That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Chains - IV.002
- Vigilia di Natale (2)
Mirzam Sherton
Mallaig, Highlands - ven. 24 dicembre 1971
L’ammirai, attraverso i veli del
baldacchino, il corpo flessuoso che si stagliava scuro contro la
luminosità leggera del nuovo giorno, mentre si muoveva nella
stanza alla ricerca della sua intrigante camicia da notte, volata
chissà dove. Sorrisi, la testa sprofondata tra i
cuscini, esausto, vedendola tornare da me: si sedette sul letto, si
chinò a sussurrarmi una facezia all'orecchio, divertita, poi
finalmente si sdraiò di nuovo al mio fianco,
scivolò più vicina, appoggiando le mani calde sul
mio petto, scorrendo, sensuale come un gatto, con il naso sul mio, fino
a stamparmi un bacio languido alla base del collo, sotto la
Runa. Rabbrividii di piacere e grugnii un’altra
maliziosa minaccia, per poi avvilupparmi di nuovo a lei: non accettavo
che si allontanasse da me, non più, nemmeno per un misero
secondo. Doveva esserle chiaro ormai, perché la
sentii rilassarsi, docile, stretta a me ed io sorrisi, il mio viso che
tornava a nascondersi nell'incavo profumato del suo collo, godendo del
suo tepore morbido, ora in parte filtrato dalla seta che, pudica, aveva
insistito per rimettersi subito addosso.
“Tanto tra poco, ricomincio a
spogliarti e... ”
“Maniaco!”
Scoppiò a ridere, tentando di divincolarsi, in
realtà senza molta convinzione, mentre io la serravo a me
ancora di più, senza darle scampo, ricominciando a baciarle
lento e inesorabile l'orecchio; le mie labbra scivolarono via via poco
più giù, sulla Runa del collo, stuzzicando la
pelle delicata, strappandole dei gemiti sommessi, finché,
ghignando, mi staccai lentamente da lei, suscitando le sue deluse
proteste. La baciai teneramente e riprendemmo fiato
così, abbracciati, godendomi a lungo il suo calore e il suo
profumo, disinteressato al chiarore che percepivo di là dei
tendaggi: non m'interessava sapere che ora o che giorno fossero, tutto
era diventato insignificante e superfluo di fronte all’unica
cosa importante, la possibilità di guardarla, di viverla, di
amarla. Liberamente. Completamente. Quando sentii la
necessità di sgranchirmi, distesi appena le gambe,
così trasformai, di nuovo, un gesto innocente come quello,
nell'ennesima, fortuita, scusa per accarezzare la pelle nuda e setosa
delle sue cosce; la strinsi ancora di più a me, con un
braccio, mentre le labbra riprendevano a torturarle
l’orecchio, e la mano libera ritornava a scendere lungo il
suo fianco, per poi risalire lenta, sotto la succinta camicia da notte,
soffermandosi maliziosa sul suo ombelico. Vibrai soddisfatto quando
percepii i suoi leggeri fremiti e continuai, attardandomi a lungo, per
farle bramare ancora di più gli altri brividi, quelli
più profondi, che l'avrebbero percorsa di lì a
poco, quando mi sarei deciso a scivolare con le dita, piano, sempre
più in basso. Sorrisi tra i suoi capelli al suo
brontolio impaziente: l'iniziale titubanza, con cui avevamo ripreso a
conoscerci dopo la lunga separazione, stava lentamente lasciando il
posto alla versione più matura della nostra vecchia
complicità, via via più consapevoli che era tutto
vero, che eravamo insieme, finalmente liberi di viverci appieno, a modo
nostro. L'ebbrezza di essere finalmente adulti e sposati si
scontrava ancora con qualche indecisione e imbarazzo, certo, e la
passione tra noi, di solito, nasceva più facilmente da
approcci giocosi, simili a quelli con cui c’eravamo scambiati
baci e caste carezze ai tempi di Hogwarts, che da audaci tattiche di
seduzione, poco adatte ad amanti ancora inesperti e un po’
imbranati come noi. Eravamo sereni, però, e
riuscivamo a ridere di noi e dei nostri attacchi d’improvvisa
timidezza. Mi sentivo felice, anzi, ero veramente felice.
Felice perché condividevamo la voglia di recuperare con
calma tutte le tappe del nostro percorso, interrotto troppo
bruscamente; felice perché avevamo ancora
quell'ingenuità e quella semplicità che erano
sempre state il nostro modo di essere; felice perché,
nonostante tutto il dolore, riuscivamo a capirci proprio come allora,
anche attraverso semplici sguardi. Ritrovarci così
simili a quelli che eravamo stati, rendeva più facile
superare e annullare tutto quello che di sbagliato c'era stato tra noi,
quasi fosse stato solo un brutto sogno da cui c'eravamo infine
risvegliati: istante dopo istante, ci legavamo sempre di
più, diventando davvero un'entità sola. A volte,
riuscivo persino a convincermi che il Male non potesse farci niente,
che non mi avesse contaminato: se ero in grado di guardare Sile con la
stessa innocenza con cui l'avevo ammirata anni prima, il mio animo non
poteva essersi definitivamente corrotto, non ero ancora perduto
nell'Oscurità, poteva esserci veramente, anche per me, una
speranza di salvezza, nonostante tutti gli errori.
Già ipnotizzato dai suoi sospiri e dai suoi brividi
irregolari, dal contatto con la sua pelle calda sotto i miei
polpastrelli e dal sapore di vaniglia del suo collo sulle mie labbra,
mi lasciai travolgere completamente dai leggeri baci che la mia
adorabile Strega improvvisamente aveva iniziato a tracciare languida
sul mio petto, in cerchi delicati, ricalcando lieve il profilo della
Runa. Quando le sue labbra risalirono e si schiusero sul mio collo,
mordicchiando e baciando, annullarono del tutto le mie già
scarse capacità di controllo: non cercai nemmeno di
resisterle, sapevo che era una causa persa, pudore ed eccitazione si
fusero nel mio sangue mandandomi la faccia in fiamme, il respiro si
ruppe in gemiti che cercai di soffocare contro il suo collo, mentre
Sile sogghignava tra i miei capelli, compiaciuta degli effetti che le
sue attenzioni avevano su di me.
“Perfida Strega... pericolosa
e maliarda!”
Rise, io staccai il viso dal suo collo, la guardai confuso, mi persi
nella contemplazione di ogni sua singola lentiggine, del colorito
rosato che le mie carezze e il mio desiderio le dipingevano addosso, mi
soffermai sugli occhi luminosi, e sulle labbra ora appena dischiuse in
un sorriso, mi ci tuffai in un nuovo bacio vorace, per separarmene
lentamente, accarezzandole a lungo con le mie. Amavo stare
così, sdraiato per ore sul fianco, di fronte a lei, stretto
a lei, sentire le sue gambe serrarsi ai miei fianchi, le sue unghie
appassionate sulla pelle; amavo sentire il suo cuore che all'improvviso
prendeva velocità andando a cozzare sul mio petto, come in
quel momento, sentire il suo respiro che via via si faceva
più corto, mentre le mie labbra e la mia lingua scendevano a
ripercorrere, umide, la curva morbida del suo seno, soffermandosi qua e
là in timidi morsi delicati. Amavo le nostre dita
che disegnavano figure immaginarie sulla nostra pelle
riarsa. Amavo i nostri corpi, che si svegliavano l'uno al
risveglio dell'altro. Amavo il fatto che non eravamo solo
questo. I suoi brividi di piacere e i suoi sospiri
m’incendiarono come altre infinite volte, in quei giorni; mi
persi in quel turbine di sensazioni, abbandonandomi a esse, fino a
riemergerne, sfinito e felice, con una chiarezza nella mente e una
sicurezza in me stesso che quasi mai avevo provato in vita
mia. Mi strinsi, affannato, a lei, estasiato che tutto questo
fosse solo una parte, meravigliosa e appagante, di una
felicità più grande, consapevole che il mio
desiderio di lei andasse ben oltre quella straordinaria
complicità fisica. Molti l’avrebbero considerata
una ridicola manifestazione di debolezza, ma io non potevo negare con
me stesso quanto apprezzassi tutte le attenzioni di Sile, anche quelle
più innocenti, anche quelle slegate al momento della
passione; le cercavo continuamente, proprio quanto cercavo
l'intimità che finalmente potevamo condividere. E
le cercavo per me stesso, non solo perché, lo vedevo,
rendevano felice lei. Adoravo la tenerezza con cui intrecciava
le sue dita alle mie, le coccole con cui ci arrendevamo insieme al
sonno, stretti una tra le braccia dell'altro, i baci che ci davamo per
il semplice piacere di baciarci, il senso di protezione che mi
trasmetteva, lei, uno scricciolo in confronto a me, le delicate
carezze, con cui scioglievamo a vicenda ogni imbarazzo o
incertezza. Stando ai precetti di forza e dominio di
sé, che Fear e mio nonno mi avevano trasmesso, quelle erano,
invece, il genere di sciocche stupidaggini da rifuggire, le sensazioni
provate qualcosa di vergognoso e futile, da sopprimere sul nascere,
come ci si aspetta da un vero Slytherin. A me, già
preda, da sempre, di dubbi e passioni, di fronte alla
felicità piena che vivevo con Sile, di colpo non importava
più essere quel tipo di uomo, uno Slytherin perfetto e
impassibile: per tutta l'adolescenza, mi ero sentito in colpa per le
mie incertezze, avevo cercato di resistere ai miei dubbi e mi ero
tormentato se non ci riuscivo, mi ero sottoposto a situazioni che non
mi appartenevano, che anzi addirittura mi disgustavano, solo per
dimostrare a me stesso che ero forte, che ero sicuro come tutti gli
altri, che non ero succube delle stranezze di mio padre. In
realtà, negli anni avevo iniziato a intuire che ribellarsi
era uno spreco di tempo, perché non si può mutare
ciò che si è, ma ora, come un cieco che
recuperava finalmente la vista, vedevo che non c'era proprio nulla di
male nell'essere com'ero, un figlio cresciuto secondo gli insegnamenti
di suo padre, insegnamenti fatti di sentimenti autentici e senso
critico. Potevo anzi trarne beneficio.
Tra le braccia di Sile, tutto all’improvviso aveva acquisito
un senso, come tessere di un puzzle, ogni pezzo, caotico, era andato al
suo posto, disvelando l'assoluta bellezza dell'insieme: l'unica cosa
che dovevo fare era chiudere gli occhi, accogliere con gioia quelle
sensazioni senza pensare, lasciarmi andare alla felicità,
dimenticando per sempre quei velenosi, vuoti, fallaci precetti e il
Male che seguendoli si faceva a se stessi e alle persone che portavamo
nel cuore. Proprio come aveva fatto mio padre, che aveva
lasciato che l’amore per la sua donna e per la sua famiglia
lo trasformasse, diventando il fulcro della sua esistenza e della sua
reale forza. Alla fine, stranamente, mi scoprivo a pensare a lui quasi
ogni sera, soprattutto quando, dopo aver cenato, accendevo il
giradischi e invitavo Sile a ballare con me nel salone: d'un tratto
ricordavo me bambino, a Essex Street, la mia ammirazione per lui, la
determinazione con cui avevo imparato a ballare con la mamma per
assomigliarli, perché, quando li guardavo sorridersi davanti
al fuoco, tenendosi per mano o volteggiare baciandosi come due
ragazzini, desideravo già allora poter illuminare la mia
vita con un amore simile al loro, un giorno, quando fossi diventato
adulto. Quella vita, quella felicità era stato il
mio primo vero sogno, prima ancora del Quidditch, e ora quel sogno si
era fatto carne e sangue: lo tenevo stretto tra le mie braccia
sentendomi finalmente l'uomo più completo e felice della
terra.
Mi staccai da lei, solo per riprendere subito a indugiare, lento, sulla
sua bocca, deliziandomi nel vederla rossa per i miei delicati tormenti,
girovagando senza meta, con le dita, sulla sua pelle ancora scossa dai
tremiti: la fissai in contemplazione, rapito, incredulo, pieno di
meraviglia e gratitudine perché era lei, perché
era lì, perché era con me, tra le mie
braccia. Accostai lieve le labbra al suo orecchio e, quasi
recitassi una litania segreta e antica, ripetei infinite volte, tra
infiniti baci, tutto l’amore che provavo per lei, come avevo
fatto tutte le notti, in segreto, quando la credevo addormentata, e la
stringevo a me e ascoltavo in silenzio il suo respiro o il pulsare
regolare del suo cuore, baciandole delicatamente la fronte,
ringraziandola per aver continuato ad amarmi, a credere in noi, a voler
tornare da me, anche nei momenti più oscuri. Portai la
destra sul suo viso, deliziandomi del contatto con la sua pelle,
intrecciai le mie dita tra i suoi capelli, Sile mi guardò,
in silenzio, accarezzandomi teneramente a sua volta: con un tuffo al
cuore, nei suoi occhi, rividi la stessa luce pura e perfetta, fatta di
fiducia e speranza, di quando, ragazzini, in riva al Lago Nero, avevamo
scoperto di esserci innamorati. Sile mi guardava come io
guardavo lei, mi amava come io amavo lei. Era con quello
sguardo che Sile mi rendeva felice e completo, era con quello sguardo
che sarei diventato, giorno dopo giorno, l’uomo che avevo
sempre desiderato essere.
***
Meissa Sherton
Ospedale McCormacc, Inverness, Highlands - ven. 24
dicembre 1971
Immobile, stretta nella mia vestaglietta da
camera, i piedi affondati in morbide babbucce pelose, non trovavo il
coraggio di entrare, restavo lì, indecisa, sull'arco della
porta, osservandolo da lontano, sospettosa e trepidante, in attesa di
un cenno di vita, gli occhi fissi a scrutare la sua figura, che
intravvedevo tra i veli candidi del baldacchino. Era accaduto tutto
velocemente, la mattina precedente, mentre Inverness si svegliava
coperta da una candida coltre di soffice neve: non era ancora l'alba,
quando all’improvviso avevo sentito i Medimaghi e i Guaritori
accorrere affannati nella stanza accanto alla mia; il cuore mi era
sobbalzato nel petto, mi ero messa seduta tra le coperte, l'orecchio
teso, attento, per cercare di isolare la voce di mia madre in mezzo a
tutta quella confusione. Il sangue sembrava avesse cessato di
scorrermi nelle vene, per secondi interminabili, terrorizzata all'idea
che lì, a pochi metri da me, si stesse compiendo la tragedia
che ci avrebbe gettato tutti nella disperazione più
profonda. Poi... Poi avevo udito quella voce. Strana, sottile,
impastata, debole... ma era, senz'ombra di dubbio, la Sua voce. Mi ero
pizzicata una gamba con le dita, per essere sicura che fosse vero, che
non stessi ancora sognando, poi, mentre la voce sembrava scaldare il
mondo, librandosi come la musica più bella, avevo iniziato a
piangere, in silenzio, tutte le lacrime che si erano congelate dentro
di me, in quei giorni dalle ore buie e interminabili: lacrime di paura,
di dolore, di rabbia emersero d'incanto, trasformate per Magia in gioia
e senso di liberazione. Mio fratello, Rigel, si era
risvegliato dal suo torpore, e ora era di nuovo con me, con tutti noi;
presto sarebbe tornata nella mia famiglia anche la
serenità. E presto mio padre avrebbe ritrovato il
sorriso che tanto agognavo.
“Mei... ”
Affondato tra le calde coperte e le sete del baldacchino, Rigel mi
chiamò a sé, la voce appena percettibile; mi
avvicinai, titubante, preoccupata per averlo svegliato in qualche modo:
non dovevo disturbarlo, non dovevo avvicinarmi, dovevo lasciarlo
riposare. Eppure avevo bisogno di assicurarmi che fosse vero, quindi
magari… sarei rimasta… magari solo un istante.
“Scusami, non volevo
svegliarti... ”
Mi sedetti lieve accanto a lui, sulla coperta color panna, decorata da
una fitta rete di rombi intrecciati, iniziando a sistemare con le dita,
ossessivamente, un lembo del lenzuolo: non avevo il coraggio di
guardarlo in faccia, avevo paura che l’illusione si sarebbe
spezzata e lui sarebbe scivolato via, di nuovo, lontano dalla nostra
vita. La sua mano, però, andò lenta a
chiudersi sulla mia, interrompendo i miei gesti, sentii il calore
sprigionarsi dalla sua pelle e scaldarmi: era vero, era fatto di ossa e
carne, non era un sogno, era mio fratello. Non riuscii a
resistere oltre, sollevai gli occhi su di lui, sperando di non piangere
o mi avrebbe preso in giro fino alla fine dei miei giorni: i suoi
capelli erano scomposti in ciocche nere e disordinate, appiccicate al
viso, pallido e smunto per la febbre, gli occhi erano molto
più grandi e scuri del solito, lucidi, cerchiati dalla
malattia, le labbra erano screpolate, ma non più
livide. Gli chiesi se avesse bisogno di bere, fece appena un
gesto di diniego con la testa, mi fissava e mi stringeva la mano in una
presa che non era mai stata tanto forte: si stava aggrappando a me,
come io mi ero aggrappata per giorni alla speranza. I suoi
occhi scivolarono via dai miei, io seguii la loro direzione e vidi che
cosa l'aveva attirato: stava osservando le nostre Rune, così
anch'io, sorpresa, notai che l'inchiostro sacro era diventato
stranamente pallido sulla sua pelle. Ci guardammo per alcuni
interminabili secondi, muti, carichi di domande, turbati: non avevo
idea di cosa significasse, al contrario, mio fratello non mi sembrava
poi troppo sorpreso.
“Come stai?”
Sorrise, seguendo una linea di pensieri completamente diversa, o forse,
intuita la mia preoccupazione, finse soltanto di pensare a
qualcos'altro.
“Lo chiedi a me? Sei tu che
ancora poltrisci a letto!”
Cercai di impostare la voce nel mio solito tono scanzonato, ma
uscì solo una patetica imitazione di me stessa: ero ancora
terrorizzata, e incredula, e felice e… sì,
forse... anche arrabbiata, come lo ero ogni volta che si cacciava nei
guai per dar seguito a uno dei suoi stupidi scherzi. Stavolta
però non si era trattato di uno stupido
scherzo. Iniziai a tremare, senza capire cosa fosse quel
tremito: mi aveva preso all'improvviso, sentivo le lacrime che
risalivano di nuovo a stringermi la gola, anche se cercavo di non
piangere, non di fronte a lui, a quello stupido, idiota, insopportabile
di mio fratello!
“Nemmeno tu, sorellina, sembri
pronta per un ballo... col tuo Black!”
Lo guardai, con le guance che, lo sentivo, diventavano rapidamente
porpora: pur a stento, con un'aria ancora sofferente, si fece largo sul
suo volto la tipica espressione divertita e curiosa che mi rivolgeva
spesso, in particolare quando mi pungolava su Sirius; solo dopo un po'
tornò serio.
“Dimmi di te, dimmi che cosa
ti è successo, Meissa!”
Ero interdetta: come faceva a saperlo? La mamma si era
raccomandata di non disturbarlo, nostro padre stava sempre chiuso nella
propria stanza, non capivo chi potesse essere andato a raccontargli
quella storia.
“Come lo sai? Nessuno doveva
disturbarti, Rigel! Nemmeno io avrei dovuto... Chi è
stato?”
“Ho le orecchie, ricordi? Ho
sentito tutto... Non riuscivo a svegliarmi e a parlarvi... Non capivo
bene, ma... Sentivo... la mamma piangeva... dicevano che
papà stava morendo e che tu eri sparita... Io non potevo
fare niente, non potevo muovermi… Dimmi cosa è
successo, Mei... Dimmelo per favore!”
“Ti dirà tutto
papà, quando sarà il momento. Devi riposarti,
ora... Sei ancora debole e... ”
“Dimmelo, Mei... O mi
alzerò da qui, mi lascerò cadere a terra e
sarà tutta colpa tua!”
Si sollevò a fatica a sedere sul letto, aveva in faccia una
specie di ghigno, fatto di sofferenza e determinazione, non la solita
smorfia divertita che mi rivolgeva quando stava per combinarne una
delle sue, mettendo nei guai anche me. Non scherzava, l'avrebbe fatto
veramente: qualsiasi cosa decidessi, ero già nelle
condizioni di farmi riprendere e punire dalla mamma, me lo meritavo, me
l'ero cercata, avevo disubbidito nel momento in cui ero entrata in
quella stanza, tanto valeva scegliere il male
minore. Benché, quando la mamma si arrabbiava, ci
fosse poco da scherzare, per la prima volta dopo giorni, riuscii a
sorridere, perché se agiva così, allora voleva
dire che mio fratello era tornato in sé. La vita
era infatti scandita da situazioni assurde e pericolose come quella,
quando si aveva per fratello una canaglia come Rigel Sherton ed io...
in quei giorni, in cui avevo temuto di perderlo, avevo capito che, pur
insopportabile, non l'avrei voluto diverso da com'era, per niente al
mondo.
“Se ti rimetti
giù...Ti racconto quello che so, anche se è poco,
a dire il vero... Sono caduta e mi sono rotta il naso, dicono... ora
sto bene, ma... non mi ricordo quasi niente... Quando mi fanno delle
domande, spesso non so cosa rispondere: mi sembra tutto confuso nella
mia testa, come se qualcuno ci avesse rovistato dentro... e... Ho
perduto l'anello di papà... ”
A quell'ultima parola Rigel mi fissò ancora più
intensamente, aveva una luce cupa nello sguardo, come se capisse
qualcosa che a me sfuggiva, ma non mi fece domande, anche se doveva
averne parecchie, restò invece muto, per tanto tempo, a
guardarmi le mani, simile a una sfinge.
“Io ricordo tutto invece,
anche troppo... Per questo non vedo l’ora di poter uscire da
qui!”
Gli occhi, persi a studiare la colonna del baldacchino davanti a
sé, facevano spavento, spiritati, con una convinzione che
non aveva nulla a che fare con la sua solita propensione a mettersi nei
guai: desiderio di vendetta, era questo che gli leggevo in faccia.
“C'era un uomo,
giù, nei sotterranei, stava cercando di rubare la spada di
Hifrig... Ho cercato di fermarlo e lui mi ha lanciato addosso
incantesimi e maledizioni, poi è scappato ed io l'ho
inseguito, su, fino al cortile... è lì che
è successo tutto... L'ho visto, sai? L’ho visto
bene... Piccolo e agile, cattivo… Ha ucciso l'Elfo per
spegnere il braciere, voleva far entrare i suoi complici e ucciderci
tutti: era un Mangiamorte, Mei, un Mangiamorte vero, un servo del
Signore Oscuro... Io gliel'ho impedito e lui ha cercato di
ammazzarmi... Non so cos'è successo dopo che mi ha colpito,
ma… Saprei riconoscerlo... Quegli occhi, quella voce
metallica... Lo ritroverò e, te lo giuro, si
pentirà di quello che ti ha fatto!”
Lo ascoltavo atterrita, mentre costruivo nella mia mente la scena
spaventosa che mi stava descrivendo: vidi un uomo vestito di notte, il
viso nascosto da un'orrenda maschera argentata, che mi colpiva, mi
trascinava per i corridoi, lasciando a terra una scia del mio sangue,
estraeva la bacchetta e la puntava contro di me, recitando formule che
nemmeno osavo immaginare. Confusa e intimorita, non capivo se
fosse solo un parto della mia fantasia, sollecitata dalle parole di
Rigel, o la verità, la verità dolorosa che la mia
mente cercava di celarmi in tutti i modi.
“Basta, Rigel! Per favore,
basta! Io… io non voglio... Non voglio nemmeno che tu lo
dica...”
Scoppiai a piangere, come una stupida, non potevo sopportare l'idea che
succedesse di nuovo, no, non poteva assolutamente succedere di nuovo, a
nessuno di noi, mai più. Rigel mi
guardò, dapprima incredulo per la mia reazione esagerata,
poi la sua faccia assunse un'espressione strana, vagamente imbarazzata,
infine con la mano, strinse di nuovo la mia, in una goffa imitazione
dei gesti consolatori che Mirzam mi riservava spesso e per i quali
Rigel, di solito escluso dai nostri momenti di tenerezza, ci prendeva
acidamente in giro.
“Non succederà
più, Mei, non succederà più niente a
te, a me, a nessuno di noi, te lo prometto!”
Si sollevò a fatica per abbracciarmi, io lo strinsi a me: mi
si fermò il respiro quando lo sentii così magro,
tra le mie braccia, sembrava consumato, potevo contargli le ossa sotto
le mie dita; la mente corse subito alle altre rare occasioni in cui
Rigel mi aveva abbracciato, trasmettendomi una sensazione di salute e
forza. Eravamo sempre soli quando si lasciava andare con me,
davanti a Mirzam non lo faceva mai, anzi, con nostro fratello,
addirittura, a parte di Quidditch, tendeva a non parlare proprio; per
la prima volta, osservandolo così fragile, mi chiesi se in
quella sua testa bacata non ci fosse qualcosa di più di
quello che avevo sempre pensato, se potesse essere geloso dell'affetto
che legava Mirzam e me e se le continue baruffe che scoppiavano tra noi
due esprimessero questa sua assurda gelosia o un suo modo contorto di
manifestare il suo affetto.
“La mia sorellina che piange
per me! Devo essere ancora nel mondo dei sogni... o forse sono morto
per davvero, ahahah! ”
Mi staccai da lui, incredula, asciugandomi rapida gli occhi e
guardandolo in cagnesco: no, era inutile illudersi su Rigel, non ero io
a non comprenderlo, era lui che... Era solo un cretino, un
vero cretino, proprio come avevo sempre pensato!
“Come ti permetti di scherzare
su questo? Come? Sei solo uno stupido, Rigel! Uno stupido idiota! Spero
che ti si annodi la lingua! Così la smetterai di dire le tue
solite...”
Era scoppiato a ridere, vedendomi saltare in piedi, infervorata, gli
occhi ancora umidi di pianto che già saettavano minacce, la
bocca che s’incurvava nella solita rabbia, il corpo tremante,
i pugni stretti, preda della furia: avrei voluto picchiarlo e lui lo
sapeva, eccome se lo sapeva! E più se ne rendeva conto,
più rideva, e più rideva più io lo
detestavo. Finché un violento colpo di tosse lo
bloccò, togliendogli quasi il respiro ed io rimasi
impietrita a guardarlo, senza sapere cosa fare, consapevole che era
tutta colpa mia, perché come una sciocca l'avevo fatto
agitare, come una stupida io... e ora...
“Rigel... Rigel... Salazar...
Rigel!”
La tosse cessò di colpo, sostituita da una voce sottile ma
sicura, da risate e moti di scherno. Io rimasi impietrita.
“Ahahahah! Che Serpeverde sei?
Prima lanci maledizioni poi cedi al tuo cuoricino tenero! ”
“Tu... Che cosa... Rigel!
Tu... tu... come... come hai potuto?”
“Ahahahah!”
Gli diedi le spalle, raggiungendo rapida la porta, decisa a non restare
lì a farmi prendere in giro un secondo di più, in
mente improvvisa l'idea assurda che anche negli ultimi giorni avesse
finto di star male solo per farsi gioco di tutti noi, solo per farci
morire di paura. Perché mio fratello era
evidentemente un pazzo e, si sa, i pazzi son capaci di qualsiasi cosa!
“Dove vai? Torna qui,
Mei…”
“Scordatelo!”
“Dai... scusami…
hai ragione... non si scherza su queste cose… hai ragione...
dai, Mei… mi annoio qui da solo... mi dispiace…
veramente… scusami... ”
Mi voltai, mi stava porgendo la mano, di nuovo steso nel letto,
l'espressione affaticata e mesta, tutta quell'agitazione l'aveva
stancato veramente, ed io... era colpa mia, lo sapevo, ma ero troppo
offesa dalla sua cattiveria e non potevo cedere, no, non ancora.
“Sei proprio uno stupido,
Rigel! Non ti perdonerò mai! Non resterò mai
più qui con te!”
“Se resti, potrai vendicarti
di me come preferisci almeno per una settimana intera, Mei,
subirò senza fiatare, te lo prometto!”
“Certo, così almeno
mi mettono anche in punizione! No grazie! Potrei restare solo se
ammettessi quanto sei stupido e se promettessi di non farlo
più! Voglio tornare a casa, Rigel... e nonostante tu sia il
più cretino dei fratelli, ed io ti detesti con tutte le mie
forze, vorrei ci tornassi anche tu… non per me, s'intende,
ma per la mamma... ”
Con un sospiro rassegnato, fece un cenno d’intesa con la
testa e sussurrò, appena percettibile, “Sono solo
uno stupido, ha ragione mia sorella”, ma non era
più un gioco, ormai, lo vedevo bene, era così
affaticato da non poter quasi reagire. Con un groppo in gola,
sfuggendo il suo sguardo, gli sistemai meglio i cuscini e gli accostai
per bene la coperta, poi tornai a sedermi sul letto accanto a lui, gli
presi la mano, osservando le sue Rune sempre incredibilmente
pallide. Speravo che si calmasse e tornasse tutto come prima
mentre ascoltavo il suo respiro affaticato e seguivo i suoi occhi persi
nel lento volteggiare dei fiocchi di neve, fuori dell'ampia finestra.
“È vero che
è stato Lestrange a trovarti?”
Guardai fuori anch'io: non ricordavo niente, sapevo quello che mi
avevano raccontato gli altri, ma nessuno aveva idee precise sulla mia
scomparsa, o sulla presenza di Rabastan all'interno della
torre. Mi costava fatica ammetterlo, ma a me quel ragazzo,
anche se era tra i più cari amici di mio fratello, aveva
sempre fatto paura, l'avevo trovato inquietante fin dalla prima volta
che l'avevo visto, al matrimonio di suo fratello, e il modo in cui mi
guardava, a scuola, mi metteva i brividi, anche se non aveva mai fatto
o detto apertamente qualcosa per spaventarmi. Ora
però non sapevo cosa pensare, sospettavo di averlo sempre
giudicato male: dicevano che mi aveva trovato lui, quella sera, per
sbaglio, mentre cercava di fare uno scherzo a mio fratello, di certo,
riportandomi da mia madre, aveva però salvato la vita a
Rigel e a papà. Negli ultimi giorni, si era anche presentato
lì, all'ospedale di Inverness, tutte le mattine, per avere
notizie: l'avevo visto dalla finestra, giù nel chiostro, che
passeggiava, attardandosi a fumare in mezzo alla neve o accarezzando un
gatto di passaggio, il volto celato dal cappuccio, che si sollevava
brevemente verso le nostre finestre, in attesa di una buona notizia, o
quando si sentiva osservato. Ogni volta che mi scorgeva
attraverso il vetro, mi sorrideva gentile ed io mi ritraevo, rapida,
come se fossi stata colta a far qualcosa di male, di colpo
tremendamente agitata e confusa. Infine, se ne andava, sempre
poco prima di mezzogiorno, lentamente e in silenzio, com’era
arrivato, dopo aver chiesto a uno degli inservienti di portare un dono
a mio fratello: sul tavolo che arredava la stanza destinata a Rigel, in
mezzo agli altri regali, c'erano, in fila, due boccini firmati da
vecchie glorie del Quidditch e un album di foto storiche, senza
però mezza parola né una firma, un tacito
incoraggiamento perché Rigel si rimettesse in piedi quanto
prima. Mia madre non pareva colpita quanto me: non voleva che qualcuno
si avvicinasse a mio padre, a me o a mio fratello, perciò
aveva dato disposizioni perché nessuno potesse farci visita,
nemmeno i Black, figurarsi se si sarebbe commossa davanti al figlio di
Roland Lestrange che aspettava nella neve. La decisione della
mamma di trattare persino Orion come tutti gli altri, mi aveva
sorpreso, ma non ero riuscita a parlarle e a sciogliere i miei dubbi,
perché finora era sempre stata impegnata a pregare e
occuparsi di noi, senza tregua, notte e giorno.
Quanto a mio padre... Era così distante, che non
sembrava più lui: non capivo se fosse così
preoccupato per le condizioni di Rigel da essersi isolato in un mondo
tutto suo, o se fosse arrabbiato a morte con me per via dell'anello, o,
peggio ancora, stesse ancora molto male e non lo volesse ammettere, per
non gravare la mamma di nuove preoccupazioni. Quello che gli era
successo, la sera del matrimonio, era ancora un enigma per tutti,
persino per i Medimaghi che lo curavano, persino per lui, che credevo
avesse sempre una risposta a tutto: l'unica certezza era che, dopo il
sollievo iniziale per la sua rapida ripresa, si era chiuso in se
stesso, silenzioso e triste, consumato da un dolore che avrei voluto
far svanire nel nulla, se solo avessi saputo come fare.
“Così mi hanno
detto, Rigel, ma io... non ricordo quasi nulla, non mi ricordo di
Rabastan... ”
Rigel annuì, mi teneva ancora la mano, ma non guardava
più le Rune, ora fissava me, gli occhi vigili e seri, io
sistemai una ciocca dietro l'orecchio, a disagio per la sua insistenza,
poi lo ricambiai, risoluta, perché gli avevo detto la
verità e non avevo nulla da nascondere.
“Già... Proprio
come fa il lupo che si traveste da agnello... ”
“Non crederai che Rabastan sia
responsabile di quanto è accaduto? Andiamo, è
solo un ragazzino! E in questi giorni non ha fatto altro che chiedere
di te…”
Ridacchiò con difficoltà, io lo fissai con aria
interrogativa e lui distolse lo sguardo, un po' in imbarazzo, un po'
turbato.
“Già... Rabastan...
Rabastan... se conoscessi Lestrange come lo conosco io, sorellina, non
faresti l'errore di definirlo ragazzino... né lo chiameresti
per nome... quello lì non fa mai niente per niente,
ricordatelo… e se è venuto fin qui... puoi
scommetterci, non l'ha fatto per me!”
Quelle parole, se possibile, mi turbarono ancora più di
quanto già non fossi, ma Lestrange cadde presto nel
dimenticatoio, appena mi resi conto di quanto la mano di Rigel
scottasse di nuovo; di colpo gli occhi si erano fatti lucidi e il viso
era più pallido di prima, il respiro irregolare. Sentii una
morsa allo stomaco, saltai di nuovo in piedi, agitata, senza sapere
cosa fare.
“È colpa mia... non
dovevo entrare... ti ho fatto agitare e ti è ritornata la
febbre... io... ”
“Non è niente,
Mei... il guaritore... ha detto che mi sarebbe ritornata... ancora, per
qualche altro giorno, non dipende da te... stai tranquilla... chiama la
mamma... e non preoccuparti... ”
Annuii, rassicurata, solo perché mi aveva detto che il
ritorno della febbre era una cosa normale, e mi aveva suggerito cosa
fare, mentre la mia testa era diventata incapace di ragionare, azzerata
dalla paura. Dovevo trovare nostra madre al più presto,
così uscii di corsa sul corridoio, senza preoccuparmi
più nemmeno della ramanzina che avrei di certo preso per
aver infastidito mio fratello. La ricerca non fu difficile, la
mamma era nella stanza di nostro padre: appena le dissi di Rigel, si
affrettò da lui, senza rivolgermi neanche la parola, gli
occhi misteriosamente rossi e gonfi di pianto già prima del
mio ingresso. Mio padre sembrò non essersi nemmeno
accorto della mia presenza: impassibile, i pugni serrati tanto da
sbiancarsi le nocche, non si voltò, né disse
niente, fissava il paesaggio imbiancato di là dell'ampia
finestra, gli occhi vuoti e lontani, pallido e muto. Non capivo che
cosa stesse accadendo, a lui, alla mamma, a tutti noi: c'era qualcosa
di strano, molto strano. Sentivo l'inquietudine impadronirsi
di me, strisciarmi dentro, avviluppandomi fino quasi a
soffocarmi. Avevo paura. Sentivo che non era finita,
che c'era ancora qualcosa di malefico e spaventoso, là
fuori, a tramare nell'ombra, pronto ad aggredirci e stravolgere il mio
mondo e i miei affetti. E soprattutto, per la prima volta, nessuno
sembrava in grado di trasmettermi fiducia e speranza.
***
Alshain Sherton
Ospedale McCormacc, Inverness, Highlands - ven. 24
dicembre 1971
“Fai in modo che Sirius dia il
suo anello a Rodolphus: i Lestrange hanno già capito che lo
scambio l'hai fatto tu!”
Da quando mi ero ripreso, quelle parole erano diventate il mio unico
pensiero, la mia ossessione, risentivo la voce di Black nelle orecchie,
risentivo il senso di gelo e il timore nelle membra, l’idea
che mio figlio mi avesse tradito mi perseguitava. Dentro di me, fin da
quando Orion me l’aveva detto la sera del matrimonio, mi ero
convinto che avesse fatto quella richiesta solo per proteggere i nostri
amici, ma non capivo perché non me ne avesse parlato, non
riuscivo a capire perché non avesse chiesto il mio aiuto o
il mio consiglio. Mi ripetevo che magari era accaduto tutto
troppo in fretta, che non avevamo avuto modo e tempo, che sarebbe stata
la prima cosa che mi avrebbe detto appena tornato dal viaggio di
nozze. Ma poi… Troppe, troppe cose non tornavano,
troppe… L’Elfo impiegato per versare il
vino avvelenato… era il suo Elfo. La decisione di
non partire, dopo aver insistito tanto per ottenere una Passaporta dal
Ministro stesso, poggiava su motivazioni condivisibili, ma potevano
anche non essere sincere… E soprattutto…
dov’era adesso? Dove? Ora che avevamo bisogno di lui,
perché non rispondeva? Nemmeno alle preghiere di sua madre
aveva ancora risposto. Non riuscivo a credere al suo tradimento,
perché l’avevo sentito sincero, avevo sentito la
sua anima vibrare quando mi aveva parlato dei suoi progetti con Sile,
l’avevo sentito vicino, quando mi aveva raccontato come
immaginava i suoi figli, la sua famiglia: ero stato così
fiero di lui, come non lo ero stato nemmeno quando aveva vestito i
colori del Puddlemere! No, mio figlio non poteva avermi
tradito, non poteva avermi mentito! Eppure… eppure
non riuscivo a trovare altre soluzioni… no…
nessun’altra.
Deidra soffriva, perché non mi aprivo con lei,
perché per la prima volta nella nostra vita in comune, non
la mettevo a parte di qualcosa: lei sapeva che stavo prendendo una
decisione, una decisione che non poteva condividere, non arrivava a
comprendere che era l’unica scelta fattibile. Potevo
dirle una mostruosità simile? Potevo dirle che
ritenevo nostro figlio responsabile degli eventi che avevano coinvolto
Meissa e Rigel? Potevo gettarle addosso anche questa croce?
No.
Ero responsabile della situazione assurda che negli anni si era creata
tra me e Mirzam, e per la serie di disgrazie che ci erano cadute
addosso in pochi giorni, era giusto che rimediassi io, da solo, una
volta per tutte. Appena fossi uscito dall’ospedale,
l’avrei fatto. Sì, avrei aggiustato tutto
in un modo o nell’altro.
Non c’è altra soluzione... È
l’unica scelta possibile, sì…
l’unica strada. Prego solo gli dei che sia
sufficiente… Non lo farei per me, o per le Terre…
No… lo farei solo per i nostri figli… solo per i
nostri figli… Deidra alla fine
comprenderà... Sarà dura per lei, ne
soffrirà, ma alla fine, dovrà comprendere. Non
c’è nessun’altra soluzione…
Nessun’altra… Non ora che…
Strinsi i pugni, mentre osservavo dall’antica finestra
ogivale il Ness che scorreva placido, la superficie in parte
ghiacciata, sotto una nuova, fitta, nevicata che ispessiva rapida la
coltre candida distesa su tutto il paesaggio; stagliato nel cielo
tortora del primo pomeriggio, anche il castello
s’intravvedeva appena, di là del fiume, proteso su
Inbhir Nis (= Inverness) dal pianoro che si alzava alla nostra
sinistra: tutta la città era avvolta nel silenzio, una
città inconsapevole di noi, della nostra realtà,
dei nostri tormenti. La comunità magica di
Inverness viveva in ricche ville a est della città,
distribuite soprattutto negli spazi aperti nei pressi di Clava Cairns,
ma raccoglieva le proprie attività pubbliche in un piccolo
centro vitale lì, ai margini della città, sulle
sponde orientali del fiume, inerpicato su una collinetta coperta di
boschi ammantati di lugubri leggende, dominata dalla costruzione
più antica e importante, l'ostello dove, nell'evo antico, i
guaritori, nostri progenitori, curavano i guerrieri con le arti
erboristiche e la Magia. Dell'antico ospedale fatto costruire da Albus
McCormacc, agli occhi dei Babbani, restavano ora solo poche, tristi
rovine, affioranti qua e là, tra muschi e radici; per noi
Maghi, invece, il più antico ospedale delle Terre del Nord,
un’austera struttura composta di quattro distinti corpi
quadrangolari, ricchi di sculture e fontane, che si distribuivano
attorno a un arioso cortile porticato, pieno di alberi e fiori, era
ancora nella sua piena
efficienza.
Stavo lì, in piedi davanti alla finestra, una pesante toga
da camera appoggiata sulle spalle, quando i miei occhi misero a fuoco
l’immagine di Meissa riflessa dietro di me, lo sguardo
preoccupato e triste. Sentii un tuffo al cuore e di colpo, tutte le
obiezioni con cui Deidra cercava da giorni di riportarmi alla ragione,
divennero comprensibili e giuste, le mie idee solo follie inutili e
disperate. Che cosa ci facevo
lì? Perché non mi voltavo, non colmavo
la distanza che ci separava, con passo rapido e sicuro?
Perché non la prendevo tra le mie braccia, ringraziando gli
dei per avermela resa? Perché non facevo
l’unica cosa che desideravo: parlarle, baciarla, stringerla a
me? Perché non lasciavo quella stanza, in cui mi
ero arroccato con la mia tristezza e il mio autolesionismo, e non
correvo da Rigel, a vedere con i miei occhi come stava, come stava il
mio piccolo eroe, che aveva messo in gioco la propria vita per
rimediare ai danni che avevo combinato? Perché il mio corpo,
ormai, non seguiva le leggi del cuore, ma restava lì, fisso,
immoto, turbato dagli ordini della mente, una mente piegata dalla
paura, dalla rabbia, dall’indecisione. Non riuscivo
a fare chiarezza in me, non riuscivo a venire a capo del tumulto che
sentivo dentro, la paura per i miei figli si alternava al senso di
colpa, la speranza di riuscire a metterli in salvo, alla consapevolezza
che ciò era pressoché impossibile.
Lui sta arrivando, si prepara a colpirci, appena lo vorrà,
ci travolgerà tutti. Che cosa aspetta il Signore
Oscuro, ora che la nostra unica salvezza è nelle sue mani?
Herrengton riconoscerà senza difficoltà, in lui,
l’atteso erede di Salazar e a quel punto nulla lo
fermerà più, l’intero mondo magico si
prostrerà ai suoi piedi. Che cosa attende, dunque?
Guardai Meissa, avrei dovuto rassicurarla, dirle di non preoccuparsi,
ma il senso della sconfitta inesorabile, mi rendeva incapace persino di
mentire. Come potevo continuare a mentire? Meissa
aveva già subito fin troppo male a causa mia della mia
arroganza, della mia inettitudine, l’avevo chiamata a
custodire un segreto per il bene di Herrengton, senza curarmi della sua
sicurezza, l’avevo sacrificata come qualunque Serpeverde era
abituato a sacrificare i suoi figli. Io, sì io,
proprio io, io che mi gloriavo di tenere a loro più che a me
stesso. Come avevo potuto? Come?
“Padre…”
Tremai, quella parola ebbe su di me l’effetto di una
scudisciata in pieno petto. Strinsi i pugni: aveva ragione
Orion, quando si commettono errori così gravi, non si
è più degni di essere chiamati padre, non con
quell’amore, con quella venerazione. No, non ero
più degno di essere chiamato così. Non
ero stato capace di prendermi cura di loro… Dovevo
proteggerli da chi poteva far loro solo del male, occorreva
allontanarli dal pericolo, e ora per i miei figli nulla era
più pericoloso di me, il loro stesso
padre. L’unica soluzione era andarmene per non
sporcarli con la mia incapacità… Per non
contaminarli con le mie scelte dolorose…
“Posso entrare?”
Mi voltai e mi bastò uno sguardo per capire quanto fossi un
vigliacco. Non potevo continuare a ignorarla, non potevo
continuare a farle credere che fossi arrabbiato con lei per
l’anello o metterle addosso altri stupidi sensi di colpa. Ero
io che dovevo pagare, non loro. Dovevo allontanarli da me,
certo, ma prima dovevano capire che non era colpa loro, ma mia. Le feci
cenno di entrare, mi avvicinai, la vidi già più
felice, il sorriso timido che la illuminava, dopo giorni fatti di
lacrime, e il cuore si riempì di un’altra dose di
velenosa amarezza. Mi sedetti accanto a lei, sul bordo del letto,
lasciai che mi abbracciasse, che il suo corpo caldo scaldasse il gelo
che mi sentivo addosso, alla fine non riuscii a resistere, le baciai i
capelli, la strinsi nel mio abbraccio, lieve, temendo quasi di
romperla, come quando era appena nata. Sarei mai riuscito a
farmi perdonare da lei, da tutti loro?
Sollevò il viso ci fissammo, lei prese coraggio e mi
stampò un bacio sulla barba. Tutte le mie decisioni si
ridussero a un mucchietto di cenere, in un istante, mi bastò
guardarla per capire che non ce l’avrei fatta mai.
Mai… Non troverò mai la forza di Orion, non
riuscirò mai a negare quello che provo per ciascuno di
loro… Non riuscirò a star lontano dalla mia
famiglia… ad
abbandonarli… Mai…
“Come ti senti,
padre?”
Come potevo sentirmi? Ero travolto dal senso di colpa per
averla quasi uccisa e al tempo stesso ero l’uomo
più felice della terra, perché potevo godere del
suono della sua voce.
“Bene … sto bene
Mei… sto bene da quando Orion ti ha riportata da
me…”
“Allora perché
sembri così triste e infelice?”
La fissai, aprii la bocca ma non uscì suono, le guardai le
mani, incapace di sostenere il suo sguardo.
“Sono solo preoccupato,
Meissa… per voi tutti, per Rigel, per te, per la
mamma… e sono arrabbiato… molto
arrabbiato… con me stesso… perché
quello che vi è accaduto è tutta colpa
mia… solo colpa mia… perché sono
vostro padre e non sono riuscito a proteggervi…”
Tornai a guardarla mentre lo dicevo, meritava le mie scuse e la mia
umiliazione. Le mie dita si spostarono lungo il suo viso,
seguendo la linea delle sue guance, studiando ogni dettaglio come se
fosse la prima volta che la vedessi.
“Mi dispiace aver perduto
l'anello, padre... io... ”
“Non l’hai perso, ti
hanno fatto del male per prendertelo… Ed è tutta
colpa mia… sono io che ho sbagliato… ti ho
coinvolto... ti ho fatto correre un pericolo assurdo per...
Salazar… non riesco a credere di aver commesso una follia
simile… Come diavolo ho fatto? Non ho diritto nemmeno di
chiederti di perdonarmi, Meissa…. Io non mi
perdonerò mai… mai…”
Continuai ad accarezzarle il volto, di nuovo incapace di guardarla
negli occhi, un lento bruciore allo stomaco che si trasformava in un
nodo serrato alla gola, gli occhi che si riempivano di lacrime di
commozione, di dolore, di rabbia, di umiliazione. Lei mi prese
la mano e se la premette sulla guancia, quasi appoggiandosi contro,
prolungando quella carezza: i suoi occhi su di me mi spinsero a
guardarla di nuovo, ci fissammo a lungo, vedevo che non mi accusava di
niente, non c'era nemmeno la paura nel suo sguardo, non c'era
più nemmeno la sofferenza. C'erano solo domande cui non
potevo rispondere e quel desiderio della mia presenza, lo stesso che
conoscevo in lei da undici anni, immutabile, benché io non
fossi più il suo cavaliere, il suo eroe, ma un piccolo uomo
meschino e incapace, che l’aveva tradita, che aveva mancato
alle sue promesse, che l’aveva abbandonata nel momento del
bisogno. Solo un miracolo aveva fatto sì che chi me l'aveva
strappata non fosse riuscito a farle davvero del male: il Medimago
aveva detto che fisicamente aveva solo i sintomi di una caduta, alcuni
graffi, un colpo al naso; quanto alla sua mente, Habarcat aveva fatto
il suo dovere con mia figlia, le aveva dato la forza di resistere alla
Magia oscura, non ricordava i particolari dell'aggressione,
né che cosa avessero cercato nella sua memoria, ma la sua
mente non era rimasta sconvolta o rovinata come purtroppo accadeva a
molti, dopo attacchi del genere. Era stata solo fortuna, solo
fortuna. Se era lì, di fronte a me, non era certo
merito mio. Un giorno, se ne sarebbe resa conto anche lei ed
io l’avrei perduta per sempre.
Immaginavo quali ricordi le avessero sottratto e quali segreti avessero
cercato di carpirle, non sapevo chi fosse stato, materialmente, a
colpire, ma non aveva importanza: eravamo in pericolo, in balia degli
eventi, nulla era più sotto il controllo o
l’influenza delle nostre azioni, la nostra vita era nelle
mani del Signore Oscuro, la nostra sopravvivenza dipendeva dal suo
capriccio. Sapere che tutto questo era frutto della mia inettitudine e
della mia follia e che probabilmente Milord si era servito
dell’aiuto di mio figlio, per riuscirci… Mi portai
la mano alla testa, quella verità non mi faceva respirare,
quella realtà mi spezzava dentro... quella realtà
mi aveva quasi portato alla morte, persino più potente e
devastante del veleno che avevo intercettato, il veleno destinato al
Ministro.
“Padre, ti senti male? Sei
così pallido... Vado a chiamare... ”
“No, Meissa, no...
è stato solo un capogiro... sicuramente effetto delle
pozioni, i Medimaghi non sono ancora d’accordo sulle
quantità utili ai miei problemi… mi dispiace non
esser venuto a trovarti in questi giorni, ma… preferirei che
tu non mi stessi troppo vicino, Meissa, io non sono mai stato male, ho
timore che sia qualcosa di contagioso… mi manchi
così tanto che non sono riuscito a resistere al desiderio di
abbracciarti… ma… è irresponsabile da
parte mia… non devi restare qui…”
“E se resto a parlarti
dall’arco della porta?”
Sorrisi: a volte era ancora così piccola, così
innocente, così indifesa…☺Merlino, se avessi
avuto tra le mani chi…
“In realtà, Meissa
vorrei che tu andassi da zia Rebecca, per passare qualche giorno con i
tuoi cugini, seguita dal nostro Medimago personale, non voglio che tu
te ne stia chiusa qui: oltre a me, potresti venire in contatto con
altre persone malate… si prendono più malattie
qui dentro che fuori!”
“No, io non esco da qui
finché non lo farete anche tu e Rigel... lo sai...
”
La fissai intensamente, lei era proprio come me, testarda e ostinata
come me, e come me non avrebbe accettato passivamente di essere privata
di ciò che più sentiva in profondità
nel suo cuore.
“Nemmeno se ti prometto che
poi andremo a Grimmauld Place la sera di Hogmanay?”
Mi deliziai nel veder le sue lentiggini accendersi e i suoi occhi
animarsi di una scintilla di desiderio, scoppiai a ridere, la mia
prima, unica vera risata in tanti giorni, mentre tutto il viso le
diventava rosso come un peperone: no, non mi sentivo per niente bene,
non avevo idea di cosa ci stesse riservando il futuro, ma non era
giusto che privassi mia figlia della serenità, avevo
già commesso fin troppi errori, non potevo anche imporle la
mia paura e il mio turbamento. Sarebbe stato difficile, ma
dovevo riuscirci, avrei ripreso in mano il mio destino, avrei venduto
cara la pelle, avrei bluffato, avrei mentito, avrei ucciso, non mi
sarei fermato di fronte a niente, avrei condannato
all’inferno la mia anima, ma… Nessuno
avrebbe più fatto del male alla mia famiglia.
“Dici
davvero?”
“Là sopra
c'è l'invito di Walburga per tutti noi, è
arrivato questa mattina presto... festeggeranno anche il fidanzamento
di Lucius e Narcissa, se Bellatrix si rimetterà in tempo...
”
“Tu potrai davvero uscire per
allora? Potrai davvero uscire tra pochi giorni?”
“Il Medimago ha detto che se
farò il bravo potrò andarci... più
tardi tua madre risponderà all'invito di Walburga... io
vorrei che tu scrivessi di tuo pugno due righe a Sirius... ora che
anche tuo fratello si sta rimettendo, credo che dovremmo finirla con
questo isolamento, e ringraziare in maniera opportuna chi ha fatto del
bene alla nostra famiglia, non trovi?”
Meissa annuì e, dopo avermi scoccato un bacio sulla barba,
balzò via, libera, sembrava, da tutta l’angoscia e
i tristi pensieri che la attanagliavano quando era apparsa alle mie
spalle. Sì, dovevo andare avanti per la strada che avevo
deciso di intraprendere, fare qualsiasi cosa, anche le più
turpi nefandezze, pur di continuare a vederla e saperla felice e
serena. Mi alzai di nuovo, mi sistemai per bene la toga da camera e mi
avvicinai alla finestra: il mio respiro, rapidamente, formò
una nuvola opaca che celò il paesaggio ai miei occhi, ma
già la mia mente era di nuovo lontana. Mi sarei piegato,
avrei implorato, avrei pagato col mio sangue, avevo ancora molte carte
da giocarmi, conoscevo quell’anello e il suo libro molto
meglio del Signore Oscuro, potevo pagare la nostra salvezza con le mie
informazioni, potevo persino… Sì, per Meissa, per
Rigel, per Wezen e Adhara… per Deidra, ero disposto a
tutto… a tutto… Stringevo le mani, fino
ad affondare le unghie nella carne, la testa esplodeva in una miriade
di pensieri sconvolgenti, in proponimenti terribili che si fondevano
alla rabbia e alla disperazione. Fu allora che lo vidi apparire: due
piani più in basso, nel cortile antico circondato da alberi
spogli e da un colonnato che immetteva nell’ingresso
principale dell’ospedale, vidi improvvisamente la materia
deformarsi e materializzarsi, all’interno di una specie di
bolla traslucida, una figura umana, un Mago dal mantello antracite, il
cappuccio calato sul volto, le lunghe chiome bianche che spuntavano ai
lati del collo, fondendosi con la barba sottile e
curata. Avanzava nella neve, rapido e leggero, sostenendosi a
un bastone di legno scuro, dalla testa particolarmente elaborata. Pur
dolorante e col passo malfermo, uscii rapidamente dalla stanza, avanzai
rapido nel lungo corridoio e mi affacciai sulla scalinata: il vecchio,
con un’agilità e rapidità insolita per
la sua età, era già arrivato al primo
pianerottolo e subito, intuita la mia presenza, alzò gli
occhi verso di me, un’espressione imperturbabile sul volto.
“Alshain!”
Deidra che, dalla camera di Rigel, doveva avermi visto uscire dalla mia
stanza, mi raggiunse quasi in contemporanea a Fear, dalla direzione
opposta: non mi sfuggì l’occhiata minacciosa e
preoccupata che mia moglie riversò sul vecchio, il suo
rapido frapporsi tra noi, la sua mano che si appoggiava sul mio
braccio, come faceva con i nostri figli, per proteggerli, riconoscevo
senza difficoltà persino l’inclemente nota di odio
che riservava sempre a chi toccava i suoi cari.
“Non è orario di
visita Fear… Alshain ha bisogno di pace e di
riposo”!
Il vecchio la guardò come se fosse trasparente, lo stesso
sguardo che riservava a quanti non erano nati con le Rune, mi
bastò percepire quella mancanza di rispetto per essere
maldisposto nei suoi confronti e subito Fear cambiò
atteggiamento verso mia moglie.
“Mi dispiace disturbare,
Deidra, ma è molto importante… farò
subito, te lo prometto… sono qui con buone
notizie… Ho capito che cosa ti è successo,
Alshain…”
“Se sai qualcosa di utile,
Fear, parla con il Medimago, e lascialo tranquillo!”
“Contro questo suo male non
servono pozioni o erbe, Deidra... il demone che lo divora si
sconfigge solo con la verità... ascoltami Alshain e libera
il tuo cuore dal male che ti tormenta… ho la prova che tuo
figlio non ti ha tradito…”
Serrai le mani, una parte di me diceva che era impossibile, ma la
speranza iniziava a farsi largo, urlandomi che non era tutto perduto,
che lo sapevo già, che non mi erano mai servite
prove. Deidra ammutolita fissò Fear poi
tornò a guardare me, incredula che potessi avere un sospetto
simile: le domande tacite dei suoi occhi, la delusione per averle
taciuto dei dubbi tanto gravi, appena dopo averle chiesto perdono e
averle promesso che non le avrei più mentito, il dolore che
quella verità le provocava, mi piegarono ancora
più della sofferenza fisica e dei tormenti. Ci
abbandonò, senza una parola, avrei dovuto seguirla,
parlarle, spiegarle le mie ragioni, i miei sospetti e i miei silenzi,
ma ero impietrito, incapace di seguire il mio cuore e di reagire.
Eppure sentivo che si stava rompendo qualcosa tra noi e che per
evitarlo non dovevo restare così, inerte, preda degli eventi.
“Deidra, aspetta…
ho bisogno di te… devi ascoltarmi... ”
Fear cercò di raggiungerla, le mise una mano sulla spalla,
lei si voltò, i suoi occhi avrebbero voluto piangere, lo
sapevo, invece incenerirono il vecchio e poi me con tutto il suo
disprezzo.
“Mio figlio non ha tradito
nessuno! Io non ho bisogno di prove, per conoscere la
verità!”
“Per favore, calmati...
Alshain non sapeva… è stato portato a dubitare
per… ti ha taciuto i suoi dubbi per non turbarti…
mi dispiace… quello che sta succedendo... in parte
è colpa mia... ”
“Non ho bisogno nemmeno di
sentire la tua confessione, so già che è tutta
colpa tua! È sempre colpa tua! Fosse stato per te, ora sarei
qui a piangere per i miei figli e per mio marito! Non volevi far nulla
per Rigel! Hai messo Alshain contro Mirzam... Che cos’altro
vuoi? Che altro vuoi?”
“Rimediare, Deidra... I miei
errori non erano dettati da volontà di far del male...
Volevo solo proteggervi... Te lo giuro... ”
“Certo, come spingere mio
figlio ad affrontare una prova tanto pericolosa per sposarsi! Non ti
perdonerò mai... Fear, mai! E ora sparisci, o ti giuro
che... ”
“Sparisco, certo, sparisco per
sempre se lo preferisci, ma prima, prima lascia almeno che…
vorrei dicessi ad Alshain dove hai preso l’anello che gli hai
messo al dito…”
“Quest’anello me
l'ha dato mio padre per le Rune dei sei anni... ”
Non ero intervenuto, fino a quel momento, condividevo tutti i pensieri
di Deidra su Fear, anch’io mi rendevo conto che la nostra
vita si era riempita di momenti dolorosi da quando avevo permesso al
mio vecchio precettore di rientrare nelle nostre
vite. Ritenevo la sua presenza oltremodo inopportuna, sebbene
volessi ormai sapere che cosa avesse ancora da dirmi, non avrei
cambiato le mie decisioni su di lui: quando avevo chiesto, a mia
moglie, cos’era accaduto a Herrengton mentre ero privo di
sensi e lei mi aveva raccontato delle decisioni assurde prese da Fear,
cui solo il sangue freddo di Orion era riuscito a opporsi, avevo
promesso di estrometterlo per sempre da Herrengton, come aveva
già fatto mio padre. E avevo fatto bene,
perché col suo racconto, dimostrava di volerci rifilare
altre menzogne.
“Quello che hai in mano non
è il tuo anello: Black l’ha dato a Emerson per
chiedere aiuto quando sei svenuto. Quando Deidra stava per lasciarti,
tu non avevi nulla in mano, dico bene?”
Si guardarono, Deidra era furiosa, desiderava mandarlo al diavolo e
finire quella commedia.
“Sì, è
vero, e allora?”
“Vorrei che dicessi a tuo
marito dove hai preso quell'anello… ”
“Era l’anello di
Mirzam, se l’è tolto per la cerimonia, per
prendere la fede nuziale, sapevo che su Alshain aveva meno portata, ma
che avrebbe funzionato, in caso di
necessità…”
Annuii, era quella la regola, un anello del Nord poteva funzionare,
sebbene non al pieno delle possibilità, sulle mani di un
altro Mago, purché fosse ceduto spontaneamente; di colpo,
un’idea mi balenò nella mente, e iniziai a capire
perché Riddle non fosse ancora riuscito a entrare nelle
Terre: se aveva ottenuto l’anello di Meissa con la violenza o
con l’inganno, avrebbe impiegato alcune settimane prima di
riuscire ad assoggettarlo al proprio volere.
“Mirzam ti ha detto nulla
quando te l’ha dato?
“Le solite cose, di averne
cura e di darlo a suo padre quanto prima… e
allora?”
“Allora…
è grazie all'anello che hai al dito, se ti sei salvato,
Alshain: ho fatto visita ai Black, la presenza di Sirius al tuo
capezzale è stata fondamentale per la tua ripresa, lo
sapevamo già, ma non avevamo capito il motivo… il
vero motivo, Alshain, è quell'anello che hai al
dito!”
“Non resterò qui un
secondo di più a sentirvi blaterare dei vostri anellini del
potere, di Habarcat, e qualcun’altra delle vostre follie!
Quella malefica fiamma stava per uccidere mio figlio, l’unica
verità che conosco è questa…”
“Deidra, per
favore…”
Ci aveva dato le spalle disgustata, ed io non potevo che condividere il
suo malessere. Feci per seguirla, ma Fear stavolta fermò me,
debole com’ero, non ebbe difficoltà a stringermi
contro il muro e impedirmi di sfuggirgli, avvicinò le sue
labbra malefiche al mio orecchio, la sua voce sibilante, sottile,
profonda, mi bisbigliò i suoi segreti nella lingua antica.
“Sirius aveva la pietra, tu
avevi l’anello… Habarat ha reagito,
perché l’anello di Salazar, pur scomposto nelle
sue parti, era estremamente vicino…”
Cercai di liberarmi dalla sua presa, oppresso nel fisico e nella mente,
non capivo: com’era possibile quello che mi stava dicendo?
“L’anello non
è perduto Alshain! Mirzam mi aveva chiesto come fosse
possibile dividere l’anello, come fosse possibile deformare
alcuni ricordi… io non avevo idea dei suoi progetti, ma
ora…. Deve aver capito che il Lord era a un passo dal
rubarvelo…”
“Cosa diavolo stai dicendo,
Fear?”
“Mirzam ha sostituito
l’anello, l’ha diviso, ha lasciato la pietra a
Sirius e il metallo a te…”
“Che cosa? È
assurdo… Meissa non glielo avrebbe mai ceduto!”
“Credo non avesse scelta,
Alshain… Mirzam deve aver usato un Imperius, anche tu
l’hai fatto per il suo bene, quando hai creduto fosse
l’unica strada da percorrere, per la sua
salvezza…”
Quello che stava dicendo Fear era sconvolgente, impossibile,
spaventoso: Mirzam aveva rubato l’anello a Meissa servendosi
di un Imperius? No, non lo potevo credere, sapevo quanto i miei figli
fossero legati da sincero affetto, sapevo che Mirzam poteva anche
arrivare a farmi del male, perché io l’avevo
deluso, perché avevo sbagliato più e
più volte con lui, ma sua sorella… non
l’avrebbe toccata mai, nemmeno con un dito. Non
sentivo più nulla di quanto diceva il vecchio, non riuscivo
a capire che le sue parole parlavano di salvezza, di pericolo scampato,
di vittoria, ero troppo sconvolto alla sola idea che Meissa fosse stata
plagiata in qualche modo da suo fratello… no, non era
possibile… non era…
“Ho recuperato la
pietra… e ho alterato i ricordi dei Black: se anche qualcuno
arrivasse a Orion o a suo figlio, se anche usasse la Cruciatus per
conoscere i tuoi segreti, non otterrebbe mai niente, certi avvenimenti
non sono mai accaduti per i Black, sei salvo! Ora il Lord ha un anello
inutile, ma con i ricordi che hanno rubato a Meissa, crede sia
esattamente quello che cerca. Quando scoprirà che non
funziona, dovremo fargli credere che quello che ha in mano è
il vero anello e che su di lui non ha alcun potere….
È l’unico modo per chiudere per sempre questa
caccia.”
“Di cosa stai parlando, Fear?
Che ne sai di cosa vedrà il Lord nei ricordi di
Meissa?”
“Conosci tuo figlio, non so
come abbia trasformato i ricordi della ragazzina, ma avrà
fatto in modo di attirare su di sé la collera di
Milord… sarà sufficiente creare una storia
compatibile e…”
“Come posso lontanamente
credere a quanto dici, dannato vecchio? Mirzam non è ancora
in grado di elaborare un piano simile, e non ha di certo la padronanza
di certe arti per realizzare quello che stai dicendo… Che
cosa ne sai realmente tu di tutto questo, Fear?”
Tutto era chiaro come il sole, adesso: aveva iniziato dicendo di essere
venuto lì per rimediare ad alcuni errori e di essere in
parte responsabile di quello che stava accadendo.
“Non c’è
tempo, ora! Andiamo da Meissa, se non mi credi! Ricomponiamo
l’anello! Milord non può più toccare te
o la tua famiglia! Ci sei riuscito Alshain! Ci sei riuscito!”
“Non ti farò
avvicinare a nessuno dei miei figli, Fear, mai più! Smetti
di raccontarmi stronzate e dimmi esattamente quello che hai fatto, che
cosa ti ha chiesto mio figlio, quando, dove, e come hai contribuito a
questo folle piano! Ti conosco, di certo non ti sei limitato a dare
consigli!”
“Ti spiegherò
tutto… tutta la verità, fino in fondo…
qualsiasi cosa io abbia fatto, ho dovuto agire così
perché non c’era tempo... pagherò per
le mie colpe, sta bene, ma potresti anche decidere di perdonarmi,
quando avrai visto con i tuoi occhi! Non è questo il
momento, però… sta per accadere qualcosa di molto
grave… Devi ascoltarmi… Sei in grado di
smaterializzarti, Alshain?”
Guardai il suo sorriso sordido, vidi con la coda dell’occhio
Deidra che si avvicinava a noi con un paio di Maghi della sorveglianza,
fu un attimo e presi la decisione che mi sembrò
più giusta. Volevo capire, dovevo togliermi una volta per
tutte i dubbi su mio figlio. A Fear bastò uno
sguardo, mi arpionò con forza entrambi gli avambracci e ci
smaterializzammo, alla maniera del Nord, lontano da lì.
***
Mirzam Sherton
Soho, Londra - ven. 24 dicembre 1971
Si era ormai fatta sera, camminavamo tranquilli
sotto la neve, stracarichi di pacchettini, ridendo e commentando quella
lunga giornata, quando mi accorsi indispettito che Sile, di nuovo, non
teneva in alcun conto le mie volontà e deviava come se nulla
fosse in direzione di Essex Street. Avevo fatto di tutto, quel giorno,
per accontentarla, non capivo perciò perché, da
parte sua, non potesse accontentarmi nell’unica richiesta che
le avevo fatto: non volevo andare dai miei. Quando aveva detto di
volersi immergere nel clima natalizio di Londra, per esempio, pur a
malincuore, avevo accettato, non perché ne avessi voglia, ma
perché, per colpa della mia pigrizia, aveva già
dovuto rinunciare al viaggio nelle Americhe, quindi assecondarla mi
sembrava il minimo. Solo in un secondo momento, quando ormai
era troppo tardi, avevo compreso che la sua idea di giro per i negozi
non riguardava la cara vecchia Diagon Alley, ma proprio la Londra dei
Babbani: nel primo pomeriggio, mi ero lasciato smaterializzare da
Maillag, senza sospettare nemmeno quando avevo visto che aveva scelto
abiti poco tradizionali, e mi ero ritrovato con lei in un piccolo parco
periferico della città, in mezzo alla bufera di
neve. Sile confidava proprio in quel vortice di soffici
fiocchi bianchi per non essere visibili ai Babbani mentre ci
materializzavamo, io, al contrario, mi ero preoccupato, trovando la
situazione pericolosa e inopportuna, avevo protestato a lungo,
sostenendo che non mi piacevano simili imprudenze, ma Sile aveva
rapidamente placato le mie proteste e la mia inquietudine con uno dei
suoi sorrisi e una fermata in un pub di Soho, a Carnaby Street,
l'antico The Shakespeare's Head, a bere una delle proverbiali birre di
cui mi aveva parlato con tanto entusiasmo in riva al Lago Nero, quando
mi aveva stupito con la poesia di Sheakespeare e la triste storia di
Romeo e Giulietta. Immergermi lì, in
quell'atmosfera strana, a bere quella che, a dire il vero, mi apparve
subito un'interessantissima bevanda, mi aveva ridato un po' di
buonumore e alla fine avevo smesso di fare il guastafeste, mi ero
lasciato trasportare, comportandoci come due turisti curiosi, vivendo
un pomeriggio stravagante certo, ma divertente, in mezzo alla gente
presa dalla frenesia degli ultimi acquisti, tutti infagottati e
agitati, i fiocchi che scendevano copiosi, le pallate di neve nel
parco, il traffico e le strade bloccate, la passeggiata sulle sponde
gelide del Tamigi, la giostra, le luci e gli alberi decorati,
benché il nostro, preparato la sera precedente, fosse
decisamente più bello. Alla fine, avevo riscoperto
quell'atmosfera rilassata che avevo già conosciuto insieme
con lei anni prima, durante la nostra precedente esperienza babbana, e
avevo persino apprezzato la sua decisione
“alternativa”, per lo meno fino
all’imbarazzante fermata nel negozietto di articoli per
neonati, da cui Sile era uscita stracarica di pacchettini ed io con un
profondo mal di testa: la commessa, una ragazzotta formosa piena di
riccioli color ocra, non aveva fatto altro che complimentarsi con noi,
pensando che gli acquisti fossero per il nostro futuro bambino, mentre
un paio di vecchie babbione babbane mi aveva squadrato per tutto il
tempo, a lungo, con uno sguardo lascivo, facendo battutine sommesse su
aspetti privati di me, che avevo capito fin troppo
bene! All'uscita le risatine di Sile suscitate dalle mie
occhiatacce sospettose rivolte alla sua pancia avevano accompagnato
quasi tutto il percorso di ritorno.
“Si può sapere che
ti prende adesso? Non posso fare dei regali ai miei nipotini?”
“Certo, chi ti dice niente?
Solo che… non capisco... d’accordo, Liam ne
aspettava uno e invece è nata una coppia di gemelli, ma...
quello che hai preso basta per otto bambini! Dovevi comprare roba solo
per quei due bambini, non per altri, o sbaglio?”
Sile mi guardò di sottecchi, pensierosa, io impallidivo in
attesa della sua risposta, alla fine non riuscì a
trattenersi più e scoppiò a ridermi in faccia,
essendo fin troppo chiaro quale fosse la mia vera domanda e il mio vero
cruccio, se non altro perché ormai letteralmente
boccheggiavo.
“Salazar, Mirzam! Non stai
correndo un po’ troppo? Siamo sposati da tre
giorni!”
“Sì, ma…
Voglio dire… Non è che… abbiamo
passato il tempo a giocare a scacchi! Tu fai Medimagia, magari conosci
metodi per sapere già se sei… ”
Mi prese la mano e mi guardò con quella che doveva essere
una faccia divertita e a me parve invece piena di commiserazione,
mentre i miei occhi straniti e sospettosi correvano per l'ennesima
volta all’altezza del suo ventre: sentivo le orecchie andarmi
a fuoco, mi rendevo conto di essermi comportato come uno stupido, avevo
lasciato il futuro della mia famiglia nelle mani del caso, come un
ragazzino incosciente, non avevo fatto nulla per mettere in atto i miei
propositi, benché avessi un’idea precisa di quello
che desideravo per me e Sile, ovvero passare alcuni mesi da soli
vivendo quello che c’eravamo persi prima. Invece avevo
passato quei giorni comportandomi da irresponsabile, senza tenere conto
delle possibili conseguenze, e ora che finalmente aprivo gli occhi,
quel pensiero mi faceva arrossire. Irresponsabile...
sì, mi ero comportato proprio da irresponsabile...
“Se hai finito... Non ci sono
cicogne in volo verso Maillag, Mirzam, so preparare le pozioni
necessarie dal mio primo anno di Medimagia, quindi rilassati e respira!
Ne abbiamo già parlato, mesi fa, ed io ero
d’accordo con te, per ora preferirei anch’io
godermi un po’ di pace e tranquillità, anche
perché ho già un bambino per casa, a quanto
pare...”
Lo disse con dolcezza e senza ridere, ma quando compresi che il bambino
in questione ero io, mi sentii punto nell’orgoglio, avrei
voluto ribattere indispettito e offeso, Sile però era
già impegnata a baciarmi teneramente su una guancia per
farsi perdonare ed io non potei far altro che incassare, raddolcito,
per poi stringerla ancora di più a me, travolgendola in un
bacio appassionato.
“Un bambino che bacia bene,
però...”
“Direi proprio di
sì...”
Scoppiammo a ridere e solo per mera fortuna non ci sfuggirono di mano
tutti i pacchetti.
“Ci siamo, Mirzam: come ti ho
detto prima, per me dovremmo passare a salutarli…”
Potevamo intravvedere la casa in fondo a Essex Street, per un attimo
ricordai la nostra unica, intensa notte passata insieme nella mia
camera nell’antica dimora dei Meyer: mi voltai a guardare
Sile, era facile capire che condividevamo in quell’istante la
stessa emozione per gli stessi ricordi.
“Lo sai perché non
voglio, Sile: saprebbero che non siamo più partiti, ci
inviterebbero a passare qualche giorno con loro, e da quel momento
saremmo invitati da questo e quello, io invece vorrei godermi ancora
per un po’ la pace e la serenità del nostro
isolamento...”
“Basta dire di “no,
grazie” non credi? Io vorrei solo assicurarmi che non siano
loro a volerci parlare… te l’ho detto, Kreya mi
pareva molto turbata, quando ha cercato di parlarci, secondo me non
dovevi cacciarla come hai fatto, senza prima ascoltarla
…”
“Parenti preoccupati e
impiccioni, amici in visita, magagne da affrontare: sai come la penso,
nulla di tutto questo è una questione urgente…
Chi ci conosce, conosce la nostra storia e dovrebbe capire quanto
bisogno abbiamo di stare da soli, se non lo capiscono, pazienza... sono
loro a doversi vergognare, non io!”
Sile sospirò facendo no con la testa, rassegnata, in quegli
ultimi due giorni, ogni volta che doveva servirci i pasti, Kreya aveva
tentato di dirmi qualcosa ed io, spazientito, l’avevo messa
alla porta senza tante remore, intimandole di farsi vedere solo quando
l’avessi convocata io. Alla fine, pur combattuta, si
era rassegnata, anche perché ero io, ora, il suo padrone.
“Io ci vado, Mirzam, con o
senza di te… da quel poco che conosco Kreya, sono convinta
che ci sia un problema serio, altrimenti non si sarebbe disperata in
quel modo…”
“Lo so io cosa vuol dirci
Kreya!”
“Ovvero?”
“Si tratta di certo di tuo
padre!”
Sile mi fulminò con uno sguardo che avrebbe messo in allerta
chiunque dotato di un minimo di cervello, io naturalmente, esasperato
com’ero in quel momento per la sua testardaggine, non recepii
il segnale d’allerta.
“Che cosa vorresti
dire?”
“Lo consoci, quell'uomo mi
odia! Già me lo vedo, insonne che vaga tormentato come
un'anima dannata, pensando “sta tenendo prigioniera la mia
“bambina” in quel castello ancora mezzo diroccato,
approfittandosi indecentemente di lei ogni volta che vuole, come un
depravato”… Se per caso ha scoperto che non siamo
partiti per le Americhe come gli avevamo detto…
avrà di sicuro ideato qualche malefico piano per
impicciarsi!”
“Salazar, ma ti ascolti quando
parli? Sei ridicolo, ecco cosa sei! Era presente anche lui al nostro
matrimonio… mi ha portato lui all’altare e ha
messo lui la mia mano nella tua… ha due figli adulti,
Mirzam, sa benissimo cosa comporta consegnare una figlia al legittimo
marito!”
“Con quella sua
mentalità da bacchettone? Che siamo sposati per lui non ha
importanza, Sile, non mi perdonerà mai! Per questo sono
convinto che Kreya sia portavoce delle sue paturnie!”
“Salazar, non ci posso
credere! Non ci posso credere! Non sarà mica per questa
favoletta che ti racconti da solo, per queste tue fantasie strampalate,
che sghignazzi come un ragazzino appena Kreya se ne va? O quando credi
che io non ti veda?”
Stavolta compresi al volo il significato della sua occhiataccia e non
ebbi il coraggio di risponderle, anzi, cercai per quanto possibile di
nasconderle il rossore colpevole che mi si stava dipingendo in faccia,
consapevole che Sile non avrebbe mai compreso né approvato
quella mia innocua, eppure maligna soddisfazione, per quelle fantasie
che nutrivo nei confronti di suo padre.
“D’accordo, andiamo
dai miei, visto che ci tieni tanto! Però, per favore, prima
di tornare a casa, vorrei portarti in un posto, e dovremmo andarci
prima che sia notte fonda. Potresti evitare di farti convincere a
restare?”
Sile annuì, ancora stizzita, speravo che la mia resa fosse
sufficiente per accantonare lo spinoso tema “Donovan mastino
Kelly” perché le cose non si stavano mettendo per
niente bene per me.
“Non è che pensi
ancora a quella storia della Passaporta, vero? Perché
è un’assurdità!”
Divenni porpora all'istante: no, evidentemente non bastava farmi
trascinare dai miei per fargliela passare, anzi si ricominciava con un
altro tema per il quale avevamo bisticciato durante tutta la prima
parte del pomeriggio, quando le avevo suggerito di tornare al Ministero
per convincere il Ministro a concederci un'altra Passaporta, visto che
avevo lasciato scadere la prima.
“E anche se fosse? Mi dispiace
averti fatto perdere l'ultima occasione di usare quella che abbiamo a
casa! So quanto ci tenevi, cosa ci sarebbe di male a fare un tentativo?
In fondo lo faccio per te!”
“Funziona fino a domani sera,
Mirzam! Ricordo benissimo le parole del Ministro!”
“Ed io ti dico che quando
siamo usciti, la Passaporta era inerte e spenta sulla
cassapanca! Saprò quello che ho visto! Mi sa che,
nonostante la mia imbranataggine, ti ho fatto perdere un po' il senso
del tempo, in questi giorni!”
Ghignai appena, malizioso, Sile si fermò sull'ultimo
gradino, muta, io sbiancai, temendo di aver esagerato ancora una volta
e di averla offesa, ma lei salì in punta di piedi e mi
scoccò un bacio sulle labbra, lasciandomi come sempre
esterrefatto. Ci ritrovammo a baciarci appassionatamente in mezzo alla
fitta nevicata, sulla soglia di casa Meyer, disinteressandomi della
sicura presenza della signora Mortimer che ci spiava dalla finestra
della casa di fronte, bigodini in testa e binocolo per non farsi
sfuggire alcun dettaglio. La vicina, che mio padre chiamava
“Guardia Regia”, controllava infatti il 74 di Essex
Street da quando avevo memoria, sostenendo con il resto del vicinato,
del tutto disinteressato a noi, che quell’abitazione storica
fosse sempre frequentata da tipi alquanto sospetti.
“Pare che non ci sia nessuno,
eppure dovevano restare qui fino a Hogmanay…”
Ancora stranito per il bacio, seguii indolente e poco partecipe lo
sguardo di Sile e mi accorsi a mia volta che la casa era immersa nel
silenzio e nell’oscurità, e di colpo mi parve che
tutto avesse un senso.
“Ecco cosa cercava di dirci
Kreya! Mio padre voleva comunicarci un semplice cambio di programma,
come vedi, non era poi così urgente...”
“Non avrebbe usato un semplice
Patronus o un gufo, per qualcosa di così
insignificante?”
“Magari Kreya mi ha chiamato
solo per consegnarmi una lettera!”
Ora che ci pensavo meglio, però, sapevo che non era
così, la situazione, oltre che strana, improvvisamente mi
parve anche inquietante, come se quel silenzio e
quell'oscurità. No, non poteva essere successo nulla di
male, lo avrei saputo...
E come Mirzam? Hai imposto a Kreya il silenzio... Hai rifiutato i
giornali e qualsiasi contatto con il mondo esterno… Che
idiota!
“Sei preoccupato? Proviamo a
entrare… magari ti tranquillizzeresti e... ”
“No, Sile, è ancora
casa mia, certo, ma non voglio entrare senza invito… Sai
cosa ti dico? È giusto che io mi tenga questa
preoccupazione, ora, perché mi sono comportato da ragazzino,
avevi ragione tu, ho sbagliato con Kreya! Parlerò e mi
chiarirò con lei appena saremo a casa e mi
comporterò di conseguenza, se il messaggio non riguarda
loro, mi limiterò a mandare un Patronus ai miei per sapere
cosa sta succedendo…”
“Allora andiamo al Paiolo
Magico, così possiamo smaterializzarci da
lì… Nevica poco ora, c'è troppa gente
in giro, non possiamo smaterializzarci all'aperto...”
Annuii, le passai un braccio attorno alle spalle e tornammo indietro,
il tragitto era breve ma l’inquietudine che provavo in quel
momento rese la strada interminabile, mi chiusi in un preoccupato
mutismo, che nemmeno la pazienza e la calma di Sile riuscirono a
scalfire. Giunti nel vicolo, mi sistemai alle sue spalle, facendole
scudo, così che nessun curioso la vedesse mentre,
armeggiando con la bacchetta, riduceva le dimensioni dei pacchetti e li
introduceva nella sua borsa porta-tutto, per rientrare nel nostro mondo
senza suscitare curiosità e scandalo con le nostre compere
babbane.
“Fatto, possiamo
entrare...”
Mi guardava soddisfatta, come se nulla fosse, desiderosa come me di
rifugiarsi al calduccio, la borsetta a tracolla e la bacchetta
già sparita nella sua manica, io avevo la mano sulla
maniglia, ancora sovrappensiero per le sensazioni provate a Essex
Street. Sile mi prese una mano tra le sue e mi
baciò di nuovo, proprio mentre aprivo per farla passare,
cogliendomi di sorpresa: mi sconvolgeva sempre quando faceva
così, perché capivo sempre in ritardo le sue
intenzioni, e perché lei, al contrario di me, non sembrava
curarsi troppo delle apparenze, non provava imbarazzo a manifestare il
suo affetto per me anche in pubblico. Diventai rosso come un pomodoro,
mentre volti sconosciuti si voltavano verso la porta aperta e si
soffermavano sull'immagine noi due che davamo spettacolo in quella
maniera incresciosa: imbarazzato come non mai, non riuscii a reagire
mentre Sile, divertita, mi sussurrava all'orecchio:
“Non fare quella faccia, dai,
sono tua moglie, Mirzam Alshain Sherton, ho il diritto di baciarti ogni
volta che ne ho voglia...”
Sorrise ed entrò, senza aggiungere altro, mentre io tenevo
ancora la porta e restavo inebetito lì, a guardarla avanzare
sicura tra i tavoli, il fumo e il calore del locale che già
avvolgevano la sua figura.
“Allora, ci svegliamo? La
vogliamo chiudere quella porta? Ci stai raffreddando il
locale!”
Mi ripresi ed entrai, il passo rigido e nervoso, chiudendo rapido la
porta: io che lo detestavo, mi ero fatto notare da tutti e ora, con il
volto doppiamente rosso d'imbarazzo, per il bacio e per la figuraccia,
attraversavo la sala, a testa bassa, seguito da occhiate divertite e
facezie più o meno sussurrate. Sile, come se niente
fosse, era andata a sedersi a un tavolo un po' isolato, decisa a bere
qualcosa che ci scaldasse un po', al contrario di me, che volevo solo
scivolare al più presto nel retrobottega per
smaterializzarmi a casa e chiuderla con quella giornata pesante. Tom
arrivò rapidamente per prendere l'ordinazione: mentre io mi
sedevo senza una parola di fianco a Sile, ancora imbronciato,
ripiegando il giaccone sulla sedia, mia moglie chiese due Burrobirre,
senza chiodi di garofano ma con la cannella, guardandosi attorno
indifferente, gli angoli della bocca che tradivano tutto il suo
divertimento.
“Te la ridi,
eh…”
“Rideresti anche tu, al mio
posto, se avessi fatto quella faccia allucinata per un semplice
bacio…”
Giravo con il cucchiaino la bevanda fumante, attonito, preoccupato,
confuso, sentendomi ancora addosso gli occhi degli altri e qualche
risatina di sottofondo, benché non fossi sicuro che fosse
reale, ma o piuttosto frutto della mia fantasia. Perché
doveva essere così difficile? Quando eravamo soli,
riuscivo ad accettarmi così com'ero, a ridere persino di me
stesso e delle mie assurde reazioni... Ma in pubblico... In
pubblico era sempre tutto dannatamente diverso, mi sentivo a mio agio
solo su un manico di scopa o insieme alle persone che conoscevo
benissimo, mentre con gli altri…
“Non sarò mai al
tuo posto… sono e sarò sempre io quello
imbranato, non tu!”
“So che sei preoccupato e
quando lo sei, straparli, ma non avercela con me, se cerco di godermi,
anche in momenti difficili, il piacere di avere un marito dolce e
spiritoso come te... ”
“Imbranato, non dolce e
spiritoso! Lo vedi tutti i giorni, l'hai visto anche due secondi
fa!”
Sile mi prese la mano tra le sue, fissandomi, io la guardai,
sorseggiando ancora innervosito la mia Burrobirra, riscaldandomi un
poco per volta, però, per il sorriso che le spuntava di
nuovo in faccia, probabilmente perché pensava a una delle
mie abituali dimostrazioni d’imbranataggine casalinga.
“Abbiamo due vocabolari
diversi, allora... la mia definizione d’imbranato
è diversa dalla tua... secondo la mia tu non lo sei...
”
“E cosa sarei allora, secondo
te? Un patetico idiota?!”
“Te lo dico solo se prometti
di non montarti la testa, dopo, altrimenti poveri noi...”
Rise, si divertiva sempre a prendermi in giro ma io non ci stavo, non
in quel momento: non sarei caduto nella sua trappola, già
troppe volte con la mia curiosità avevo fatto il suo gioco
così alzai le spalle fingendo che non me ne importasse
granché dei suoi vocabolari e tutto il resto. In
fondo avevo il sacrosanto diritto di offendermi pure io, visto che mi
aveva provocato senza motivo tutto il pomeriggio con le sue frecciatine
e ora ne avevo davvero abbastanza.
“Non m’interessa
Sile, di vocabolari e tutto il resto... È tutto molto
più semplice: i ragazzini possono anche essere indecisi,
curiosi, combinare guai, ma una volta che si
cresce…”
“Si ha l’obbligo di
diventare noiosi? Non c’è nessuna legge che dice
che dobbiamo smettere di giocare, di stuzzicarci, di ridere…
anche perché lo so che piace pure a te…”
Finii la mia Burrobirra, racchiudendo con uno sguardo la maggior parte
degli avventori del Paiolo che avevano borbottato al mio ingresso e che
ora sembravano tornati tutti ai propri affari.
“Sì, è
vero, mi piace… ma quando si cresce, si hanno anche dei
doveri, come quello di non farsi ridere dietro… ”
“Ah già, la
rispettabilità richiesta a ogni bravo Slytherin! Come posso
dimenticarmene? Aver suscitato un po' d’ilarità
prima, tra tutte queste persone… quante saranno? Sette? Deve
essere davvero molto disdicevole… Pensa se lo sapesse gente
della risma dell’adorabile signora Black!”
“Non importa quante persone
sono, Sile, quante persone hanno riso o cosa penserebbe Walburga Black!
È … È qualcosa tra te e me... Non
capisci? Non è normale che debba preoccuparti tu
di tutto, perché io sono così stupido
che… se dipendesse tutto da me ora saremmo già
nei guai... Non ho più quindici anni, Sile, siamo sposati
adesso, da me ti aspetterai pure qualcosa di diverso da com'ero allora,
o no? O mi sta sfuggendo qualcosa?”
Mi guardò seria, con quell’aria che assumeva
davanti ai nostri discorsi importanti, quelli che periodicamente
affrontavamo fin dai primi giorni insieme, per confrontarci e crescere.
“Ti sfugge la domanda
fondamentale: a chi devi dimostrare qualcosa? Se è a te
stesso, d'accordo, ne possiamo parlare... Se credi, invece, di dover
dimostrare qualcosa a queste persone, mi sembra assurdo... Quanto a me,
mi hai già dato le dimostrazioni che mi servivano, tutto il
resto, almeno per me, si affronta andando avanti insieme...”
“Non mi devi consolare ogni
volta, Sile, non sei mia madre ed io non sono un bambino!”
“Non ti sto consolando, a me
piaci così come sei: c’è qualcosa di
male in questo? Per molti, serietà e maturità
significano vivere reprimendo tutto o fingere un sentimento che non
provano. Perché dovrei volere per noi una situazione del
genere? Per paura del giudizio degli altri? Chi sono gli altri? Tu non
sei così! La tua forza non è quella di cui molti
parlano, fatta di egoismo e indifferenza... quello è il
comportamento di personaggi che abbiamo avuto la sfortuna di conoscere
e che spero, d'ora in poi, frequenteremo il meno possibile…
tu sei diverso da loro, ed è per questo che stiamo
insieme...”
Mi teneva la mano, la voce sussurrata eppure appassionata, compresi che
c’era un modo diverso di vedere quello che mi angustiava,
un’ottica che non avevo mai considerato. La guardai:
a modo suo, era una vera Slytherin, non bisognava farsi trarre in
inganno dal suo aspetto tranquillo, dalla sua figura minuta, Sile era
una tigre quando doveva proteggere ciò che amava, ed io
ambivo ad avere, prima o poi, almeno un decimo del suo cipiglio, della
sua forza.
“Allora avevo ragione a Essex
Street, la mia imbranataggine ha fatto colpo su di
te…”
Sorrisi, ma non riuscivo a guardarla negli occhi, istante dopo istante,
mi rendevo conto di aver appena ricevuto uno dei più bei
complimenti che mi avessero fatto in tutta la vita, una vera
dichiarazione d’amore e mi sentivo in imbarazzo, e felice
perché a farmelo era stata la persona che più
aveva importanza per me.
“Se non l’avessi
ancora capito… Io sono innamorata della tua
“imbranataggine”, Mirzam Alshain
Sherton…”
Le presi la mano, mi guardai intorno, vidi che c'erano più
di sette persone, che per lo più si stavano facendo gli
affari propri, ma un paio, forse due Ministeriali, stando agli abiti,
stavano guardando verso di noi: uno aveva un paio di pesanti occhiali e
i capelli un po' disordinati, l’altro era di spalle, non lo
vedevo in faccia, ma portava una bombetta. Le sollevai la mano
e la portai alle labbra, guardandola.
“Sì, credo sia un
ottimo motivo per accettarmi come sono… ma… per
quanto riguarda gli aspetti puramente pratici, ho ragione io,
Sile… quindi, faremo tutto in parti uguali, ci prenderemo
entrambi cura l’uno dell’altra,
d’accordo? Un piccolo passo per volta…”
“Un piccolo passo, mi sta
bene…”
Sorrisi mentre lei beveva gli ultimi sorsi di Burrobirra e lasciava che
un baffetto di schiuma le decorasse le labbra, in alto a sinistra,
passai un dito leggero su di lei, a raccoglierlo, continuando a
fissarla estasiato.
“Mirzam Alshain
Sherton?”
Sile si staccò da me il poco che bastasse a rispondere
all'uomo alle mie spalle, io mi voltai innervosito per
l’interruzione, maledicendo tra me l'idea di esserci fermati
lì, esposti, com’era prevedibile, al fastidio dei
soliti seccatori. Fu allora, che la realtà, entrò
come un uragano nella nostra vita.
“Consegnateci la bacchetta e
seguiteci senza opporre resistenza: siete sotto la custodia del
Ministero della Magia. Questo è il mandato di cattura con
cui il ministro Longbottom ha ordinato il vostro arresto e queste sono
le incriminazioni…”
***
Regulus Black
12, Grimmauld Place, Londra - ven. 24 dicembre 1971
Mi trovavo nel bel mezzo di una delle cene più barbose di
cui avessi ricordo, lunga, anzi no, interminabile: erano già
due ore che stavamo seduti in sala da pranzo e ancora mancavano
numerose portate al dolce. Si trattava, inoltre, di una cena di
famiglia con pochissimi invitati, tutti impegnati solo ed
esclusivamente sullo stesso argomento, non era possibile trovare un
discorso diverso, un po’ più interessante degli
altri, un po’ meno noioso degli altri. L’unico tema
della serata erano i Malfoy: i nonni, papà e gli zii erano
tutti presi a enumerare le proprietà del temibile Abraxas e
a suggerire allo zio cosa inserire nel contratto matrimoniale che
avrebbe firmato per Narcissa. Le Streghe, esclusa Bella, a casa ancora
in via di guarigione, erano immerse nelle loro risatine civettuole con
Cissa che, stranamente, teneva banco, lei che di solito in pubblico non
parlava mai e sorrideva appena: quella sera, invece, da quasi quattro
ore, comprese le due precedenti la cena, mia cugina stava descrivendo,
fin nei minimi dettagli, come sarebbe stata la sua festa, con le nonne,
le zie e la mamma, impegnate a compiacerla, confrontando e criticando i
ricevimenti, i pizzi, i merletti, gli anelli, le cerimonie, i buffet,
le acconciature, le vesti e qualsiasi altra cosa avessero visto o
sentito descrivere nei più importanti ricevimenti degli
ultimi anni, decise a fare della festa che si sarebbe tenuta di
lì a una settimana, a Manchester, per il fidanzamento tra la
terzogenita di Cygnus Black e l'unico erede di Abraxas Malfoy, l'evento
magico mondano del secolo.
Sirius ed io non facevamo che scambiarci occhiate complici dai due lati
del tavolo, io rassegnato, lui a dir poco disgustato: temevo che da un
momento all'altro non sarebbe più riuscito a contenersi,
mettendo così fine a quella serata odiosa a modo suo, con
una delle sue solite bravate. E se fosse successo, indipendentemente
dalle tragiche conseguenze, per una volta, non me la sarei sentita di
dargliene tutta la colpa. A parte l'incredibile noia che ci accomunava
e a cui ormai mi stavo abituando, però, i motivi per cui
condividevo il suo scarso entusiasmo per quella vicenda erano molto
diversi. Mio fratello aveva sempre sofferto di orticaria verso tutto
ciò che entusiasmava la mamma e nostra cugina e, da quando
aveva imparato da Bellatrix quella parola, diceva che erano tutte
“stronzate”; inoltre l'antipatia che provava per
Malfoy, da quando era costretto a vederlo a scuola, era diventata odio,
quindi passare tutta la serata a sentir celebrare le virtù
di quel damerino biondo era per lui un'insopportabile tortura. Al
contrario, io, più che esasperato, ero triste: triste,
sì, benché sapessi che quel matrimonio, come
diceva la mamma, avrebbe contribuito a dar lustro al nostro nome e
Narcissa sarebbe andata in sposa a un Mago Purosangue
straordinariamente ricco e potente, che tra l’altro era
giovane, affascinante e, a sentir molti, interessato veramente a lei,
non solo alla purezza e alla nobiltà del nostro Sangue e del
nostro Casato. Anche Lucius piaceva a mia cugina, pertanto quel legame
era desiderato e voluto da entrambi gli interessati, non solo dalle
famiglie, sarebbe stato quello che si diceva “un matrimonio
d'amore”, non un legame imposto: una volta, parlando di cosa
provava per lui, avevo sentito con le mie orecchie Cissa dire a Meda di
avere le “fatine nella pancia" quando lui le sorrideva, ma io
ero piccolo e non avevo capito il senso, solo adesso iniziavo a
intuirlo, da quando, a mia volta, sentivo qualcosa di strano nello
stomaco quando guardavo Meissa. Divenni di colpo porpora e mi agitai
sulla sedia, poi mi guardai intorno, nervoso, pregando gli dei che mio
fratello non mi stesse osservando: ero convinto di aver sempre stampati
in faccia gli imbarazzanti segni della mia cotta per Meissa e che
Sirius perciò sapesse quando stavo pensando a lei e potesse
deridermi davanti a tutti.
Malfoy... sì, è molto meglio concentrarmi su mia
cugina e su Malfoy.
Guardai Kreacher zompettarmi vicino e mi feci servire un po' d'acqua,
intanto riflettevo su quanto quel damerino pomposo non mi piacesse, sul
fatto che mi mettesse paura perché aveva qualcosa di
pericoloso nello sguardo ed io temevo per Cissa, non sapevo nemmeno io
bene che cosa; mi resi conto che provavo per “quello
lì” gli stessi sentimenti intrisi di risentimento
che mi scatenava quell’altro bellimbusto di Lestrange: per
quanti soldi e potere avessero, ero convinto che fossero indegni
persino di baciare la terra su cui camminavano le mie cugine, figurarsi
se avevano il diritto di... Sentii l'acqua scendermi nello stomaco come
qualcosa di gelido e corrosivo. Forse ero soltanto geloso
perché me le stavano portando via... sì, doveva
essere così. Ero solo triste per me stesso, come un bambino
sciocco, per la fine del mondo come l'avevo finora conosciuto, per la
fine della mia infanzia. Narcissa si stava fidanzando, presto si
sarebbe sposata, e nulla sarebbe stato più come prima, era
questo il problema: per fortuna non ero un impulsivo come mio fratello,
avevo ben chiaro il senso del decoro, come ogni Black che si rispetti,
sapevo che tra i miei doveri c'era anche quello di non mettere in
imbarazzo me stesso e i miei cari... perché altrimenti...
Erano giorni, dal matrimonio di Mirzam, che sentivo crescermi dentro un
misto di rabbia, angoscia, tristezza, che mi prendeva e mi si annodava
stretto dentro e che avevo sempre più difficoltà
a cacciar via. Temevo che se avessi lasciato quella sensazione farsi
largo in me, libera di dominarmi, avrei finito con l'alzarmi davanti a
tutti, dicendo quello che pensavo, poi sarei fuggito in camera mia e
avrei preso a pugni il cuscino o avrei fatto qualcos'altro di
umiliante, ma utile a sfogarmi, forse addirittura piangere... Anche se
provavo quelle sensazioni, però, così forti,
potenti, come non ne avevo provato mai, ero e restavo sempre un Black,
e un Black è sempre superiore persino a se stesso! Sospirai.
Sì, dovevo sentirmi così perché troppe
cose stavano cambiando, velocemente e tutte insieme, ed io non ero
pronto. Avevo avuto paura per Bellatrix, non volevo che stesse
così male. Avevo avuto paura per i miei amici... Avevo... A
volte avevo la sensazione che tutto corresse troppo in fretta, che le
persone cui volevo bene scivolassero via dalla mia vita e non ci fosse
niente e nessuno altrettanto importante che le sostituisse. Bella si
era sposata e per questo non la vedevo quasi più e quando
tornava, c'era sempre pure “lui”e lei...
Bellatrix... era sempre più lontana, diversa, più
grande... Più bella... Più terribile...
Più irraggiungibile... Sirius era finito a Grifondoro e
aveva gettato un'ipoteca pesante sul suo futuro ma anche sul mio: la
mamma faceva di tutto per tenerci separati ed io non sapevo
più cos'era giusto e cos'era sbagliato, perché
lei aveva ragione a preoccuparsi, ma a me lui mancava, anche se da
piccoli era stato tremendo essere puniti insieme, infinite volte,
sempre e solo per colpa sua. Io… lui... Lui era mio fratello
ed io gli volevo bene, non potevo farci niente.
E poi c'è Meda... No, lei non c'è davvero
più, di lei non deve importarmene più niente, non
merita più nemmeno un mio pensiero... Eppure...
Mia madre mi aveva insegnato che “quella
lì” era peggio che morta, perché
almeno, delle persone che muoiono, si deve e si può sentire
la mancanza; “quella lì”, invece, quella
che non aveva più nemmeno un nome per tutti noi, non era
proprio mai esistita, per questo c'era quel buco sull'arazzo,
perché un Black che non si comporta da vero Black, non
esiste, e se non esisti, nessuno ti conosce, quindi nessuno ha motivo
di sentire la tua mancanza o provare per te altri sentimenti, se te ne
vai. Quando me lo spiegava, in quel modo, con quelle parole, con
quell’implacabile freddezza, sentivo una voragine dentro di
me: il solo pensiero di poter combinare anch’io un disastro
che portasse il mio nome a essere bruciato, a non essere mai esistito
per le persone cui volevo bene, mi riempiva di terrore. Poi riflettevo:
ero nato Black e mai, per nessun motivo, avrei fatto qualcosa che mi
privasse di quell'onore e di quella fortuna, lo giuravo sulla mia anima
immortale tutte le sere, alla fine delle preghiere, prima di
addormentarmi. Poi però... Poi pensavo a mio fratello e
iniziavo di nuovo a tremare.
Con la ragione, capivo tutti i concetti, avevo tutte le mie sicurezze,
a volte, però, non riuscivo a controllare il fluire dei miei
pensieri: spesso, durante le lezioni del mio noioso precettore, mi
distraevo e con la memoria ritornavo a quando avevo cinque anni, a un
preciso pomeriggio d'estate, passato con le mie cugine nei giardini di
Lacock. Bellatrix quel giorno non c’era, stava da qualche
parte con i suoi amici più grandi, ma Meda era
lì, era vera, esisteva: ci leggeva un libro seduta su una
coperta stesa sull'erba, mentre Cissa ed io eravamo seduti sulla
panchina per giocare con Agenore, il vecchio gatto persiano di zia
Druella, cercando di impedire a Sirius, che si annoiava a
“pettinar le bambole”, come diceva lui, di tirargli
la coda; a un certo punto Cissa, tutta seria, come una signora grande,
aveva ripreso mio fratello dicendogli che “un vero Black non
si comporta mai così in pubblico”, allora Sirius,
indispettito, aveva fissato quella povera bestiola in cagnesco e Cissa
con la sua solita terribile aria di sfida, infine le aveva
“abbaiato” contro che avrebbe voluto essere un
cane, solo per farle sparire tutti i suoi adorati gatti, con tanta
rabbia e convinzione da riuscire a farla piangere. A quel punto, Meda
aveva chiuso il libro, si era alzata, aveva preso Agenore e
l’aveva messo tra le braccia di Sirius, prendendogli la mano
e passandola leggera sulla testa del felino: il gatto, l'unico a non
curarsi di tutta quell’agitazione, aveva sbadigliato, si era
stiracchiato un pò, aveva puntato la testa contro il petto
di mio fratello e, lasciando Sirius e tutti noi sbigottiti e
interdetti, si era addormentato, ronfando acciambellato tra le braccia
del suo presunto nemico.
“Vedi,
Sirius, spesso i cani... dormono proprio con i gatti...”
Tutti, a parte Cissa ancora risentita, avevamo riso della faccia di
Sirius, alla fine aveva sorriso impacciato pure lui, in quel tiepido
sole di fine estate, in quell'angolo isolato del parco, da cui nessuno
ci sentiva: eravamo in un mondo tutto nostro, solo nostro, era
perfezione, era felicità. Sì era
felicità, nonostante le nostre baruffe, stare lì,
con la mia famiglia, con Narcissa che mi accarezzava i capelli, e
diceva che ogni giorno diventavo più bello, che ero un Black
perfetto, migliore di mio fratello perché io non la facevo
piangere mai... Quel giorno... Lo ricordavo ancora perché
era accaduta una cosa importante: le avevo dato un bacio sulla guancia,
tutto impettito e serio, e le avevo promesso che appena fossi stato
grande l'avrei sposata io, così lei non avrebbe pianto mai
più... Quel giorno lo ricordavo ancora, perché il
mio cuore si era riempito d'orgoglio quando lei mi aveva guardato con
quegli occhi di mare e mi aveva sorriso e mi aveva detto di
sì, perché al mondo nessuno era perfetto come me.
Sirius mi aveva preso in giro a lungo, a causa di quella storia, ma io,
per tanto tempo, ero stato felice, sicuro che davvero, per Cissa, non
ci sarebbe stato mai nessuno più buono e perfetto di me.
Sospirai.
All'epoca ero solo un bambino, certo, e ormai non lo ero
più, sapevo che quelle parole non significavano niente e
iniziavo a capire molte cose che allora non immaginavo nemmeno, come il
fatto che anch'io un giorno avrei avuto dei desideri e dei sogni ben
diversi, ma... Quel momento era stato lo stesso importante e
meraviglioso, perché eravamo felici, eravamo uniti, eravamo
le dita di una mano. Ora, invece... spesso avevo la sensazione che...
Li guardai tutti: eravamo sempre noi, i Black, gli invidiati Toujours
Pur, eppure non eravamo più come prima, e quando me ne
rendevo conto, mi si stringeva il cuore e mi riempivo di tristezza. E
di paura.
Sì, avevo paura: guardavo Sirius e nostra madre e avevo
paura. Avevo paura dei giorni che si rincorrevano veloci, di Sirius che
se ne sarebbe andato lasciandomi di nuovo solo, del mio compleanno che
si avvicinava, della lettera che sarebbe arrivata presto da Hogwarts:
per anni avevo sognato quel giorno, entusiasta, ma da quando Sirius...
Avevo paura, sì, avevo paura: eravamo fratelli, eravamo
cresciuti nella stessa casa, avevamo lo stesso sangue e ora che si
avvicinava quel giorno, io tremavo all'idea che anche di me il pulcioso
Cappello di Godric potesse dire cose sconvenienti e devastanti! Non ci
potevo pensare... Non potevo pensare a mia madre e mio padre che
guardavano anche me con quegli occhi pieni di delusione, mi sentivo
morire quando nostra madre trapassava Sirius come se fosse trasparente!
Salazar... se fosse successo qualcosa di simile anche a me...
Sì, ne ero certo, sarei morto all'istante!
Impercettibilmente sentii il mio corpo tremare: mi capitava sempre
più spesso, col passare dei giorni, sentivo l'aria che
entrava con difficoltà nei miei polmoni, il cuore che
sembrava fermarsi. Mi resi conto che anche gli altri potevano
accorgersi del mio tremore, quando sentii il leggero tintinnio della
posata che batteva contro il piatto. Zio Alphard, per fortuna, fu
l'unico a notarlo: non disse nulla, si limitò a indagarmi
con lo sguardo, attento, partecipe, pieno di premura, io lo guardai
grato, osservai il suo viso aprirsi in un'espressione incoraggiante e
mi ripresi un pò.
“Potete continuare senza di
me, per qualche minuto? Dovrei fare ai miei nipoti il mio solito
discorsetto natalizio, torniamo subito... ”
Mio padre si limitò a un cenno con cui ci esonerava persino
dal ritornare a tavola, tanto era preso dal suo ragionamento sui
terreni che Malfoy aveva nel Wiltshire, la mamma bofonchiò
qualcosa sul fatto che non ci si alza così da tavola, ma
anche nel suo caso, la disquisizione di nonna Melania sulla
"pregevolezza dei cristalli di Boemia", prevalse sull'etichetta e
decise di non intervenire. Lo zio non se lo fece ripetere due volte,
rapido ci rivolse un'occhiata che voleva dire “muovetevi
prima che si accorgano che stiamo fuggendo”, Sirius
sospirò di sollievo, riconoscente, e rapidi, ci dileguammo
per trovare rifugio nella sala dell'Arazzo.
“Finalmente! Non so voi,
ragazzi, ma io non ne potevo più! Prima che tocchi a uno di
voi due spero passeranno anni, perché mi ci vorrà
davvero molto tempo per riprendermi da questa serataccia!”
Zio Alphard si accomodò sfinito e sorridente sul divano di
fronte all'Arazzo e fece cenno a me e Sirius di sederci uno per lato al
suo fianco, io non vedevo l'ora e ubbidii subito, dopo tutte quel
chiacchiericcio noioso un racconto del mio zio preferito era quello che
ci voleva: con un po' di fortuna, immaginavo ci avrebbe parlato dei
Draghi visti nel suo recente viaggio in Romania. Lo adoravo: mio zio
era il tipo di persona che avrei desiderato diventare anch'io, un
giorno, un uomo che aveva ben saldi nella mente i principi di un vero
Black e che era stato capace di coniugarli in maniera originale ai suoi
innumerevoli e svariati interessi, regalandosi una vita piena ed
emozionante. Quando lo guardavo, ero colto dall'entusiasmo, tutto
poteva mutare, ma ero certo che lui sarebbe rimasto uno dei punti fermi
e fondamentali della mia vita e di quella di quanti amavo: grazie a
lui, quel ricordo di Lacock non sarebbe mai svanito del tutto, non
sarebbe stato l'ultimo, né l'unico, crescendo avremmo
vissuto altri momenti come quello e, pur in modo diverso, tutti noi
avremmo trovato il modo di essere ancora uniti, proprio come le dita di
una mano!
“Domani, durante il pranzo a
casa dei nonni, non potrò stare molto con voi, arriveranno
un paio di vecchi amici di zio Cygnus e dovrò far da
“cavaliere” alla loro svenevole figlioletta, che vi
sia di esempio, ragazzi: cercate di trarre insegnamento da me e dalle
mie sventure e correte ai ripari per tempo!”
Ci lanciò uno sguardo allegro e un po' irriverente, che non
compresi del tutto: quando ci guardava così, notavo
un’impressionante somiglianza tra mio zio e mio fratello, che
mi lasciava piuttosto perplesso, perché se da un lato mi
dava la speranza che magari un giorno Sirius sarebbe cambiato in
meglio, in un uomo simile a nostro zio, dall'altro sospettavo che forse
anche lo zio avesse qualcosa da nascondere. Poi per fortuna capivo
quanto fosse un ragionamento assurdo e non ci pensavo più.
“Che ne dite di aprire ora i
vostri regali di Natale?”
Mise mano al panciotto e da una delle tasche porta-tutto
tirò fuori due piccoli pacchetti, poi con un colpo di
bacchetta li riportò alle dimensioni originali:
esteriormente si trattava sempre di due scatole coloratissime e
identiche, ma dentro c'erano i regali che più desideravamo,
tra loro diversissimi, proprio com’eravamo diversi mio
fratello ed io. Sirius, impaziente, iniziò subito a
scartare: appena l'aprì, dalla scatola estrasse un pacchetto
più piccolo che conteneva un album di foto vuoto, solo nelle
prime cinque pagine c'erano già delle immagini. Incuriosito,
lasciai i fiocchi della mia scatola e mi avvicinai per guardare l'album
anch'io: vidi Sirius da piccolo in braccio a mamma e papà,
entrambi felici e orgogliosi; in un'altra foto papà, ancora
più fiero, lo teneva in braccio mentre la mamma, seduta,
cullava me, talmente piccolo che dovevo essere nato da pochi giorni; in
un'altra noi due eravamo piccolissimi, in braccio alle nonne, al centro
di una foto con tutta la famiglia, la cosa strana era che mio padre non
si limitava a stare accanto alla mamma, come faceva adesso, ma le
teneva possessivo la mano, entrambi con un'espressione strana, serena,
felice, che non gli riconoscevo. Sirius girò pagina e la
nuova foto che riempiva tutto il foglio ritraeva noi due seduti accanto
a Cissa, davanti a Bella e Meda in piedi, zio Alphard stava dietro di
loro, chiudendo così la composizione, le mani appoggiate
sulle spalle delle nostre cugine; le foto successive erano ritratti
seriosi di famiglia, senza nulla di notevole da sottolineare, ma
l'ultima foto, prima dei fogli bianchi, era molto simile a quella che
tenevamo in camera, quando Sirius ed io dividevamo ancora la stanza,
quella scattata un paio di estati prima, nel parco di Zennor, dove
papà, Sirius ed io eravamo ritratti sorridenti: anche in
quella nuova foto, che doveva essere stata scattata poco prima
dell'altra, nostro padre ci guardava con la spensieratezza e l'orgoglio
di un tempo, non con il consueto disinteresse. Rivolsi allo zio uno
sguardo interrogativo, lui stava osservando Sirius che, muto, era
rimasto molto colpito da quel regalo, in particolare dall'ultima foto.
Di colpo fui sicuro che nella mia scatola avrei trovato un album
identico, che il messaggio che doveva darci nostro zio era rivolto a
entrambi: zio Alphard, spesso, dimostrava di conoscerci più
a fondo dei nostri stessi genitori, doveva essersi accorto di quanto
fossimo rimasti entrambi turbati dopo lo smistamento di Sirius e voleva
aiutarci a modo suo a superare quel momento. Mio fratello mi
guardò senza dire nulla, ma sapevo che condividevamo le
stesse sensazioni.
“Avanti, guarda che cosa
c'è là sotto! E tu, forza, apri la tua
scatola!”
Annuii, iniziai a scartare il mio regalo, tenendo però
d'occhio il lavoro di Sirius, che ora appariva meno irruento e molto
più scrupoloso di prima: l'album era avvolto in una carta
blu con stelle dorate ed era appoggiato su un enorme foglio di carta
marroncina, con strani simboli stampati sopra, quando mio fratello lo
sollevò, a prima vista il contenuto della scatola
sembrò un ammasso di fili e pezzi di legno rotti. Entrambi
rimanemmo perplessi.
“Dai Regulus, scarta il tuo
regalo, così saliamo a montare quello di Sirius nella sua
stanza... ”
Come avevo intuito, trovai anch'io la carta blu con dentro l'album di
foto da riempire, e con le stesse immagini regalate a Sirius, nella mia
scatola, però, sotto il foglio di carta, al posto di un
ammasso di legnetti rotti, c'era un altro superbo pezzo per la mia
collezione del Quidditch: un'introvabile Moontrimmer del 1901, una
delle prime scope in frassino prodotte per salire fino a quote mai
raggiunte, l'ultima scopa artigianale, prima della produzione in serie
delle Scopalinda e delle Comet.
“Salazar! Come hai fatto, zio?
Dove l'hai scovata? Le Moontrimmer ormai sono introvabili!”
“Giovanotto, ci
sarà un motivo se tutti dicono che nulla è
impossibile per un Black!”
Mi fece l'occhietto e mi spettinò appena i capelli ed io,
emozionato, non ebbi nemmeno la prontezza di reagire impettito, come
mio solito, troppa era la felicità e lo stupore: mi
avrebbero invidiato tutti, era il più bel regalo che...
“Bene! Ho detto a Kreacher di
chiamarci poco prima del dolce, quindi abbiamo un po’ di
tempo per andare di sopra! Voglio vedere la faccia di tutti e due
quando questi strani legnetti... ”
Lo zio richiuse la scatola e la fece levitare davanti a sé
fino all'ultimo piano, salii insieme a Sirius, sempre più
taciturno, mentre io, tutto preso dal mio regalo, cercavo di fargli
notare tutti i dettagli di quella scopa leggendaria. Anche Rigel
Sherton sarebbe morto d'invidia appena... Mi fermai sul pianerottolo,
rimanendo un passo indietro a mio fratello, di colpo preda di quei
pensieri che da alcuni giorni stentavo a tenere sotto controllo.
“Che cosa ti prende, piattola?
Hai finalmente consumato tutto il fiato utile e resterai zitto per i
prossimi cinque anni? Ahahahah... ”
Sirius mi guardava con il solito ghigno irridente, io non avevo nemmeno
la forza di rispondergli a tono, perché l'indomani a casa
dei nonni avremmo visto amici e parenti, ma non ci sarebbe stato
nessuno degli Sherton.
“No... è che...
stavo pensando a Rigel... a quando… se... ”
Sirius non disse nulla, per qualche istante, poi mi fissò
senza più ombra di derisione, mi passò un braccio
intorno alle spalle, protettivo, sicuro che per una volta non avrei
fatto obiezioni.
“Gliela farai vedere molto
presto, Regulus... anzi... ora gli scriviamo... sai, ho chiesto a
papà il permesso di spedirgli una lettera, non possiamo
fargli visita, ma... ti va di scrivergliela insieme?”
Annuii, stranamente sollevato, mentre m’invitava a seguirlo
nella sua stanza, dove già lo zio aveva aperto la scatola
misteriosa sul letto e armeggiava con fili e legnetti a colpi di
bacchetta.
“Bene, ci siamo... Ora
chiudete gli occhi... ”
Ubbidiente, chiusi gli occhi e mi appoggiai con la schiena alla porta
della mia vecchia stanza, completamente immersa nella penombra, c'era
solo una candela accesa sulla mensola della finestra, com’era
usanza nella settimana che seguiva Yule.
“Anche tu, Sirius, non fare il
furbetto!”
C'era da aspettarsi che mio fratello facesse di testa sua, non
rispettava mai alcuna regola, nemmeno una come quella, ma invece di
indignarmi, come succedeva sempre, sorrisi tra me, per l'atmosfera che
si era creata all'improvviso tra noi, per i regali, per nostro zio, per
il nostro abbraccio. Sentii lo zio bisbigliare alcune parole che non
compresi, poi sentii una specie di sibilo e un tintinnio strano, infine
ci disse che potevamo riaprire gli occhi. Quando mi guardai intorno,
trattenni a stento un gemito di sorpresa e meraviglia: la stanza era
percorsa da strane luci iridescenti, che uscivano da alcune sfere
sospese per Magia sopra le nostre teste, ruotando su se stesse e
fluttuando nell'aria in una danza armonica. Proprio sopra di me, c'era
una sfera blu, poco più in là ce n'era un'altra
rossa come il sangue e una gialla ocra, più o meno di
dimensioni simili, poi una molto più piccola, rugosa quasi
vicino a una specie di palla di fuoco che sembrava pulsare,
volteggiando su se stessa. Più lontana, c'era una palla
più grande, gialla, con una strana chiazza rossa che si
muoveva su una specie di fascia, e poi altre due appena più
piccole, quasi grigio argento, una con degli strani dischi tutto
attorno e...
“Che
cos'è?”
Alzai la mano verso la palletta blu, senza toccarla, temendo di rompere
qualcosa: vidi che c'erano delle strisce di forma diversa, marroncine e
verdi qua e là, e all'improvviso mi venne in mente
un'immagine lontana, assomigliava a qualcosa che avevo visto anni prima
in un libro misterioso nella biblioteca dello zio.
“Puoi toccarla, Regulus, non
si rompe, prendi quella palla azzurra e portala all'orecchio...
ascoltala... ”
L'afferrai titubante, sentii una sensazione di bagnato sulle dita,
l'avvicinai all'orecchio, come diceva lo zio, sentii il rumore del mare
e il verso dei gabbiani.
Era bellissimo!
“Questo è un vero
modellino del Sistema Solare! Zio! È ... È un
regalo bellissimo!”
Alphard sorrise mentre Sirius gli si avvicinava e si lasciava
abbracciare, io rimasi un po' interdetto, stupefatto per la meraviglia
di quel regalo, ma soprattutto per quell'abbraccio intriso di
gratitudine, una gratitudine che non riguardava solamente il dono, ma
il legame tra loro tanto profondo. Sentivo in me un po' del consueto
imbarazzo per quelle dimostrazioni pubbliche di affetto, ma anche un
pò d'invidia, per la capacità di mio fratello di
lasciarsi andare, almeno con lo zio, cosa che a me non riusciva mai,
nemmeno quando ero sereno come in quel momento.
“So che ami il cielo e le
stelle, volevo ne portassi un pezzetto con te... Dopo
t’insegno l'incantesimo per aprirlo, così puoi
portarlo nella tua stanza di Hogwarts!”
“Magari zio! Sarebbe
bellissimo!”
“Ora vi lascio da soli,
così potete discutere delle vostre cose e dei vostri regali
in santa pace!”
Lo zio uscì ed io rimasi sbigottito, quando mi accorsi che i
suoi passi non scendevano fino alla sala da pranzo, ma si fermavano sul
pianerottolo sovrastante, non capivo che cosa stesse facendo.
“Che cosa fa?”
“Uff… ti devo
proprio spiegare tutto, fratellino? Ci sta facendo da palo!”
“Da palo? Che cosa
significa?”
Guardai Sirius dubbioso, ma già lui aveva assunto il suo
solito ghigno e sapevo che da quel momento mi avrebbe dato solo
risposte stupide e irritanti se avessi continuato a far domande,
perciò aspettai che a parlare fosse lui.
“Abbiamo una lettera da
scrivere insieme, ricordi? E devo fare anche qualcos'altro con te, in
santa pace… dovrei torturarti, ridurti a pezzettini! Le
solite cose, insomma! Ecco, per esempio, questo è il mio
regalo di Natale per te, non l'ho potuto scegliere da solo, ho avuto
bisogno dello zio, ma spero ti piaccia lo stesso!”
Sirius estrasse dal fondo della sua scatola di zio Alphard un pacchetto
più piccolo, con gli stemmi di Mielandia, il celebre negozio
di Hogsmeade, il desiderio proibito di ogni ragazzino del mondo magico:
dentro c'era un campionario di tutte le prelibatezze del locale, con
una razione abbondante di Piume di Zucchero, Api Frizzole, e
SuperPalleGomme di Drooble, i miei preferiti. Sapevo che la mamma aveva
eliminato tutto quello che Sirius aveva portato da Hogwarts, compresi i
regali che aveva fatto comprare da Rigel per tutti noi, quindi gli era
servito l'aiuto delo zio per riparare in parte al danno: gli sorrisi,
grato, non solo per il dono in sé, ma soprattuto
perché...
Aveva fatto di tutto perché sapessi che mi aveva pensato
almeno quanto io avevo pensato a lui.
“Anch'io ho il mio regalo per
te... sta di là, in camera mia, ti va di venire?”
Mi affrettai verso la porta, per evitare di lasciarmi andare a qualche
imbarazzante manifestazione di debolezza e sentimentalismo, Sirius fece
un cenno con la testa, accompagnato da un sorrisetto strano, che ruppe
subito l'atmosfera complice e dolciastra che si era appena formata tra
noi: quando avevo ottenuto la mia stanza, l’estate
precedente, avevo subito messo sulla porta un cartello in cui dicevo
che non si poteva entrare là dentro senza il mio permesso.
Appena l’aveva visto, Sirius mi aveva riso in faccia e mi
aveva preso in giro per giorni, poi per sfregio, ci si era introdotto
di nascosto più volte e quella era diventata la
più frequente causa di litigio tra noi, prima della sua
partenza, per la scuola. Per tutti questi motivi, perciò, il
mio invito assumeva un significato particolare.
“Prima però devi
promettermi di non guardare, d'accordo?”
“Vuoi dire che hai trovato un
nuovo nascondiglio segreto? Il terzo cassetto dell'armadio non va
più bene? Ahahahah...”
Lo fissai stizzito: il terzo cassetto era stato a lungo il mio
nascondiglio segreto, o almeno così credevo io, poi avevo
scoperto che non lo era affatto, quando, un pomeriggio del precedente
inverno, ero entrato nella nostra stanza e avevo trovato Sirius preda
dell'indigestione, dopo essersi spazzolato tutta la mia scorta di
Gelatine Tuttigusti+1 che tenevo nascoste là dentro. Feci di
no con la testa: erano passati mesi, certo, ma non ero ancora convinto
di quello che aveva detto nostro padre, che quel malessere fosse "la
punizione più giusta per quello stupido di tuo fratello".
“Forse è meglio se
resti sulla porta, e non guardare... o non ti do niente,
capito?”
Rispose solo con un ghigno, sì, avevo commesso un errore
invitandolo a seguirmi; mi avvicinai all'armadio, circospetto, sollevai
un paio di maglioni fino a raggiungere la scatola di latta con i
pupazzetti con cui non giocavo più da anni: mia madre aveva
fatto sparire la maggior parte dei miei giocattoli, quando avevo
compiuto otto anni, dicendo che ormai ero troppo grande per le
sciocchezze, io però, da quello sterminio, ero riuscito a
salvare almeno quella scatola, un vecchio regalo di Sirius, proprio
grazie all'aiuto di mio fratello, per questo, pur non giocandoci
più, ci tenevo in maniera particolare. Sollevai la scatola,
poggiava su un ripiano di legno che celava un piccolo nascondiglio, e
sentii un rumore strano, come di qualcosa che ci strisciava dentro: la
rovesciai, ma il coperchio, che non era chiuso bene com’ero
certo di averlo chiuso io, si aprì, i pupazzetti caddero
tutti a terra e con essi una lastrina di latta che faceva da
doppiofondo: con stupore, vidi a terra anche uno strano involto nero,
un sacchetto di velluto, lungo e sottile, che non avevo mai visto prima.
“Combiniamo danni, fratellino?
Ahahah!”
“Sirius, vieni qua,
presto!”
Avevo preso in mano l'involto, lo guardavo senza aprirlo, era pesante,
pieno, non avevo mai visto nulla di simile in casa, tanto meno in
camera mia; in realtà, non sapevo nemmeno che la scatola
avesse un doppiofondo, l'avevo ereditata da Sirius e non avevo idea
dove l'avesse presa lui, a sua volta. Avevo una profonda
curiosità, certo, ma anche il buon senso di non aprire o
mettere le mani dentro qualcosa che non avevo idea di cosa contenesse.
“Da dove salta fuori,
questo?”
Vidi mio fratello sbiancarsi e capii dalle sue prime risposte evasive
che mi stava riempiendo delle sue solite frottole: diceva che non
sapeva che c'era un doppiofondo, che non aveva mai visto l'involto,
però quando avevo proposto di chiamare nostra madre aveva
insistito per farlo lui, ed io sapevo che di solito mio fratello
cercava di evitarla come la peste.
“Sei il solito bugiardo,
Sirius! Se non vuoi che chiami la mamma, dimmi subito cosa
c'è dentro e com'è finito nel mio
armadio!”
“Non so che cosa
c'è dentro! Dico davvero!
“D'accordo... l'hai voluto
tu... vado a chiamarla...”
Mi avviai verso il pianerottolo, scansandolo deciso, pronto a scendere
con l'involto in mano, Sirius però all'improvviso mi
strattonò da dietro e mi spinse contro la parete, io, per
non cadere, persi la presa e l'involto finì a terra. Mentre
Sirius mi schiacciava e teneva fermo, vidi che l'involto si era aperto
appena e notai qualcosa di metallico, che brillava sinistro nella luce
tenue della scalinata.
“Lasciami stupido, mi fai
male!”
“Scusami...io...”
Mi lasciò e si scansò appena, turbato, io mi
voltai, lo guardai furioso e mi allontanai il tanto da potermi
risistemare la tunica e i capelli, Sirius rapido si avvicinò
all'oggetto prima che lo facessi io, si chinò e, con
incredibile attenzione, chiuse l'involto senza guardare cosa ci fosse
dentro.
“Cosa diavolo è
Sirius? Un coltello? Che cosa ci fa in camera mia?”
“Shhh... parla piano, per
favore! Non so che cosa sia, Reg… davvero… posso
raccontarti com’è finito in camera tua,
d'accordo...però te lo dico, solo se prometti che
resterà tra te e me!”
“Tu me lo dici, poi io, forse,
non lo dirò a nessuno! Se ancora non l'hai capito, non sei
nelle condizioni di dirmi cosa devo fare, Sirius!”
Di solito a quel punto tra noi scoppiava la zuffa, quindi mi preparai
allo scontro, ma a sorpresa, mio fratello annuì, poi mi fece
cenno di seguirlo in camera sua: io ero confuso e sorpreso, ma
soprattutto così arrabbiato con lui, perché si
era di sicuro introdotto di nuovo in camera mia e perché mi
aveva colpito alle spalle, facendomi male, che non sapevo decidermi se
ascoltarlo o correre subito di sotto e dire tutto ai nostri genitori.
Lo guardai e alla fine decisi di seguirlo, nemmeno io sapevo il
perché, forse la mia era solo curiosità.
“Siediti dai… Non
so davvero cosa sia né di chi sia… ho trovato
quel sacchettino nel caminetto degli Sherton... sembrava qualcosa
che… qualcosa messo lì a posta per essere
trovato... Ero curioso, volevo solo guardarci dentro, ma era pieno di
Aurors, che si guardavano intorno sospettosi, e c'era Malfoy... quindi
non potevo aprirlo lì, così me lo sono infilato
nello stivaletto e l'ho portato a casa... ora aspetto che Alshain si
rimetta per ridarglielo...”
“Quindi lo sai cosa
c'è dentro... hai avuto tre giorni per toglierti la
curiosità...”
“No, non l'ho più
aperto... non ho avuto l'occasione...”
“E vorresti farmi credere che
ora vuoi riconsegnarlo senza più guardare che
cos'é? Allora perché non l'hai già
consegnato a mamma e papà?”
“Tu che dici? Lo so cosa stai
pensando, fratellino! Che l'ho rubato a Herrengton, l’altro
giorno... Se lo pensi tu, figurati se non lo penserebbe pure la mamma!
Lo consegnerò io, al momento giusto... senza coinvolgere
nessuno di voi...”
“Ammettiamo sia vero, in
camera mia come ci è arrivato? Se non volevi coinvolgere
nessuno, perché...”
“Era in camera tua, solo
perché da te nessuno cercherebbe mai niente, ecco
perché! Stamattina tu non c'eri, sono entrato e l'ho
nascosto, l'avrei ripreso stasera durante la cena...”
“Certo! Perché
è sempre tutta roba tua, vero Sirius?”
Ero livido, era questo che non sopportavo di Sirius, gli era sempre
tutto dovuto, a lui non importava mai niente degli altri, non gli
importava mai di quello che, per colpa sua, succedeva agli altri...
“Ti devo un favore, lo so...
Se starai zitto, potrai disporre della mia stanza come e quando
vorrai!”
“Io non so che farmene della
tua stanza! Sei tu quello che ha i segreti, non sono io!”
“Regulus...”
Lo fissai, ci fissammo: entrambi sapevamo che ormai quel misterioso
oggetto non c'entrava niente, che non c'entrava niente nemmeno che
fosse entrato in camera mia senza permesso, ma... Respirai a fondo, per
calmarmi, non era quello il momento di cominciare con le nostre solite
storie, volevo andare a fondo di quel discorso privo di senso, c'era
sotto qualcosa che spaventava mio fratello e all'improvviso turbava
anche me.
“Hai detto che da me era al
sicuro, poi hai aggiunto che te lo saresti ripreso stanotte... Se oggi
non era al sicuro in camera tua, come farà a essere al
sicuro domani?”
Sirius era nervoso, lo vedevo bene da come si mordeva un labbro, era
nelle mie mani e lo sapeva, ero stanco delle sue bugie, ero stanco di
lui, ero stanco di essere trattato da stupido, così feci di
nuovo il gesto di andare verso la porta, e alla fine lui si arrese.
“Senti… prima ti ho
chiesto di promettere… ora... ora mi costringi a chiederti
di giurare... è molto importante, Regulus... non devi dire
niente a nessuno, di tutto questo! Non so perché, ti giuro
che non lo so, ma papà mi ha ordinato di non dire niente a
nessuno…”
Mi sbiancai, appena Sirius accennò a nostro padre: di solito
non credevo a una parola di Sirius, soprattutto quando faceva il
misterioso come in quel momento, ma nemmeno un pazzo come lui metteva
mai in mezzo nostro padre nelle sue follie, perché entrambi
sapevamo molto bene quanto potesse diventare brutta la situazione se
papà si arrabbiava. E senza sapere di cosa si trattasse,
sentivo che quello era uno di quei casi in cui nostro padre poteva
arrabbiarsi davvero tanto. Mi ritrovai ad annuire in automatico.
“Stamani, quando non c'eri,
abbiamo ricevuto ospiti… è venuto
Fear… voleva chiedermi che cosa è accaduto mentre
ero al capezzale di Alshain...”
“Ti ha detto come sta? E
Meissa e Rigel?
“Mei non si ricorda niente,
ancora; Rigel è sveglio ma ha la febbre, Alshain non sta
molto meglio del primo giorno... Il vecchio mi ha fatto alcune domande,
gli ho risposto, ma non so nulla più di prima...”
“Tutto qua? E cosa ci sarebbe
di misterioso in questo...”
“Non ne ho idea, Regulus, so
solo che papà non voleva che sapeste della visita di
Fear… non chiedermi il perché, non lo so, magari
alla mamma non sta bene che quell'uomo venga qua, non lo so... Sai
com’è fatto nostro padre… sempre
misterioso…”
Annuii ancora, in questo Sirius non aveva tutti i torti, ma io al
contrario di lui, ero sicuro che, qualsiasi cosa facessero, i nostri
genitori avessero i loro sacrosanti motivi e tanto mi bastava per
ubbidire senza discutere.
“Nostro padre mi ha chiesto di
scendere e di portare quello che avevo indosso quel giorno...
all'inizio non sapevo che ci fosse Fear nella sala dell?Arazzo, ho
temuto ci fosse qualcuno del Ministero... sai cosa si dice degli
Sherton in questi giorni... io non sapevo cosa ci fosse in
quell'involto, così ho preferito nasconderlo... mi dispiace
averti coinvolto... davvero, Regulus...”
Lo guardai, era sincero e potevo capirlo; addirittura, vedere che aveva
fatto uno dei suoi soliti casini per una buona azione, salvare gli
Sherton dalle assurde accuse che gli stavano muovendo i maledetti
babbanofili del Ministero...
“D’accordo, forse...
sì, d'accordo, per stavolta voglio crederti… ma
perché, se eri tanto curioso, alla fine non hai ancora
guardato cosa c'è là dentro? Anche adesso...
perché non l'hai più aperto?”
“Perché... forse
perché... perché non credo siano affari
miei...”
Mio fratello abbassò gli occhi, per la prima volta lo vedevo
indeciso, dubbioso, mi chiesi quale fosse il timore che lo stava
frenando, poi compresi: forse aveva paura che quelle storie sugli
Sherton fossero vere, temeva di conoscere la verità, temeva
di non poter più dire a Meissa che tutto sarebbe andato al
proprio posto. Voleva proteggerla dalla verità, ecco cosa
stava facendo, voleva proteggerla persino da se stesso, era per questo
che pur passati tre giorni, pur morendo di curiosità, non
aveva aperto e non avrebbe mai aperto quel dannato involto.
“Lo terrò nel mio
armadio, hai ragione, è più al sicuro... lo
potrai riprendere quando vorrai... Ora aiutami a raccogliere i
pupazzetti e a rimettere tutto a posto... così poi scriviamo
quella lettera e scartiamo il tuo regalo...”
“Regulus...”
Mi voltai, mentre già ero sull’arco della porta,
pronto a rimettere tutto com’era prima.
“...
Grazie…”
Lo guardai, gli sorrisi. Sì, eravamo diversi... ma eravamo
fratelli Eravamo dita della stessa mano.
*continua*
NdA:
Ciao a tutti. Come tutte le altre località citate finora su
That Love, esiste Clava Cairns, un sito neolitico a pochi km da
Inverness, e chi ha avuto modo di visitare Londra sa che il
“The Shakespeare's Head” è un
famosissimo pub di Soho fondato nel XVIII secolo. Tra Meissa e Rigel
inizia a maturare un nuovo tipo di interazione, così come si
accentua l’incrinatura tra Deidra e Alshain. Quanto a
Regulus, come con il resto dei Black, a parte Walburga, forse mi sto
"allontanando" un po' dal canon, ma resto del parere che i fratelli
Black fossero due testoni orgogliosi, con seri problemi di
comunicazione, non psicopatici che si odiavano già nella
culla. So che il Cappello manda nella Casa dove ogni ragazzino vorrebbe
andare, quindi teoricamente le paure di Regulus sul suo futuro sono
assurde, ma è un ragazzino ancora nella fase “non
è possibile che mio fratello abbia davvero desiderato finire
nei guai in cui si trova, il Cappello è impazzito e se
è impazzito con lui, potrebbe impazzire anche con
me...”.
Detto questo, un saluto e un ringraziamento a quanti hanno letto,
preferito, recensito, seguito, ecc ecc
Alla prossima!
Valeria
Scheda
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