Una
scia di bolle si
riversa nell’acqua, due, tre, quattromila lucide sfere che
scompaiono e
ricompaiono fra i flutti, e che inneggiano battaglia con la spuma
biancastra
loro compagna. Le si può vedere, dietro la barca, che
continuano a rendere il
mare uno smeraldo rilucente, bolle che sono i picchi brillanti delle
sue oscure
sfaccettature. Man mano che l’imbarcazione
s’allontana con il lento rollare dei
remi, anche loro spariscono alla vista, eppure, là,
all’orizzonte dove la
spiaggia diventa sempre più una striscia d’ignoto,
uno sfavillare improvviso fa
pensare che ce ne siano ancora. Per quanto tu le possa scacciare, per
quanto
questa scia possa perdersi fra le sue acque salmastre, un gruppo di
bolle
spavalde segnerà il cammino. E ne porterà il
ricordo, come ogni bolla è un
sogno che, al suo scoppiare, s’interrompe e si acquieta fra
le lande del suo
onirico mondo.
Seguendo
il flusso al
suo nascere, laddove i due filamenti schiumati d’iride
s’incontrano in un solo
punto, sulla chiatta si scorge un giovane uomo. Il sole di mezzogiorno
batte
sui suoi capelli indorati, tanto da rischiararli ancora e bruciarli nel
caldo
tempestivo di una primavera precoce.
I
suoi occhi nocciola
sono posati sul nulla, semichiusi, piccole gocce di sudore a truccarne
le
ciglia folte e a inasprirne la fronte liscia. Il ritmato remare pare
non voler
finire, un avanti e indietro delle solide braccia che non produce
effetti, non
ora che la visuale della terra è stata inghiottita, lontano,
fra i rigurgiti
delle onde, e l’instabile base su cui poggia la barca
è una coperta fluttuante.
Lo
sguardo del
ragazzo pare essere concentrato su un particolare che sfugge, qualcosa
di
incommensurabilmente distante, come solo il sospiro di un pensiero
può essere.
Intanto che il tempo scorre, una lumaca di mare
nell’impotente scenario d’un
acquario domestico, la fotografia di questo singolare mondo assume i
contorni
della stanchezza, della noia. E della voglia di sapere, e scoprire,
cosa
nascondono l’acqua e le tenere bolle che ne pervadono la
superficie.
L’uomo
deve aver
raggiunto il suo obiettivo, perché abbandona i remi di legno
nelle incavature
apposite, le punte che ancora sfiorano il pelo del mare in un solletico
affettato, l’ombra delle loro forme affusolate che crea due
chiazze più scure
ai fianchi della chiatta. Quest’ultima è piuttosto
piccola, tanto da sembrare
una scialuppa di salvataggio di qualche veliero pirata, le stesse
lastre lignee
appaiono scheggiate in più punti e corrose dal sale, le
cicatrici di numerosi,
incantevoli viaggi. Nonostante tutto, la forma allungata della barca ne
favorisce l’andamento veloce e la stabilità, come
se inconsciamente non vedesse
l’ora di frangersi sulle rive di nuove conquiste.
Un
mormorio s’ode a
interrompere la quiete. Lo sciabordare, sottofondo gradevole, ormai
scompare,
le orecchie acuite a cercare questo suono inquieto e a non perdersene
una nota;
come un gabbiano affamato, l’udito rapisce la melodia dalle
fameliche braccia
dell’abisso e ne trangugia ogni impercettibile squama.
«M’avevi
chiamata, Cacciatore?»
Ed
eccola là, regina
del regno, una sirena s’è sporta dalle
profondità sue dimore. Poggia le braccia
sul bordo della barca, nella metà precisa della sua
lunghezza, dove il giovane
per qualche istante l’aveva attesa, seduto. Un appuntamento
galante si dipana
fra le brame del cielo, complice la meriggiata odorosa di saline e di
pesci
quasi come i pantaloni blu stinto di un pescatore, e avvolge piacevole
i due.
La
sirena ha una coda
lunga che si disperde e sfuma le sue tonalità
nell’acqua che le lambisce i
fianchi in una carezza effimera e suadente. Ma lo stesso le sue
scaglie, finché
è possibile scorgerle, attirano per la loro inconsueta
lucentezza: un
acquamarina misterioso, ma non solo quello, il verde delle alghe e il
colore
innaturale di un pesce luna, l’effimera sfumatura di un
frantume d’ametista, ogni
singolo brandello di pelle che racchiude un segreto proveniente dal
mare.
E
lei li protegge,
laggiù, tutti, come timidamente i capelli bagnati le
proteggono i seni nudi,
ricoprendoli dei loro boccoli castani.
«Mia dolce». Lui
che si sporge, seduto su una delle panche
malandate del suo tristo vascello carico di barattoli. Stipati, di
mille e
mille dimensioni diverse, sotto ogni banco, nel ripostiglio chiuso a
prua, e
nell’ammasso informe sull’altra sponda malamente
coperto da un velo
plastificato marrone, sembrano vuoti, infagottati nel tappo che ne
sigilla
l’interno. Ricordano i vasetti di marmellata fatta in casa,
le etichette collose
slavate dai numerosi lavaggi che assieme alla confettura li rende
appiccicosi e
sgradevoli al tatto. Alcune contengono qualcosa, oppure è
solo un raggio solare
più audace degli altri che le cosparge di una polvere
d’arcobaleno e lascia
intendere, appena, una bolla incatenata all’interno delle
ampolle
dell’alchimista distratto.
«Cosa vuoi,
ancora?» gli occhi di
lei, cosparsi dai brillanti di una mestizia sopita,
s’inaspriscono con il tono
di voce. Mia dolce! Se è
così amabile la
memoria che porti di me, amami davvero come il mio cuore vorrebbe.
«Dammi un tuo
sogno» le si avvicina, fin troppo, tanto che
il suo naso tocca quello della sirena, umido d’acqua e
pallido, liscio come un
frammento di rosa. Vuole, desidera quello che chiede, e la richiesta
è quanto
mai più simile a un ordine.
«Dammi un tuo
bacio» l’eco della sua voce femminile e
famelica, un incanto cui nessuno di solito sa resistere. Nessuno tranne
il Cacciatore
di bolle, che resta impassibile, o forse solo irritato.
E,
infatti, egli si
discosta, nonostante sia pronto a donarle ogni effusione lei gli
chieda, pur di
possedere un suo sogno. Ogni Cacciatore sa che non
c’è niente di più prezioso
della bolla di un respiro di sirena… «Respira, mia
dolce, sotto quel velo
d’acqua che t’ha fatto nascere». Ora il
suo tono di voce è più sereno, ma quasi
disperato nella pretesa.
«Ah! Vorrei non averti
ascoltato, quando mi abbracciasti
quella prima notte di tanti anni fa. Non ho più sogni di cui
privarmi». Distoglie
lo sguardo, posandolo fra i flutti dove la sua coda teneramente sbatte
per
mantenerla in superficie. Il suo muoversi per un momento si quieta,
quasi
voglia lasciarsi annegare dalle onde e interrompere ogni discorso. Tutti i sogni, se non uno… che quella
notte, quando cominciai ad amarti, e m’amasti anche tu,
continuasse per sempre.
«So che, invece, ne hai
ancora». Una certezza, come il
sorriso vispo che per un istante gli avvolge il viso. Ogni Cacciatore
sa quanti
sogni esistono al mondo, ogni bolla è un sogno da catturare:
conservarlo, e
tenerlo al sicuro, non farlo scoppiare. «I tuoi sogni
diventano eterni, se solo
li dai a me,» una pausa, e poi, perentorio:
«dammene un altro».
«E tu, come li hai
custoditi! Mi privi della possibilità di
renderli vivi, non è questa una sofferenza di per
sé atroce?» e infine la
volontà ha il sopravvento, e davvero, in un battito di
ciglia, la sirena
scompare, solo un velo d’acqua increspato e una spruzzata di
gocce a segnarne
la partenza. Più giù, l’ultimo bagliore
delle sue squame risponde
all’arrivederci del lucore del sole. E
il
sogno di quest’amore, non lo darò mai a nessuno.
Poiché, già adesso, è solo puro
dolore.
Una
lacrima nel mare
riesce solo a renderlo più salato, e un pianto porta con
sé il silenzio delle
stelle che si gettano nel loro riflesso sull’acqua,
fiocamente, un riverbero
lontano. Di fronte alla distesa che balugina appena, un altro
rischiararsi più
recente sfoggia gocce di luce nella notte. Dagli edifici si scorgono le
ombre del
movimento all’interno delle finestre, varchi illuminati da
lampade dal caldo colore
giallino, e i lampioni delle strade punteggiano percorsi sconosciuti.
Un
sentiero si fa
largo fra esso, buio, oscuro, la via per la solitudine:
s’avvinghia ai
viandanti sperduti, agli innamorati non corrisposti, alle madri in pena
per
qualcosa che non sanno descrivere, un presentimento, la nostalgia, un
rimpianto
nascosto.
Il
porto è incavato
in una baia naturale, al di là di un promontorio su cui
s’inerpica la
cittadella. Poi, spiagge che degradano gradualmente nella riva, e lidi
già chiusi,
e nessuno di cui si scorgano le orme sulla sabbia battuta.
«Perché
piangi?» una voce soave, attutita dal traffico della
parte abitata e dal lungomare in fermento. Diversi metri
però dividono la
confusione della gente dal tetro rifugio nei pressi della risacca.
Il
ragazzo, seduto
sulla rena, alza gli occhi offuscati e cerca invano di ghermire
nell’aria un
volto, un ritratto, a cui accompagnare quelle parole. Ma il suo intuito
è
schiacciato dal peso della solitudine che, tempo prima,
l’aveva ricondotto sul
suo sentiero di sangue. Abbandona la ricerca, solo risponde:
«Perché mi ero
perso, e ora la mia vita m’ha ritrovato».
«Non puoi smarrirti di
nuovo, se questo è capace di renderti
felice?» chiede ancora. Il giovane s’accorge che il
timbro è vagamente
femminile, e si trascina dietro un’eco affabile come il
frusciare delle onde.
«Non so il modo»
tace per un istante, le labbra semischiuse
per lasciarvisi insinuare un pensiero, una commiserata consapevolezza
prima
perduta, «non so più il modo». Ha una
mano poggiata sulla fronte, a reggere una
frangia sbarazzina del color dell’oro.
«Comunque, hai perduto
questo». Si sente il rumore di
qualcosa di metallico sbattuto in terra, il clangore smorzato dagli
sbuffi dei
granelli di sabbia che si dividono per raccogliere in una conca
l’oggetto. La
voce continua, un’altra domanda:
«Cos’è?»
Lui
prende il
manufatto e se lo rigira fra le mani, un sorriso lieve che gli increspa
le
labbra. Fra i palmi sente un manico lungo e legnoso, e alla punta
quella rete
dalle trame vicine, una pellicola viscosa e lievemente appiccicosa come
la tela
di un ragno, tesa a unire gli spazi fra i filamenti. Sotto i piedi
nudi, avverte
d’improvviso l’acqua fresca della sera lambirgli le
dita. Quando si era seduto,
era ancora il tramonto, e la marea non era così alta.
«È il mio retino
acchiappa-bolle». L’altra gli risponde con una
risata cristallina, e il lieve
battere di qualcosa… gli ricorda la coda di un pesce che
s’agita sul bancone di
un pescatore. «Cosa ci trovi di tanto ridicolo?».
Fa lui, sprezzante.
«Niente», dice la
donna, ma il richiamo del suo riso le
rende le parole tremule e acute. «Dimmi, Cacciatore, cosa ci
trovi tu di tanto
bello nell’acchiappar bolle?».
Il
ragazzo sussulta
sentendo una mano bagnata agguantargli il braccio sinistro in una
stretta delicata.
Volta il viso in quella direzione, e i suoi occhi incontrano quelli di
una
giovane che gli sta sorridendo. Nella luce delle stelle, vede un
bagliore
tentennare sulle sue pupille, ma i colori sono sfocati, persi in un
gioco di
flebili chiaroscuri e blu intensi. Si lascia catturare da quello
sguardo marino,
e comincia a parlare: «Trovo sogni. Li conservo» si
ferma, come cercando di
trovare una via semplice per racchiudere il tutto, e scacciare la
confusione
dal volto di lei. Le loro mani ora sono intrecciate, e il suo profumo
salato
gli inebria la mente.
«Sono… un
Cacciatore di bolle. Ogni bolla è un sogno, e
quando essa scoppia anche il sogno scompare, forse per una dormita
interrotta,
lo svegliarsi da un incubo, la fermata del treno tanto atteso che di
colpo
arriva troppo presto. Una sveglia che ti scuote di prima
mattina» viene
impadronito da un tentennamento breve quanto un respiro preso,
profondo, a
incanalare nei polmoni l’aria fresca della calma serata
estiva. «C’è qualcosa
di affascinante nel rubare quei sogni prima che scompaiano del
tutto.»
«Cacciatore! Ladro, invero.
Che te ne fai, di tutti questi
sogni?» la fanciulla è incuriosita, e a ogni verbo
pronunciato si fa più
vicina, attratta da lui, uno sciabordio sommesso che accompagna ogni
sua mossa.
«Li conservo» di
nuovo lo stesso termine, per descrivere il
suo compito, il suo inafferrabile gioco. «Ho delle ampolle in
cui le bolle non
potranno mai rompersi. Dovresti vederle, nello scantinato, tutte
insieme danno
l’impressione di un magazzino angelico. Un tocco di luce e ti
trovi sommerso in
un arcobaleno abbagliante. I sogni lì saranno eterni, mentre
le persone a cui
li ho sottratti continueranno a vivere normalmente… senza di
essi».
«È
crudele» sussurra lei, e il suo respiro arriva a
sfiorargli la guancia in un tenero tocco.
«È normale. Non
puoi interrompere un sogno. I sogni sono
qualcosa di speciale, di fragile. Vanno tenuti al sicuro, lontano da
chi non ne
comprende la vera importanza, da chi non ne apprezza la frangibile
bellezza».
Un velo di malinconia si posa sul tono del giovane.
«Parlami delle bolle,
invece. Sono solo semplici bolle! Ne
esisteranno a miliardi, nel mondo, troppe per essere tutte
sogni» l’incredulità
di lei è tangibile nell’aria.
Il
ragazzo cerca il
suo sguardo. «Forse non sogni abbastanza».
«E tu? Hai ancora qualche
sogno?».
«Non ne ho mai
avuti».
Esistono
tanti tipi
di bolle, ognuno per una specifica varietà di sogno. Il
ribollire dell’acqua in
una pentola per cuocere la pasta, le bollicine dello sbrodolare di un
bambino o
quelle che spuntano su una pozzanghera mentre piove. Il bagnoschiuma in
una
vasca, il sapone fatto apposta per le bolle. Il respiro di qualcuno
sott’acqua.
Il
respiro di una
sirena. Quanti le
ho già rubato? Quanti ne ho mozzati, con i
miei baci, e le bolle che mi ha donato?
Il
Cacciatore si
getta nel mare, dietro alle ultime chiazze di colore che rivelano la
presenza
di lei. Nuota, per quanto sa, fino in fondo agli abissi, il fiato che
gli manca
in gola ad ogni apertura delle braccia in più, ad ogni grado
di temperatura che
s’allontana come la macchia indistinta del sole sopra di loro.
Ricorda
il sapore del
bacio che quella notte si scambiarono, sotto un cielo privo di luna, e
i sogni
che cominciò a rubarle da allora, da quando
s’accorse di quella sua natura
gentile e stupenda. Ricorda il sapore della sua pelle, che in quegli
anni non è
mai cambiato, fresco come il succo di una noce di cocco, salato e
piacevole
come un riccio di mare. Prezioso come una rara conchiglia.
Sempre
più in basso,
a caccia di un sogno. E il paesaggio, quest’acqua
inconsuetamente gelida che
perfora i pori del viso e pizzica le mani, è davvero da
sogno. Si estende,
placido, in ogni direzione, e avvolge tenero, una coperta che leva i
sensi e
intorpidisce le membra, e guida a un sonno vicino.
Le
sue braccia lo
circondano, anche se non sa da dove è spuntata. Fino a un
attimo prima sembrava
così distante, sembrava che l’avesse persa, e il
Cacciatore non voleva che
perdersi con lei. Ma ora la sirena lo sta abbracciando e lo stringe
forte, il
calore del suo petto che con il contatto si diffonde nel suo corpo
infreddolito.
Vede
le bolle del respiro
della donna creare un vortice attorno al suo volto, mischiarsi con i
batuffoli
dei capelli castani sparsi tutt’attorno e salire in un
vortice verso l’alto.
Piccole, incredibilmente pregiate, perle rilucenti
dell’ultimo sogno della
sirena. E nel loro baluginio d’arcobaleno, scorge uno
specchio di loro due,
quella notte, e per tutti gli incontri a venire, un diorama di ogni
bacio e
ogni carezza, e ogni tenero contatto.
Un
sogno non eterno,
forse il più debole e fragile che avesse mai cercato di
racchiudere nelle sue
ampolle malandate. Se solo non fosse stato un Cacciatore, se solo
avesse potuto
averne, è certo che quello sarebbe stato un sogno anche suo.
E, quando l’ultimo
respiro gli sfugge dalle labbra, negli occhi già socchiusi a
lasciarsi smarrire
dal sonno, una piccolissima bolla s’innalza danzando a
confondersi con quelle
di lei.
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