Cerchi rogna o cosa, Francis? Lo sai che
tra di me e te non c'è assolutamente niente. Quindi non hai
nemmeno
il diritto di venirmi a dire-»
Francis ebbe un attimo di
incertezza circa l'opportunità di mettere in chiaro un paio
di cose
una volta per tutte. Poi, con espressione meditabonda, decise che
Arthur proprio se l'era cercata e che lui non poteva farci niente.
Oltretutto le sue fantastiche uscite di scena dovevano essere
verbali, oltre che fisiche.
«Non ne ho nemmeno il diritto?»,
chiese retorico, mentre si alzava dal letto e afferrava velocemente
tutti i suoi vestiti, ritrovandosi per sbaglio in mano la camicia di
Arthur, che dopo fu lasciata, con ben poca grazia sul pavimento.
«Che
cosa sono costretto a sentire. Chi è che patisce le pene
dell'inferno e poi va a cercarsi disperatamente qualcuno che lo
consoli? Fammi
finire,
sta' buono un minuto! Sei tu, bello mio. E io ti ho mai detto che
perdi solo tempo? Che è inutile che convivi con quell'idiota
con la
scusa di aiutarlo in matematica? Santo cielo, a volte sei proprio
cretino, lasciatelo dire! Personalmente credo che faresti bene a
trovarti un fidanzato, o almeno qualcun altro da mettere sul tuo
maledetto piedistallo. Oppure ci parli, per favore, e gli dici
qualcosa, quello che ti pare, qualcosa di molto
convincente,
ma ci parli e gli dici chiaro e tondo che ti piace e tutto
quanto.»
Arthur guardava Francis a bocca aperta. Lo guardava con
quella stessa faccia con cui, prima o poi, un giorno o l'altro,
chiunque aveva guardato Francis per via del suo aspetto, delle
circostante, del suo modo particolare di muoversi o atteggiarsi, per
via di qualche gesto malizioso o di qualche uscita spettacolarmente
memorabile, come lo era appunto stata quell'ultima. Eppure nello
sguardo di Arthur, oltre che ribrezzo, stupore, un vago retrogusto di
odio e di reticenza, c'erano anche ammirazione e gratitudine, per
quanto fosse difficile che tutte quelle cose convivessero
assieme.
«Porta il tuo schifoso culo fuori di qui, adesso.
Fra tre secondi mi alzo e ti prendo a calci. Ti ho onestamente
avvertito. Leviamo l'incomodo? Sparisci subito.»
Nell'auto
regnava un silenzio tombale. Si poteva sentire,
palpare,
una certa ansia, un po' di preoccupazione, qualcosa che pareva essere
veramente angosciante. Quella, lo sapeva, era la parte commovente
della storia, dal suo punto di vista squallida.
Uno dei personaggi sarebbe uscito di scena per sempre, forse. Per
esserci, lui avrebbe fatto il possibile per continuare a fare del suo
meglio.
Alle tre e trenta del mattino, o meglio, mezz'ora dopo
essersi lasciato alle spalle uno dei posti che meglio lo avevano
accolto durante i suoi ultimi due anni di soggiorno in America,
Francis aveva di nuovo gli occhi fissi sul cellulare, abbandonato sul
cruscotto, nonostante stesse guidando per tornare a casa.
Alfred
non lo aveva più chiamato. La cosa lo faceva preoccupare?
Qualcuno,
in quell'auto, era addolorato? Assolutamente no.
Poi, di nuovo,
ebbe il vago sospetto che nella sua mente forze contrastanti stessero
lottando simultaneamente per avere una sorta di predominio. Ciascuna
sembrava voler imporre il proprio flusso di pensieri, Francis
percepiva questa battaglia immaginaria soltanto grazie al pulsare
della testa e a una specie di traballare che sentiva fin dentro il
cranio.
D'un tratto, forse per distrarlo da quella sensazione
fastidiosa (o forse per peggiorare le sue condizioni) il cellulare
squillò e il nome di Alfred comparve per la seconda volta.
La
mano di Francis però esitava, continuava a stringere il
volante e
gli occhi si posarono sulla strada. Perché diamine avrebbe
dovuto
rispondergli? Era stufo di fare il consulente matrimoniale, era stufo
di sentire Arthur lodare o (più spesso) lamentarsi di
Alfred, era
stufo di vedere Alfred trattarlo nella stessa maniera con cui si
tratta una colf molto apprensiva.
«Dio mio Alfred, hai idea di
che ore sono?»
«Avevo
detto che ti avrei chiamato sul pullman, ma l'ho dimenticato! Sono a
casa adesso, Arthur mi stava aspettando. Quando non rispondeva al
cellulare si era addormentato sul divano! Che ti avevo
detto?»
Francis
lanciava occhiate piene di stoicismo alla strada, sperando di
incontrare un'altra auto, un misero passante, perfino una prostituta
gli sarebbe andata bene, comunque sperava di incontrare qualcuno che
capisse fino a che punto si stesse armando di pazienza e di quanta
sopportazione e contegno fosse capace.
«Francis?
Sei ancora lì?»
«Sì.
Sì, ci sono», rispose senza entusiasmo,
bloccandosi un paio di
metri prima del semaforo rosso
«Ti
ho detto che devo chiudere. Arthur insiste per volermi dire una cosa
in questo preciso istante, sembra importante. Ci sentiamo!»
Francis
rimase col cellulare premuto contro l'orecchio. Dall'altro capo non
proveniva più nessun suono – tanto meglio, la voce
acuta di Alfred
gli aveva già fracassato un timpano. Non sapeva se dirsi
felice o
meno dello svolgimento dei fatti. Era stato lui a consigliare ad
Arthur di sputare il rospo, no?
In un certo senso gli dispiaceva.
Beh, più che in un senso solo. Arthur era il suo compagno di
bevute,
il suo confidente, suo malgrado anche un amante. Gli esiti della sua
conversazione con Alfred avrebbero potuto spezzargli il cuore, oppure
riempirlo di gioia. Non aveva voglia di sopportare né l'una,
né
l'altra ipotesi, gli sarebbe andata male comunque.
Nel frattempo,
dietro di lui, qualche automobilista impaziente (e con ragione)
suonò
il clacson un paio di volte. Francis sussultò,
scagliò il cellulare
sul sedile posteriore e gli urlò, per
l'amor del cielo!,
di smetterla di fare tutto quel casino e di lasciarlo crogiolarsi nel
dubbio in santa pace.
Perdonate
eventuali errori di battitura o qualcosa del genere, se non pubblico
questa fic stasera dubito che potrò farlo nei prossimi
giorni
T__T
Comunque non temete, per chi segue le long fic, sono in
arrivo tutte tutte *___*
Oh, domani mi impegnerò a rispondere
alle recensioni a questa fic, e mi sento in vena di scrivere
ultimamente, se qualcuno a una richiesta, che la faccia pure<3
Bye
for now! :D
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