Amelia amava i treni.
Li amava di un amore ignorante, viscerale, ingiustificato: quell'amore
che ti rende cieco e felice, sordo e sereno, muto e contento.
Amava affacciarsi alla finestra e vederli passare, uno ogni dieci
minuti, a volte ogni mezzora, amava quando faceva buio e le luci dei
vagoni si accendevano, illuminando volti, evidenziando movimenti,
immortalando sospiri.
E lei lo sapeva chi c'era a bordo. C'era la professoressa coi temi da
correggere, c'era lo studente con un esame da preparare, c'erano donne
spendaccione con borse griffate sui sedili e negli angusti corridoi,
mentre tutti gli altri in cerca di un posto imprecavano loro contro
scavalcando con difficoltà bauletti, scarpe e accessori
chiusi
in scatole grandi e piccole; c'erano avvocati che usavano parole
misteriose, c'erano turisti a biascicare suoni gutturali tenendo le
cartine a rovescio, c'erano cuochi, commesse, impiegate, dottori e poi
c'erano i passeggeri silenziosi, dai volti imperscrutabili, quelli su
cui potevi inventarti una storia, renderli principi o cavalieri, fate o
cortigiane, salvo poi vederli alzarsi in maniera scomposta e
disordinata, grugnendo richieste di permesso frettolose e scortesi.
Amelia tutte le volte si immaginava scenari simili, fissando le
figurine nere stagliate contro sfondi gialli accesi. Di quell'unica
gita a Firenze, ricordava il chiacchiericcio caotico della gente, il
fracasso destabilizzante delle gallerie, le orecchie che si
riabituavano a qualcosa di vagamente simile al silenzio quando il treno
faceva di nuovo capolino tra campi di girasoli opposti a fabbriche
fatiscenti: Firenze l'aveva scordata, sepolta tra biglietti e
obliteratrici, controllori e capotreni, ma soprattutto sepolta da un
peluche nuovo di zecca appoggiato qualche sedile avanti a lei, e dalla
piccola mano - poco più grande della sua - che lo custodiva
gelosamente.
Tutte le volte che si affacciava alla finestra, immaginava che le
sagome meno umane
fossero Snoopy giganteschi, abbracciati da una bambina fortunata ed
orgogliosa.
Tutte le volte che si affacciava alla finestra, la mamma le chiedeva
cosa stesse facendo, e lei rispondeva niente.
La mamma si era arrabbiata quando Amelia aveva dimostrato di non
ricordarsi niente di quella gita fuori porta: non ricordava il Duomo,
nè Piazza della Signoria, nè il Ponte Vecchio. Ma
non era
quel ponte a essere vecchio, era la mamma: era troppo vecchia per
capire la bellezza di un treno, per capire le storie dei suoi
passeggeri, per innamorarsi di uno Snoopy di stoffa, per invidiare
quella mano che lo stringeva a sè.
Poi, il treno spariva dentro la galleria ed Amelia tornava sul divano,
a disegnare professori, studenti, cuochi, dottori. Non li colorava mai,
non le riusciva. E poi, tutto ormai era drappeggiato nella sua mente
nei toni del giallo e del nero, e non poteva certo trasformare quelle
persone in api.
Quella era una scusa bella e buona, lei odiava
colorare. Forse era anche per questo che adorava le strisce dei
Peanuts: erano incolori, semplici, lineari; forse era per questo che
amava alla follia Snoopy, che restava semplicemente bianco e nero anche
nella trasposizione animata.
Amava pensare che pochi tratti potessero lasciare a chi osservava i
disegni piena libertà d'interpretazione: quando era
costretta
a colorare qualcosa per quelle stupide
maestre, le matite che impiegava variavano a seconda del suo umore,
tanto che quando era triste o arrabbiata trasformava tutti in becchini o Mangiamorte.
Per Amelia, la Pigrizia era un forte incentivo alla
Fantasia - ed in questo era Sally Brown.
Nonostante chiamasse fratellone
quello strano soggetto sangue del suo sangue, nonostante si fosse presa
una cotta di un giorno per un bambino dalla maglia a righe rosse e
nere, si rese conto di non assomigliare per niente a Sally quando
capì quanto le piacesse scrivere: a lei i temi piacevano,
per
quanto odiasse doverli comporre per
forza. Le
piaceva anche la scuola, anche se ogni tanto si ritrovava ad urlarle
contro, inascoltata: in realtà lì urlava
più o
meno contro tutti, tiranneggiando i bambini delle classi inferiori e
prendendosi i ruoli migliori in tutti i giochi inscenati
durante la ricreazione. Lasciava il ruolo di capo a qualcun
altro solo quando si giocava a
Sailor Moon. Non
sopportava quella piagnucolona di Usagi: si lamentava troppo per i suoi
gusti, e quell'amore con Mamoru era così stucchevole...
Lei voleva Sailor
Jupiter e, regolarmente, la interpretava. Stranamente, era lei a
risolvere molti duelli, stravolgendo la trama di cinque stagioni
televisive: preferiva le saette al potere dell'amore e blablabla, e
provava un certo sadico piacere nel fulminare ogni volta la nemica di
turno che, guarda caso, era Sara Banchi, Miss Boccoli d'Oro, a cui i
Banchi glieli avrebbe volentieri tirati in testa, dopo che le aveva
soffiato di sotto il naso l'onore di tenersi per mano con Andrea per
dieci secondi, tutte le ricreazioni.
Il giorno in cui li aveva visti per la
prima volta insieme, aveva
trascorso tutto il pomeriggio a casa di Frédéric,
sedendosi al suo fianco sul panchetto ed imprecando contro il suo
stupido pianoforte, che di tanto in tanto martoriava suonando una nota
qua e là, con la determinazione di un rullo compressore.
Il suo migliore amico sbuffava, nel
veder violentati i pianissimo
suggeriti dal suo spartito.
La madre di lui scuoteva la testa
sconsolata, mentre dal piano superiore udiva un tale scempio nei
confronti del suo Chopin,
che guarda caso aveva dato il nome all'estroso figlio.
Invece
Amelia parlava. E inveiva, e urlava, e stringeva i pugni, soffocando
quella rabbia che neanche un soave valzer poteva rilassare.
Poi, di punto in bianco, tacque.
Frédéric
continuò a suonare per altri cinque minuti,
perché sapeva
che in quei trecento secondi guardare Amelia era off limits, come era
off limits fissarla mentre mangiava o beveva, o darle torto in
qualsiasi situazione.
Terminato
il suo valzer - e sicuro che quelle lacrime di cui Amelia si vergognava
così tanto fossero ben nascoste e dimenticate -, la prese
per
mano. « I treni ci aspettano, Amelia. »
Frédéric era
l'unico a sapere di quella passione, forse lo sarebbe sempre stato.
Uscirono
e si sedettero sul marciapiede della via tranquilla in cui abitavano,
controllando rapidamente gli orologi ai loro polsi fini. «
Le cinque e venticinque. »
« Più o meno tra
dieci minuti. »
Aspettarono in religioso silenzio,
finché le prime finestrelle gialle fecero capolino nel buio
di inizio gennaio.
Amelia amava i treni anche
perché poteva condividerli con il suo migliore amico.
Frédéric amava i
treni perché poteva condividerli con lei, ma non
gliel'aveva mai detto.
Del resto, a Schroeder Lucy Van Pelt non
era mai piaciuta.