07/03/1823
– Interludio
Londra, Casa
Hinchinghooke.
Il suono delle posate
d’argento è lo straziante requiem dei
cuori soli. Poche parole, solo quelle più necessarie,
l’imbarazzo dell’infanzia
perduta e delle memorie comuni: non v’è alone di
consolazione, solo triste e
immutata condivisione del dolore.
La
composizione di
frutta, nel vassoio al centro, pare attendere l’artista che
ne dipingerà i
tratti, con cauta lentezza e studio d’ombre. Giorno dopo
giorno, aspettando
l’ora del primo mattino, resterà lì a
impolverarsi e a rinsecchirsi, finché di
essa non rimarrà che un’immagine senza sapore.
I
piatti sono pieni
di ricordi, vuoti di cibo. I ghirigori attorno ai bordi, sapientemente
dipinti
da mani esperte, giacciono nella loro tenue tonalità
salmone, e si tengono
forza, filamento per filamento, lì a sospendersi in un
cerchio nel bianco della
porcellana.
Una
domestica
interrompe la quiete, portando un cesto di pane appena sfornato, caldo,
poi
tiepido, poi abbandonato a raffreddarsi intonso. È entrata
da una porticina in
legno, secondaria, con un intaglio in vetro nella parte alta che
tuttora è appannato
dai fumi della cucina. Quando rientra, l’uscio si richiude
facendo vibrare
l’argenteria accuratamente lucidata negli armadi a vista, con
uno scampanellio
che si riversa fra i vetri delle ante e dei ripiani.
«Quali sono i vostri
programmi per la giornata?» Chiede
Evangeline. Ha un segno sotto l’occhio sinistro, come una
piega lasciata dal
segno di un cuscino – un sogno interrotto, e le palpebre
appena schiuse di chi
è desto ma assonnato. Offre un sorriso prudente ai tre
uomini che siedono alla
tavola rettangolare.
Il
più giovane, che
le siede di fronte, prende un tovagliolo e se lo tampona sulle labbra.
«Io e
Delbert saremo fuori fino a stasera» dice, indifferente,
quindi si passa le
dita fra i capelli biondo cenere raccolti in un codino.
L’altro,
seduto alla
sua destra, annuisce con fare intento. Si dondola sui piedi della
sedia,
portando lo schienale in un’angolazione impossibile. Le
labbra rosee come
quelle di una fanciulla hanno una piega orgogliosa, carica di una
dignità
affetta dal risentimento. A ritmo del suo dondolio, le tende rosa pesco
piegano
in numerosi sbuffi da una delle vetrate, confondendosi al raso bianco
dei veli
più sottili e irrompendo nella sala da pranzo. Una
finestrella è stata lasciata
aperta per rinfrescare l’ambiente.
«Eva, che ne direste di
prendere una boccata d’aria? La
colazione è terminata, non c’è bisogno
che ci tratteniamo più del dovuto. Sono
certo che anche i miei fratelli abbiano le loro incombenze da
svolgere» propone
Byron e le prende una mano da sotto il tavolo, sgusciando fra i
riccioli
merlettati della tovaglia chiara, raggiungendola in uno spasimo
d’amore.
Lei
arrossisce,
accorgendosi della sua impudenza, e con un cenno del capo che
s’avvicina a un
inchino si accommiata dai due: «Vi auguro di trascorrere una
bella giornata.» Il
suo sguardo si sofferma un istante in più su Delbert, che
però non risponde,
scuote soltanto la testa, lasciando che i ricci castani gli coprano
parte del
volto.
Mentre
si
allontanano, il parquet ricoperto dal tabriz persiano attutisce il
ticchettio
delle suole, il cui ritmo si uniforma a un solitario pendolo
nell’angolo. Tic-tac, tic-tac, è anche il rumore dei
telai che tessono fitti orditi nelle
terre d’oriente.
Byron
la trascina in
giardino, attraverso una vetrata scorrevole che vi s’immette
direttamente dalla
stanza. Una ventata fresca li investe al primo impatto e la giovane
rabbrividisce.
«Volete che rientri per
prendervi una cappa?»
«No, Byron, non ce
n’è bisogno. Sto bene così.»
Il
prato fruscia
sotto i loro passi sommessi, l’erba che si piega in dolci
onde e che si rialza,
carezzando le caviglie con un bisbiglio inudibile. Nel vialetto di
pietre, fra
un masso levigato e l’altro, sono cresciuti sparuti mucchi
erbacei, da cui
spuntano boccioli di timide primule. Il
fiore giustifica i mazzi.
Il
sentiero conduce,
con una lieve salita, a un ponte in legno, con dei sostentamenti di
ferro
leggermente arrugginito ai bordi. Sotto la passerella gorgoglia un
rivolo d’acqua
pura, che si colora dei riflessi verdini della natura appena
inselvatichita che
lo circonda.
«Vi è sempre
piaciuto, questo posto. Nelle primavere,
bevevate l’acqua a lunghe sorsate, senza preoccuparvi delle
macchie d’erba che
vi sporcavano il vestito. Vi inginocchiavate lì, fra le
libellule, pronta a
spiccare il volo.» Indica una conca sabbiosa che immette
gradatamente al rio,
ampio in quel tratto non più di un paio di braccia. Per
tutto il tempo non le
ha mai lasciato la mano, e ora che sono saliti sul ponticello, il legno
geme
contrito ad ogni spostamento di peso.
«E tu mi trascinavi
lontano, perché temevi che sarei potuta
scivolare in acqua, nonostante il torrente sia poco profondo. Mi
portavi sul
ponte…»
«Vi bloccavo il corpo
contro la balaustra che in estate
gettava foglie di rampicanti a sfiorare le rive sotto di
loro.»
«Come stai facendo
ora.»
«E
vi…» Una mano lo blocca, fermandosi sulle labbra
di lui.
Un paio d’occhi azzurri, intimoriti, bagnati di lacrime
sospese sull’orlo
dell’abbandono, si fissano in quelli dell’uomo.
È una preghiera muta che induce
al silenzio.
È il sussurro:
«Smettila di darmi del voi. Ti prego, Byron,
non posso sopportare più questo tuo lasciarmi indietro,
lontana da te.»
Lui ride, poco più che un
andirivieni, un tintinnio di felicità
cosparso nell’aria. La condensa che spira dalla sua bocca,
ora aperta,
strascica fumi che velano vascelli d’intimità,
vascelli di carta, con le ali
ripiegate lungo le fiancate.
«E ti dicevo che eravamo solo un
sussurro. Un sussurro nel vento, e
che presto saremmo volati via con esso, danzando su quei piani
impalpabili di
una passione che ci allenta e poi restringe i nostri corpi in un tango
che è
veleno d’amore, scorre nelle mie mani intrecciate alla tua
schiena e…»
E s’infiorano ali
d’argento che trasudano disperazioni imperlate dal
vuoto che li separa. Un respiro, due, è un sospiro che si
trasforma in ordine e
muta in piacere.
«E voleremo più
giù, più su, più in fondo. Ove non si
fa ritorno.»
***
«Byron!
Rose, rose rosse! Rose
fiorite, rosse come il filo che m’hai legato al
polso.»
Evangeline alza
il volto,
pallido, quasi mascherato di porcellana, la crocchia di filamenti
screziati di
cannella, cioccolato al latte, fuso nell’assecondare il denso
mormorare
dell’animo.
Byron accorre,
nel vialetto
incorniciato da verdi cespugli, peonie rosate sono sporte come
pettegole
indiscrete, premature, ingenue. I suoi passi sono pacati, cheti,
imprimono
vestigia sulla terra smossa, come petali di rose corrose.
Nel cielo, i
banchi di nuvole
londinesi sono canarini da trattenere tra le stecche di ferro di una
voliera,
si ha paura che possano increspare le ali verso lacrime che
ingrigirebbero il
soleggiato meriggio ch’ora si godono.
Le betulle si
librano accanto,
affrancate da braccia più alte, confuse, ramate e schiarite
di un verde che
s’accende e s’arriccia.
Lei è
in fondo, china tra
petali come pizzi arrossati dal sangue, la veste di raso magenta la
costringe
in una statua dal profilo incerto, quasi si contenga a stento nella
gabbia
posta. Ora s’alza, lieve, le ciocche che le ricoprono il
volto, le scosta con
un gesto delle dita. Mentre Byron le gira dietro, lento, il cuore che
gli batte
in petto, un palpitare simile alle onde frante, le cinge la vita. Lei
s’infiamma
in volto, le guance cosparse di quella tinta apparsa in sprazzi a
intrecciare
un piacere scabro. Sente il corpo dell’amato, quel petto
premerle contro la
schiena, freme. Fremono tutt’e due. Vibrano al cospetto della
loro felicità.
Questa è l’ouverture di una sinfonia dal timbro
talmente basso da strisciare in
terra.
Byron abbassa il
capo posando
il volto nell’incavo tra il collo e la spalla sinistra della
sua dama. Le prime
note che s’accendono del profumo di fiori gelati.
«Rosse
come il demonio. Come i
suoi capelli che fuggirono in una scia devastante. Attenta a
strattonarlo; mi
portò via, per certi versi, staccando a forza
l’essenza di un amore straziato.»
***
Il distacco dei
loro respiri,
le mani sciolte dal casto nodo che dapprima s’era creato, il
sentiero di
riccioli d’erba che affiorano dal terreno, li accompagna
distendendo la terra
in piccole dune. I loro piedi che tratteggiano il sentiero verso casa.
«Lei
viveva in me e io in lei.
Un essere decomposto, disfatto, l’embrione che si serviva di
me, la scintilla
dell’incendio. D’un tratto la vidi, la vampa che
allungava le sue lingue,
colate mai fredde, lungo l’apoteosi del nostro amore. Oh,
Eva, l’amore è
servitù, nevvero?»
Lei deglutisce,
socchiude gli
occhi, le labbra dischiuse, appagata e affranta dalle parole di Byron.
«Erano
quindici, gli anni che
aveva, seguivo la sua ombra per casa. Timida e fragile, furba,
artefatta. Mi
mise un dito sulle labbra, il monito di un silenzio oscuro. Aveva
progettato
tutto. Mi aveva messo fili immaginari in una schiena e li aveva
trascinati. Mi
sono sempre chiesto cosa sia ciò che l’abbia
spinta a fare tutto… questo.
Perché i cocci della sua infanzia distrutta invasero anche
la mia.»
«L’imbroglio,
giusto. È come
dipingere un quadro difficile, la punta che si spezza, il pennello che
sbava. È
arte l’inganno di mascherare il tutto.» Evangeline
alza le ciglia schiarite, di
fulgido grano, e pare quasi voler sfiorare il cielo, con gli occhi, le
dita,
che rotea in su per cogliere quel raggio di sole che
s’insinua come un silenzio
sepolto e riemerso.
«Katherine
aveva bisogno di
me, me lo aveva scritto. Impossibile negare che m’aveva
avvisato. Le sottili
lettere sulle mura della soffitta, tracciate col dito sporco
d’inchiostro,
tondeggiavano. Non stavano mai ferme. Quel reclamare a me, un grido
strozzato
che parte dall’oltretomba e non giunge in vita. Ho bisogno di
te, sei tutto,
sei l’ordito in cui inseguo i miei sogni, mi diceva. Era il
cartello di
polvere, una cancellata impercettibile che sotto la mia presa, prima o
poi, si
sarebbe spezzata.»
«Ma
dimmi, cosa è successo
veramente?» Lui le rivolge uno sguardo intenso, gli occhi di
lei colmi delle
increspature del ghiaccio, di un amore di vetro incrinato. Un
acchiappasogni
dalle tinte riprese a guardare specchi di mare riversi, un fondale che
proietta
i propri sogni in lustrini dorati che s’interpongono
all’acquamarina infinita.
«Disse
che mio padre… tradiva
mia madre. L’aveva visto con un’altra donna,
l’intreccio d’altre vesti, il
profumo d’altre carni. Era qualcosa di doloroso, mi fidavo di
Katherine. Era
come camminare su un filo sospeso sopra l’oblio del terrore,
avrei voluto
chiudere gli occhi, ma l’attrazione verso ciò che
reclamava il mio essere
dabbasso, era troppo forte. Sai, il filo si fa sempre più
sdrucito mano a mano,
lungo il cammino, fino a quando non c’è
più nulla. È una sciocchezza superare
il vuoto, camminarvi sopra, viverci, alla fine la caduta è
inevitabile.» Ride.
E si sente cadere, le ciocche dorate che gli ricoprono la fronte tersa
da
goccioline di sudore, che nascono dall’interno, paiono
avvizzire, spegnere le
loro tinte accese.
«A quei
tempi, mio padre era
il riflesso distorto di mia madre. Era lui che aveva assecondato
l’accoglienza
di Katherine nella nostra famiglia. Mi sentivo trafitto, trafitto in
controluce. Lei, lui; lei che mi diceva: chi ha i capelli
rossi porta solo
male in famiglia, lui che osservava le note scorrere dalle
labbra aperte di
Katherine, sciogliere tutti i nodi intricati nel cuore e farsi beffe di
noi.»
«Cantava,
Katy, allora, era
lei la tua vera musa.» Lei cerca le sue dita lunghe, le
trova, le stringe,
assapora il gelo raccolto in quella pelle, si propaga in una malinconia
immensa.
«Lo fu
per tanto tempo. Lo fu
di tutti, tuttavia mia madre non restava ammaliata e non ne ho mai
capito il
perché. Mio padre pagava le lezioni di canto, potevamo
permettercele, sì, ma
era sempre un costo che gravava su un componente della famiglia
indesiderato
da…»
Madre.
Tutto questo vuoi
dire. Quanti sono i petali di margherita rimasti? Li hai donati tutti
ad altre
donne, per me, cosa offri per me?
«Byron,
cosa fece
Katherine?»
«Mi ha
ingannato, mentre
l’alcol corrodeva mio padre che tornava a casa a sera
attardata, mentre mia
madre guardava afflitta disfarsi tutto. Piansi anche io.
L’ultimo limbo a cui
si stringevano le mie mani diventava un brandello caduto nel vuoto. Ero
convinto che amava un’altra, Katherine aveva detto
così, sapendo quanto tenevo
alla felicità di mio padre. Qual era la verità?
Evangeline, la vuoi davvero?»
L’istante,
il secondo, l’ora,
perfetta in cui il cuore disperde il suo acido. Lei annuisce mentre
Byron
sbarra gli occhi, intrattenendo tutto il timore a galla.
«Katherine
voleva andarsene
dalla famiglia. Katherine non voleva me, voleva solo i soldi,
un’eredità che
spillava dalle attenzioni di mio padre, a poco a poco, goccia a goccia
fino a
riempire un vaso. E ora lo vedi, il vaso, trabocca, in frantumi di
ceramica.
Mentre la verità era solo un uomo deluso dalla morte del
fratello caro. Ma
nell’inganno che Katherine mi aveva tessuto addosso, dovevo
difendere mio padre
e porre fine ai suoi pianti. E lo vuoi il finale, Evangeline, lo vuoi
davvero?»
Un sospiro. Non
v’è bisogno
che legga il suo volto per scoprire la risposta.
«Ho
ucciso mio padre.»
Si sente una
macchia
d’inchiostro. Isolata. Stacca la mano da Evangeline, la
guarda negli occhi
disperso, ferito, il viso sfregiato in una smorfia di sconforto che per
poco
non si trasforma in pianto. Ma lui è forte, non
può piangere, anche se il
rimorso lo è di più. E poi le macchie
d’inchiostro sono già un immensa lacrima
partorita da uno scrittore distratto.
***
Nessuno li ha visti, nessuno ha
parlato di loro, non una
figura umana che s’interessi di cosa si stia consumando in
quella stanza, ove
ogni sera vi si sprangano, con il clangore di una serratura che mette a
tacere
ogni voce. Può un lutto serrare le bocche di qualsiasi
individuo? L’arte del
silenzio è il frusciare delle ombre. Le tende che
s’aprono e si riversano da
una finestra discosta: un fruscio.
«Lo soffri, eppure continui
ad amare il freddo. Chiudi gli
scuri, Evangeline.»
Una
veste cala a
terra, dopo che i lacci che racchiudevano il tutto –
è lo schiudersi di un
fiore, il dilagare di ogni emozione – sono stati sciolti da
una mano rapita dal
fremito dell’incoscienza. Le gonne turchesi prendono le forme
di una distesa
marina, una polla sull’aldilà che frantuma la
monotonia del gelido marmo. Da
esso, spunta una sirena dai capelli dipinti di sorbo. Dietro un
paravento di
fine carta vermiglia, una voce risponde: «Non
ancora.»
Non
ancora. Aspetta
lì, Byron, sdraiato sul letto, lo sguardo triste e pensoso,
la camicia
sbottonata tanto che basta a far affiorare la pelle del cuore. Questo
batte,
bussa alle porte del desiderio, mentre lo sguardo rifugge dalle zone
buie di un
corpo nudo, un mimo perfetto, nascosto. Il sussurro della seta che lo
riveste
trascina con sé un muto grido, la dolcezza del suo suono
è paura, sconcerto,
indulgente disperazione. Le mani di lei annodano un fiocco dietro la
schiena
per stringere la vita in un abbraccio sottile.
Evangeline
esce, i
piedi nudi che calpestano il pavimento come se stessero galleggiando
fra petali
di rose, tra le braccia l’impacco maldestro del vestito da
giorno, il mare che
l’ha partorita. La vestaglia si ferma più su del
ginocchio, ed è tenuta in cima
da due fettucce rosse così come il tessuto. Si è
sbrogliata i capelli, le
ricadono sulla schiena in un rivolo di ciocche dalle sfumature ramate.
«Chiudi gli scuri,
Evangeline. Prenderai freddo» insiste.
Fa
finta di non
sentirlo, getta l’abito su una poltrona azzurra e si avvicina
al letto.
L’alcova ha un soffitto intelaiato a fiori color orchidea e
lampone, le cui
foglie vanno a creare un manto intricato d’arabesque.
Sui colonnati si sparpagliano motivi d’edera e malve
intrecciate.
Lei gli poggia un dito sulle labbra
quando questi fa per
protestare, accostandosi al suo volto. «Voglio farti vedere
una cosa.»
S’inginocchia
e
rimesta con un braccio sotto al baldacchino, alla ricerca di qualcosa.
Quando
ne riesce, ha in mano la sua valigia da disegno. Le borchie che ne
costringono
gli angoli sono ammaccate e scurite, il cuoio nero graffiato, caduchi
protagonisti di viaggi e mostre, arti e lavori. La apre, e i ganci che
ne
legavano il contenuto scattano via all’unisono.
Una
manciata di fogli
si riversa a terra. Tutti i colori con cui dipingeva le anime del
mondo, i
barattoli in cui intingeva ogni emozione, i pennelli unghiati e sempre
pronti a
graffiare la tela, sono tutti spariti. Solo pagine, carte, pergamene
– ogni
tonalità capace d’accogliere tratti di grafite
– è ciò che si scaglia sul
pavimento come il getto di una fontana: un
fruscio. Si nascondono per l’impiantito, piastrelle
scalfite di volti e
reami lontani, specchi che danno su una realtà distorta
dall’effluvio di un
incantesimo.
«Ma…»
sfugge dalle labbra di Byron, più un suono
impercettibile che un reclamo vero. Non lascia le coperte, ma ne
infiora di
pieghe infervorate la superficie liscia, le sue dita strette ad
afferrare il
tessuto.
«È tutto a
posto» dice la donna. Si china a raccogliere il
primo che ha toccato il suolo, lo tiene vicino al petto per non farne
vedere il
contenuto all’amato, è una bambina che protegge la
sua bambola preferita
stringendola al seno. Si siede appena sotto il bacino di lui, lasciando
che le
sue mani l’abbraccino, quindi rivolta il disegno
perché lui possa osservarlo.
I
colori sono sprazzi
intonsi di luce su una scena dominata dal nero. Per una volta
Evangeline non si
è dedicata alle tenui tinte degli acquarelli, ma ha usato
pastelli oliati per
generare il fascino di un distacco infelice. Una, due, cinque spighe di
lavande
dai riflessi vitrei sono poggiate su un pianoforte verticale, e i tasti
s’incavano sotto la loro premurosa pressione. La melodia
delle terre di
Provenza si sparge sugli spartiti appena sbozzati.
«Bianco, nero, bianco,
bianco…» sussurra lei.
Il
dipinto è ripreso
di profilo, e si vede la figura in ombra di un uomo, seduto su uno
sgabello di
fronte allo strumento. Le braccia sono abbandonate sui fianchi, in un
atto di
mesta rinuncia, e gli occhi socchiusi paiono fremere allo sfiorare di
ricordi
distanti nel tempo. Un piede è poggiato sul pedale, quasi a
voler spingere quel
suono a non smorzarsi, a durare finché anche il destino non
ne avrà tracciato
una fine sicura.
È
tutto buio, è la
coltre della morte che si distende e si rivela sullo sfondo sfumato:
una tenda
bianca, così sottile che si intravede da essa
l’infinità di un cielo stellato,
e così pieghettata su se stessa, sgualcita, che le sue
crespe formano un altro
volto, femmineo, contrapposto a quello del giovane.
Il
viso etereo si
protende verso di lui, le labbra schiuse in un bacio consolatorio. E si
sa,
ora, che la macchia biancastra che rischiara parte della guancia del
ragazzo è
in verità una mano di fumo, una carezza proveniente dalle
distese di un
territorio sconosciuto. Vaucluse, non sei
mai stata rifugio più bello.
«Non l’avevo
finito. Non volevo mostrartelo prima, ma ora…
ora era il momento giusto.»
«Sono io»
constata Byron. Oramai il foglio giace fra le sue
dita, gliel’ha strappato per perdersi fra i ricami della sua
vita, coinvolta in
una bozza piccola, inferma, delicata come la sua esistenza ora riposa
appesa a
un filo. E la lascia, inutile pergamena – che scivolasse pure
in terra fra le
sue compagne di carta. Si dimentica, nella notte, ciò che
affolla le vie del
tormento.
Prende
Evangeline fra
le braccia e la porta a stendersi su di sé. I primi baci si
consumano nella
disastrosa quiete di un segreto sussurrato troppo forte, nella bramosia
di
cadere vittime dell’ardore. Il gelo che proviene dalla
finestra aperta è
divenuto brezza piacevole, aria fresca da concedersi in respiri
affannosi.
Byron
fa scivolare le
labbra sul collo della donna, percorrendone la pelle con la leggiadria
di un
accordo, e brividi di piacere scuotono il corpo di lei. La spallina le
ricade
sul braccio, mentre la bocca dell’uomo si muove lungo la
spalla e scende,
cauta, a liberarla da ogni pudore. Il giovane accoglie il suo seno
turgido,
pervaso da un profumo più caldo e tenero, che si scontra con
la sua lingua
ansiosa.
Più
in basso, le mani
di lui raccolgono la vestaglia in spire che sono il cristallizzarsi del
volo di
una farfalla, onde marine permeate da un sapore vermiglio, e in una
carezza che
sfiora i fianchi di lei porta il tessuto a cedere dalla carne.
Dita
d’artista
slacciano gli ultimi bottoni della stropicciata camicia di Byron,
sfilano i
calzoni di velluto marrone; a far compagnia ai sogni di lei dispersi al
suolo,
si aggiungono le vesti portate via con insofferenza. Un
fruscio, e non è più silenzio.
«Ti prego, scappiamo
incontro alle lavande in sboccio» lo
implora lei.
E
si chiude così,
come se nulla fosse mai accaduto, un velo che si stende sulla fulgida
superficie del mare… un bacio di luna per gli immigrati del
cielo.
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