POLVERE
C’è un luogo, si narra, dove si radunano gli
oggetti che erano di qualcuno. Non si sa bene come sia fatto o dove si
trovi, o come ci si arrivi. Tutto quello che si sa è che, ad
un certo punto e senza capire il perché, un oggetto si
ritrova improvvisamente lì; e che, ovviamente, è
un luogo pieno di polvere.
La Scatola polverosa, così la chiamano gli oggetti, in
ricordo di quelle dove erano usi stare prima: un luogo dove si va e da
cui non si torna, sfumato tra mistero e paura. E tanta, tanta polvere.
Non ce n’è una sola: ogni essere umano ha la sua,
la tomba dei suoi oggetti perduti, con la sua particolare forma e il
suo particolare significato. Ci sono delle scatole vere e proprie,
certo; ma ci sono anche vecchi carillon portagioie, bauli sbrindellati
chiusi a chiave, qualche armadio, zaini da viaggio sdruciti.
Ed è proprio di uno di questi che andremo a
parlare…
…di quello zaino dove un Taccuino di un artista stava
valutando se separare due Matite colorate particolarmente linguacciute.
“…vantati quanto ti pare, Marrone, tanto lo
sappiamo tutti che il padrone preferiva me.”
“Sei tu quella che dovrebbe stare zitta, visto che
è risaputo che il Blu elettrico si utilizza molto meno del
Marrone.”
“Ah sì? Si vede che l’intelligenza
dipende dal colore… la tua, infatti, è
decisamente spenta. Nota bene, mia smorta amica, guarda la nostra
differenza di statura: io sono molto più bassa e utilizzata
di te.”
Marrone sogghignò alla maniera delle Matite.
“Ma questo è perché il padrone era
costretto ad appuntarti di continuo, tanto la tua qualità
è bassa.”
“Non è vero! Siamo della stessa marca!”
“Sì, e tu allora sei
difettata…”
Il Taccuino, in quel momento, decise che ne aveva abbastanza. Con fare
imperioso si pose in mezzo alle due Matite e le guardò
dall’alto in basso.
“Ragazze, adesso state facendo troppo rumore. Smettetela di
litigare per stupidaggini, tanto nessuno vi risponderà:
preferita o non preferita, il padrone vi ha perso e non può
più utilizzarvi.” Assunse un’aria
bonaria. “Sono sicuro che gli mancate tutte e due.”
Le due Matite, improvvisamente molto imbarazzate, si scambiarono
un’occhiata vergognosa e tacquero, mentre un soddisfatto
Taccuino, riportata la tranquillità, ritornava al suo posto
d’onore, una tasca interna molto spaziosa da cui poteva
osservare l’interno dello zaino.
Non che ci fosse molto da osservare, in realtà: era uno
zaino grande e un po’ scucito, grigio di polvere, dove
convivevano gli oggetti più disparati riuniti là
dalla negligenza del padrone. Ah, povero padrone distratto, pensava
spesso il Taccuino, povero padrone che ora era senza i suoi oggetti.
Chissà come se la stava cavando senza di lui, il suo fedele
Taccuino dell’artista, che conteneva gli appunti di tutte le
sue ispirazioni…
Fece scorrere lo sguardo sugli altri, meditabondo. Eccola
lì, la Coperta, grande e vissuta, che cercava di convincere
una Balena di pezza dall’aria triste ad uscire
dall’angolo buio e a farsi riscaldare e coccolare; in un
angolo stavano le Matite colorate, sempre a cicalare e a ridacchiare
tra di loro; più in disparte dagli altri c’erano
la Collana, dal vistoso medaglione, la Sciarpa di stoffa indiana e la
malandata Lampada da tavolo, immerse in una tranquilla conversazione.
Ah, le sue care ragazze, pensò il Taccuino sorridendo.
Chissà come aveva fatto il padrone a perderle, quelle povere
care. Mica come quei musoni nell’angolo buio, quei giocattoli
sempre depressi che passavano il tempo a sospirare! Quelli li avrebbe
persi volentieri anche il Taccuino, senza alcun dubbio. Non parevano
affatto importanti, e a detta di tutti erano stati persi
perché ben poco utili; certo non erano degni di far parte
dell’élite che si radunava intorno a lui, il
Taccuino, il più importante di tutti. Ah, lui sì
che conosceva il padrone! Aveva i suoi scritti sulle sue pagine, sapeva
cos’era l’Arte: era dovuto che tutti lo ammirassero
e lo seguissero, che si radunassero intorno a lui. Le sue donne,
pensava con affetto, le sue care donne che pendevano dalle sue labbra
quando rievocava il loro perduto padrone o narrava loro
dell’Arte contenuta nei suoi fogli, loro sì che
gli davano soddisfazioni; gli rendevano addirittura piacevole
l’esistenza senza scopo nella Scatola polverosa.
E fu in quel momento, mentre il Taccuino dell’artista stava
sorridendo tra sé, immerso in questi dolci pensieri, che
avvenne qualcosa di molto importante.
Ci fu un fruscio come di stoffa spostata, distante; poi lo zaino si
aprì per pochi istanti, lasciando filtrare una lama di luce
danzante di pulviscolo che irruppe nel grigiore dell’interno.
Gli sguardi degli oggetti saettarono immediatamente verso
l’alto, in tempo soltanto per vedere lo zaino
richiudersi… e per scorgere una piccola figura cadere tra le
pieghe della stoffa, e continuare a scivolare, scivolare
giù...
Oh, pensò sorpreso il Taccuino, un nuovo arrivo tra gli
oggetti dello zaino era appena piombato tra di loro. Chissà
che cos’era. Magari era un Blocchetto dei disegni o un
Quaderno, un oggetto ricco in cultura con cui poteva intrattenere
lunghi discorsi sull’Arte… Magari, magari davvero.
Sarebbe certamente stata una buona compagnia.
Il chiacchiericcio crescente lo avvertì che il nuovo ospite
era finalmente atterrato: i vecchi giocattoli depressi si erano
allontanati dall’angolino dove era caduto ed erano stati
immediatamente rimpiazzati da una piccola folla di altri oggetti, che
lo circondavano e impedivano la visuale. Il Taccuino attese che si
scostassero e lo lasciassero vedere, come accadeva tutte le volte;
tuttavia, questa volta gli oggetti non accennavano a muoversi. Doveva
essere qualcosa di ben strano se le sue donne non si spostavano, e anzi
si scambiavano occhiate parlottando con evidente perplessità
e disagio. Ma che cosa stava succedendo?
Il Taccuino ebbe presto risposta: una delle Matite (il Giallo acceso,
notoriamente una delle più tempestive) saltellò
nervosamente verso di lui e gli sussurrò qualche parola. Il
Taccuino trasalì: impossibile, una cosa del genere non
poteva accadere. Bisognava verificare, sicuramente era un errore.
Scese dalla tasca interna e si avvicinò al gruppo raccolto
intorno all’angolo buio. Nel vederlo avvicinarsi, la Lampada
da tavolo scacciò le Matite visibilmente esagitate per
fargli spazio e permettergli di vedere, poi gli fece luce.
Ciò che vide il Taccuino fu la cosa più
sconvolgente che era capitata da che era caduto nella Scatola
Polverosa. Tra le pieghe in ombra dell’angolo dello zaino,
piccolo e tenuto fermo dal cordoncino di una sbigottita Collana, stava
un essere umano. Un essere umano in carne, ossa e vestiti larghi e
colorati. Da non crederci.
Il Taccuino dell’artista non parlò; gli oggetti,
intimoriti, tacquero anch’essi. Cadde il silenzio.
Poi, il Taccuino si mise a ridere.
Prima sottovoce, poi sempre più di gusto, mentre le Matite
si univano a lui con le loro risatine acute e venivano poi seguite da
tutte le altre, compresa la materna Coperta. L’essere umano,
circondato da risate di scherno, non reagì.
“Ma guardatelo, un essere umano!”
articolò il Taccuino con la voce spezzata dal riso, causando
una nuova ondata di ilarità, “come hai fatto a
farti perdere, tu?”
“Perso, è stato perso dal padrone!”
“Un essere umano… perso! Lasciato in giro! Questa
poi!”
“Doveva essere davvero molto importante…”
L’Uomo se ne stava zitto, con gli occhi bassi, visibilmente
spaesato. A mano a mano le risate diminuirono, mentre il Taccuino
cercava di riprendere un po’ di serietà: era il
più importante là dentro, ci voleva un
po’ di contegno, insomma!
Osservò meglio l’Uomo. Era trascurato, con
pantaloni colorati e una camicia dal disegno indiano spiegazzata, con
lunghi capelli spettinati e la barba incolta di qualche giorno. Ed era
piccolo rispetto agli oggetti. Che misera figurina, che esserino
ridicolo! Ci mancò poco che si rimettesse a ridere.
Le altre risate, intanto, si erano quasi spente; solo le Matite
continuavano a ridacchiare, ma tanto loro non stavano mai zitte. Il
Taccuino decise che quello era il momento giusto per saperne un
po’ di più.
“Essere umano,” iniziò il Taccuino con
voce importante, ponendo fine agli ultimi risolini, “Essere
umano. Che cosa ci fai qui?”
L’Uomo sussultò. Prese dei respiri veloci prima di
rispondere, guardandosi intorno con aria nervosa. “Dove
siamo, qui?”
Gli oggetti scoppiarono nuovamente a ridere.
“Come, dove siamo qui? Ma davvero non lo sai?” lo
apostrofò la Collana.
L’Uomo scosse la testa, inquieto.
“Siamo nella Scatola Polverosa, Essere umano, ”
continuò il Taccuino con aria di scherno, “E sai
che luogo è, la Scatola Polverosa?”
La piccola figura scosse di nuovo la testa.
“Ebbene, Essere umano, è un luogo dove quelli come
te di solito non finiscono: quindi, o sei particolarmente stupido o
particolarmente sfortunato, e in entrambi i casi sei nel posto
sbagliato. Perché questo, Essere umano, è il
luogo dove cadono gli oggetti persi dal padrone. E ora dimmi, Essere
umano, soddisfa la mia curiosità: quanto dovevi essere
inutile per farti perdere così?”
Un coro di risate interruppe nuovamente il Taccuino.
L’Uomo rimase impassibile, con lo sguardo perso nel vuoto.
L’unica emozione che emanava da lui non era rabbia, o
umiliazione, o paura, ma una sorta di tristezza. Circondato dagli
sghignazzi divertiti del Taccuino e del suo harem, se ne stava
immobile, come immerso in una bolla.
“Insomma, insomma, ragazze! Lasciatemi parlare!”
sorrise il Taccuino, riprendendo fiato dopo le risate, “non
siate maleducate e fatemi continuare il discorso. Bisogna prestare la
dovuta attenzione agli ospiti, o abbiamo forse dimenticato la
cortesia?”
Si voltò verso l’Uomo.
“Dove eravamo rimasti…? Ah, sì. Essere
umano, come sei finito qui, dunque? Come hai fatto a farti perdere, tu
che nell’Altro mondo hai il dono del movimento e della
parola? Ah, davvero, un Essere umano sprecato, un fallimento. Ma, anche
se la cosa mi sorprende, sono comunque interessato alla tua
storia,” disse meditabondo, “ perché
sarà anche la storia di un perdente, ma può
essere interessante. È la varietà di storie e di
personaggi che porta all’Arte, dopotutto... E sai, Essere
umano, io di Arte sono esperto.”
Il Taccuino chiamò attorno a sé gli altri
oggetti, che si disposero obbedientemente a semicerchio intorno a lui.
“Avanti, Essere umano, parla, raccontaci. Le mie donne, qui,
muoiono di curiosità. Non è vero, mie
care?”
L’Uomo allora alzò cauto gli occhi, ma non
c’era risoluzione in essi. Si guardò intorno, a
disagio, osservando l’ambiente; fissò gli oggetti
ad uno ad uno con aria distante. Poi, quando la Collana
sbuffò, evidentemente stanca di aspettare e ben poco
interessata, trasalì e abbassò di nuovo lo
sguardo.
“Io… non mi ricordo.”
Ci fu un nuovo scoppio di risa.
“Che vorrebbe dire, ‘non mi
ricordo’?” strascicò la Sciarpa di
stoffa indiana, “tutti si ricordano. È normale che
ci si ricordi.”
“Non si ricorda! Non si ricorda! È
difettato!” la Matita Marrone indicò quella Blu
elettrico, “come lei!”
Il tono sconcertato del Taccuino sovrastò anche il rumore
della rissa appena scoppiata tra le due Matite. “Non ti
ricordi?”
L’Uomo sembrò farsi più
piccolo e scosse la testa.
“Davvero, davvero sono senza parole. Ah, assurdo. Non solo un
Essere umano cade nella Scatola Polverosa, e già questo
è terribilmente fuori luogo, ma non si ricorda nemmeno cosa
gli sia successo! Davvero, non ho mai conosciuto nessuno di
più sbagliato di te, Essere umano. Cosa possiamo fare di
te?”
Il Taccuino sospirò, pensieroso. La situazione si
prospettava più spinosa del previsto, dato che era proprio
in base alla loro storia che gli oggetti nuovi trovavano il loro posto
nello zaino.
La Lampada da tavolo riportò l’ordine tra le
bellicose Matite e ingiunse loro il silenzio, mentre il capo
rifletteva. Bisognava decidere cosa fare di quell’Uomo, e
questo genere di decisioni non era per loro, ma doveva essere preso da
chi meglio capisce la situazione, e quindi comanda. La Lampada ne era
profondamente convinta. Chi non sa, se ne stia da parte e faccia il suo
mestiere; nel suo caso, controllare le Matite e illuminare le cose
importanti. Già, illuminare le cose importanti; la Lampada
si voltò e diresse quindi la luce verso il Taccuino.
Al Taccuino la cosa non dispiacque per niente: d’altra parte
era giusto così, che fosse lui al centro, e non quello
stupido Uomo. Rischiava di rubargli la scena con la sua
assurdità. Come sistemarlo nel pacato ordine della Scatola
Polverosa? Ah, intanto facendogli capire come è
l’ordine, ovviamente: mostrandogli chi è il capo e
chi gli è benvoluto. E mostrandogli il posto che gli spetta.
Si volse verso la Lampada.
“Ti ringrazio, mia cara. Essere umano, se non ti ricordi vuol
dire che non conosci il padrone. Sai, qui chi più conosce il
padrone è chi è più rispettato,
perché sa. Chi non sa non è interessante, Essere
umano, e io intorno a me non voglio cose non interessanti, che non
possono portare notizie del padrone e concetti nuovi
sull’Arte. Se tu non ricordi niente il tuo posto è
tra quegli oggetti là, che anche se sanno non parlano
mai… cose malinconiche e poco interessanti, che nessuno
vuole intorno.”
Con questo l’Uomo era sistemato, al posto che più
gli competeva tra i reietti dello zaino.
Però… però il Taccuino non era del
tutto soddisfatto. In fondo non si era ancora divertito abbastanza con
quella novità, accantonarla così era un peccato.
Potevano ridere ancora un po’… Sorrise e si
rivolse al suo piccolo pubblico.
“Cosa ne dite, ragazze? Facciamo vedere all’Essere
umano difettato com’è ricordarsi di come siamo
arrivati qui e di ciò che c’era prima? Raccontiamo
la nostra storia. Mostriamo quanto siamo interessanti e quanto eravamo
importanti per il padrone… Narriamo di ciò che
rappresentiamo e di come adesso siamo nella Scatola Polverosa.
Chissà, magari anche questo Essere umano tanto inutile da
farsi perdere, in questo modo, ricorderà qualcosa del
padrone… anche se ne dubito.”
Le donne, com’era giusto che facessero, acconsentirono,
alcune con entusiasmo, altre con dignità, altre con
altezzoso orgoglio. Il Taccuino era così fiero di loro, le
sue care donne dall’interessante storia.
L’Uomo ebbe un brillio negli occhi e raddrizzò un
poco le spalle, attento per la prima volta da quando era arrivato. Il
Taccuino non seppe spiegarsi il suo atteggiamento: non parla, non si
difende, non ricorda, ma si interessa alle loro storie. Ah, che fosse
il richiamo dell’Arte? Magari quest’Uomo, prima di
essere perso, era un Artista, come il padrone; magari inventava
storie… Ma no, decisamente impossibile, era solo un caso, un
interessamento senza motivo: d’altronde, era un essere senza
un perché.
Il Taccuino, tuttavia, pur senza ammettendolo ne fu lusingato; fu con
aria pomposa e importante, quindi, che iniziò a raccontare
la sua storia.
“Devi sapere, Essere umano, che io appartenevo ad un Artista:
un uomo che ama leggere, scrivere, disegnare, suonare la chitarra, un
uomo molto interessante. Ed io, essendo il suo Taccuino
dell’artista, sono interessante allo stesso modo: nelle mie
pagine è racchiusa l’Arte, sotto forma di scritti
e disegni, e parole sparse. Sono quello, qui, che conosce di
più il padrone, e per questo tutti mi rispettano.”
Intanto, le Matite si erano calmate e ascoltavano attente. Il Taccuino
rivolse loro uno sguardo d’approvazione.
“Ora, Essere Umano, ti racconterò degli ultimi
periodi, prima che io arrivassi qui, perché se raccontassi
tutto quanto dovrei parlare per molto, molto tempo. Ah, quanti ricordi
tra le mie pagine… Ricordi che non condividerò
con uno sbagliato come te, Essere umano. Ma non divaghiamo.”
Il Taccuino si spostò verso il centro del circolo
improvvisato che gli oggetti avevano formato attorno a lui e
all’Uomo e si volse verso quest’ultimo.
“Il padrone viveva nei grandi Stati Uniti
d’America. Come ti ho già detto, era un Artista,
che annotava su di me le sue ispirazioni; ma scriveva anche i suoi
diari, a volte. Uno degli ultimi scritti sui miei fogli è
proprio un diario, e risale ad qualche giorno prima della mia caduta
qui: è datato 8 Agosto 1969, St. Louis. Il padrone scriveva
che era stufo della città, della sua vita e della sua gente;
lo scriveva già da un bel po’ di tempo, che si
sentiva costretto, là: voleva cambiamenti. Voleva conoscere
gente nuova, paesaggi nuovi, nuovi modi di pensare, di vivere e di
amare, voleva vedere un orizzonte diverso davanti a lui e voleva
sentirsi vivo per davvero, con ogni parte del corpo e della
mente… questo scriveva. Solo che, fino a quel
momento, si era limitato a esprimerle con la penna, queste idee, non le
aveva mai manifestate con le parole e con gli atti. Ah, il caro
padrone, lui voleva andarsene via con altri che la pensavano come lui,
“persone gentili con fiori tra i capelli”, e
viaggiare, scoprire, sentire. Pensava di non avere abbastanza coraggio
per farlo, però, credeva che non sarebbe mai riuscito a
partire per davvero; ma si sbagliava, perché in quello
scritto si può leggere che lui se ne andò
veramente dalla città, assieme a un gruppo di altre persone
dai capelli lunghi e dagli sguardi sorridenti. Un giorno
salì su di un bus dipinto con tanti colori, con solo uno
zaino da viaggio contenente il minimo indispensabile con sé,
diretto ad un grande raduno di gente come lui: era l’inizio
di un vero Cambiamento, la porta verso la vita che si apriva per
lasciarlo finalmente entrare!
Poco racconta di quei due o tre giorni: il viaggio procedeva in
allegria, tra chiacchiere, musica di chitarra, fumo, risate e il fare
l’amore. Il padrone finalmente si sentiva a suo agio, non
più il pesce fuor d’acqua com’era stato
a casa sua; in una bellissima poesia esprime tutta la sua
felicità per essere riuscito a trovare
un’appartenenza, che lo liberava dal sentirsi un pagliaccio,
solo e incompreso. Ah, che felicità a quelle parole, che
felicità! Chissà se tu puoi capirmi, Uomo
sbagliato… ma credo di no. Chi è sbagliato non
può capire, ma semplicemente ascoltare e fare domande fuori
luogo come lui.
Comunque, di quei giorni tengo ricordi molto belli; anche alcune delle
ragazze, qui, potrebbero confermartelo… non è
vero, mia cara Coperta?”
La Coperta ebbe un sospiro trasudante ricordi, poi con tono materno
confermò quanto diceva il Taccuino: il padrone sembrava
così felice!
Il Taccuino riprese il suo racconto.
“L’ultimo intervento è datato 11 Agosto
1969, sul bus. Nel loro viaggio verso Woodstock ogni tanto capitava che
accogliessero altra gente, perché
l’ospitalità non si negava ad alcuno che la
chiedesse; quel giorno, però, non sarebbero salite persone
qualunque: si sarebbe unito a loro qualcuno di molto speciale.
Una ragazza salì: un Essere umano come te, eppure mille
volte più speciale. Il padrone ne rimase estremamente
colpito: la sua scrittura traballante ne scrive già sul bus,
descrivendola nei dettagli. Era vestita di colori chiari, con una
camicia indiana leggera sulla pelle; aveva occhi verdi e capelli rossi
lunghi fino a metà schiena che dondolavano ad ogni sussulto
della strada; non dice il suo nome.
Capisci, Essere umano? Quella non era una persona qualsiasi, come
scrive il padrone. E se il padrone non mi avesse perduto quella sera
stessa, adagiato sull’erba mentre, osservando quella ragazza,
tracciava segni ondulati sulle mie pagine, se non mi avesse posato per
quei pochi minuti, avrebbe scritto che cos’era davvero quella
ragazza, che cosa rappresentava: ella era la bellezza, ella era
l’Arte. Ne sono più che sicuro. Ovvio che il
padrone ne fosse così affascinato. Ah, se solo
l’erba non mi avesse coperto rendendogli impossibile il
ritrovarmi! Chissà come si sarà sentito solo,
senza di me, incompleto: le sue ispirazioni, perdute! Povero padrone,
che non poteva più scrivere dell’Arte sul suo
fedele Taccuino.”
Il Taccuino guardò l’Uomo con disprezzo.
“Se solo avessi avuto una voce, Essere umano, una voce come
la tua, avrei chiamato il padrone: avrei gridato finché non
mi avesse ritrovato, tra i lunghi steli d’erba, in modo da
non farlo rimanere senza di me, mi sarei mosso e l’avrei
cercato, non avrei mai lasciato che mi perdesse. Potevi fare anche tu
così, Essere umano. Ma forse eri troppo stupido per pensare
ad una soluzione così ovvia.”
L’Uomo non parlò.
“Non ricordi niente ancora? Niente che possa illuminarci su
come un Essere umano possa essere più inutile di un
giocattolo rotto?” il Taccuino sorrise di scherno,
”molto bene. Vorrà dire che andremo avanti noi.
Coperta, mia cara, vuoi continuare tu?”
La Coperta sussultò, presa alla sprovvista.
“Io?”
“Ma certo, mia cara. Sei stata la prima ad arrivare qua dopo
di me, quindi chi meglio di te per andare avanti coi ricordi?
Certamente avrai la tua parte della storia da raccontare, visto che
anche tu eri molto vicina al padrone… Vieni al centro,
coraggio.”
Se le Coperte potessero arrossire, la nostra sarebbe già
stata di un bel color pomodoro. Impettita e un po’ goffa, la
Coperta di lana segnata da piccole scuciture avanzò nel
centro del cerchio, prendendo il posto del Taccuino, di fronte
all’Uomo. Questi la osservò in silenzio, con lo
sguardo assorto e indecifrabile.
Che strano Essere, pensò in quel momento la Coperta,
così cupo, così solo… Le metteva
addosso l’inquietudine. Chissà se aveva freddo,
poveretto. Non le sarebbe dispiaciuto scaldarlo se avesse avuto freddo,
era il suo mestiere dopotutto: una brava Coperta si prende cura degli
altri anche se non più nuova e con qualche rammendo, e lei
era orgogliosamente la migliore nel suo campo. Però il
Taccuino aveva detto di no, e lei doveva prendersi cura anche del
Taccuino, così permaloso…
Scacciò questi pensieri fastidiosi e si schiarì
la voce; cercando di superare l’imbarazzo, raccolse per bene
i suoi lembi, si sistemò comoda e iniziò la sua
narrazione.
“Beh, io sono solo una vecchia Coperta, non sono educata come
il Taccuino o raffinata come la Sciarpa, non conosco bene il mondo
perché sempre stata molto brava a scaldare la gente, ma non
ad osservare. E poi, Taccuino, la mia storia è molto
monotona, lo sai: le Coperte poco belle come me non hanno molte
avventure… Non come quelle belle Coperte ricamate, che
vengono regalate ai giovani sposi. Una volta avevo un’amica
Coperta così bella da stare addirittura su di un letto,
così, a bella vista! Non vi dico, sui toni del rosa, con
delle roselline ricamate davvero graziose. Però, se devo
dire la verità…”
“Coperta, non dilungarti, per favore. Continua da dove io
avevo interrotto, avanti,” la interruppe il Taccuino con tono
fermo.
La Coperta sbuffò, benedicendo la sua pazienza. Il Taccuino
era davvero colto e intelligente, certo, ma così
esasperante, alle volte…
“Scusami, lo sai che ogni tanto mi lascio prendere dal
discorso. Dunque, dicevamo…
Ah, sì, quella ragazza che il padrone aveva conosciuto sul
bus. Non la vedevo molto spesso durante il giorno, perché il
padrone mi teneva arrotolata e fissata allo zaino, in una posizione
assai scomoda che mi sgualciva sempre. Durante le pause,
però, quando il padrone mi stendeva sull’erba, o
durante la notte, quando parlavano e suonavano seduti su di me, tutti
insieme, allora potevo guardarla con tutta calma, visto che quei due
erano sempre seduti vicini. Il padrone la guardava sempre, e lei non ne
sembrava affatto dispiaciuta, no no. Erano così dolci, e il
padrone sembrava così felice, così
spensierato… A dir la verità a lei non facevo mai
troppo caso, perché il mio compito era prendermi cura del
padrone e tenerlo d’occhio, però mi sembrava una
brava ragazza, anche se un po’ lunatica.”
La Coperta si fermò un momento, riflettendo.
“Se posso dirlo, Taccuino, credo che per il padrone quella
non fosse altro che una ragazza, non quel qualcosa di strano legato
all’arte che hai detto tu. Ma io sono solo una Coperta, non
sono colta come te, magari non capisco bene… anche se mi
sembrava proprio simile alle altre cotte del padrone, davvero. Me ne
ricordo una davvero perniciosa, forse un anno prima, non si scollavano
un momento… Altro che questa qua! Vi giuro… No,
ho capito, ho capito, non mi perderò nel discorso di nuovo.
Comunque, arte o non arte, il bus arrivò a destinazione con
un tempo piovigginoso. Non so cosa ci trovassero tutti quei ragazzi nel
radunarsi in un campo fangoso, all’aria aperta e quindi anche
alla pioggia, ma fatto sta che erano tantissimi, tutti giovani e
colorati, tutti sorridenti e pieni di speranza. Durante la giornata,
non mi ricordo la data perché a me nessuno l’ha
detta o scritta, ero legata allo zaino come al solito, ma eravamo in un
grande spiazzo, e le persone erano tantissime: avevano fatto tutto quel
viaggio per un concerto e sembravano divertirsi un mondo. Io, a dirla
tutta, mi annoiavo non poco… sapete
com’è, a me la musica proprio non interessa, sono
una Coperta, non una Chitarra.
Il mio ultimo ricordo proviene da una delle notti passate
laggiù… e che notte! Vedi, Taccuino, è
per questo che credo che il loro fosse più un possibile
amore che una cosa complicata e artistica: noi Coperte vediamo delle
cose che voi Taccuini non potrete mai vedere, e conta, credimi. Era
davvero così romantico, essere stesa sull’erba
umida in una notte d’agosto, con loro due che dormono
abbracciati su di me! Mi sentivo proprio una Coperta modello.
Alla mattina, però, dopo che lei si fu alzata per tornare
dagli altri, nello spiazzo, e il padrone l’ebbe inseguita
prendendola per mano, io rimasi lì. Attesi pazientemente che
calasse la notte perché tornassero da me, ma nessuno
arrivò più… Avranno senza dubbio
dimenticato dove mi avevano messo, quei due! E così sono
finita qui.”
La Coperta sospirò. “Che peccato essere persa in
questo modo, davvero… ero così curiosa di sapere
come sarebbe andata avanti, visto che pareva così
promettente.”
Sollevando le ampie gonne, la Coperta guardò il Taccuino
perché la facesse tornare a posto; questo la
squadrò con aria un po’ contrariata come faceva
sempre quando non si era completamente d’accordo con lui, ma
poi le fece posto, muovendosi verso il centro. Tornando a posto, la
Coperta diede un’occhiata all’Uomo e si
stupì molto del fatto che avesse negli occhi una luce un
po’ nostalgica, perché non ne vedeva il motivo; ma
era inutile scervellarsi su cose che una Coperta non poteva capire,
molto probabilmente, sotto la scorza, era solo un
romanticone… sì, doveva essere così.
Le stava riuscendo addirittura un po’ simpatica, quella
creatura sfortunata, ma era meglio dimenticarlo subito: non si poteva.
Anche se sarebbe stato così bello, in memoria dei tempi
passati, coccolare un Essere Umano… Sospirando, la Coperta
si mise comoda e rivolse la sua attenzione verso il Taccuino.
Questo guardò l’Uomo, sorridendo .
“Allora, Essere Umano, nessun ricordo, ancora? Eppure mi
è parso di vederti più attento di prima. Ah, ma
chi può comprenderti? D’altro canto, se tu fossi
un Essere Umano normale ora non saresti qui, e temo proprio che non sia
in mio potere comprendere un errore. Non che ne senta il bisogno,
intendiamoci.”
Il Taccuino dell’artista si volse verso le sue donne,
pensieroso.
“E sia, continuiamo la nostra storia. Dunque, dopo la
Coperta… ma certo, come dimenticare! Mia cara Sciarpa, sei
tu la prossima. Vorresti accomodarti qui, per favore?”
Gli sguardi si spostarono sulla Sciarpa di stoffa indiana, che
lentamente, strusciando, si alzò.
“Taccuino, se vuoi, racconterò. Anche se mi sembra
un po’… eccessivo, tutto questo per un Essere
Umano. Non ne vale la pena.”
I disegni sulla stoffa aranciata si scomposero nelle pieghe mentre la
Sciarpa avanzava fino al centro. Fece dondolare le sue perline,
squadrando l’Uomo dall’alto in basso, con evidente
disprezzo: decisamente una perdita di tempo, avrebbero dovuto relegarlo
nell’angolo e basta. Quando si accorse che non ci sarebbe
stata alcuna reazione alla sua evidente ostilità, distolse
lo sguardo, stizzita. Scostò una piega che stava scivolando,
sbuffò, e iniziò.
“La mia è una storia molto lunga, e io ho visto
tante cose, tanti… posti, città, al collo dei
miei padroni. Ho avuto più di un padrone… Conosco
tante cose. La storia di come sono stata persa, però,
è molto breve, molto semplice. Molto… umiliante,
per me. Quindi ne parlerò brevemente, perché la
detesto.”
La Sciarpa parlava con tono lento e un po’ pesante,
continuando a fissare l’Uomo.
“Il mio ultimo padrone mi aveva presa al mio padrone
precedente in cambio di pochi pezzi di carta. È una cosa che
era accaduta già qualche altra volta, quindi ci ero
abituata… ma questo nuovo padrone, poi, si
comportò diversamente dagli altri, non fece come tutti e mi
indossò. Lui mi piegò con cura, lisciò
la mia stoffa, controllò i miei disegni e sistemò
due perline mancanti… fu molto gentile. Poi, mi mise nello
zaino, facendo molta attenzione a non sgualcirmi. Io ne rimasi un
po’ delusa… Mi piace vedere il mondo dal collo del
padrone, mi piace farmi ammirare e far brillare il mio colore alla luce
del sole, ma… non mi piace, proprio, stare chiusa. Anche se
ero lusingata dalla cura con cui mi trattava.”
La Sciarpa si fermò un lungo attimo, visibilmente irritata.
“Poi, scoprii perché il padrone… lui mi
trattasse con tanta cura, e non mi piacque, non mi piacque per niente.
Voleva regalarmi a un’altra… credo che sia quella
di cui parlava la Coperta, e il Taccuino prima di lei…
perché lui diceva che mi sarei intonata ai suoi capelli. Oh,
un oltraggio per me, cambiare padrone così presto,
così senza motivo, per qualcuna che non mi piaceva. La
sentivo parlare da dentro lo zaino… Non mi piaceva, no, non
mi piaceva affatto… aveva una voce troppo veloce, cambiava
argomento troppo velocemente, e questo voleva dire che cambiava idea
pure velocemente. Si sarebbe stancata di me presto, me lo sentivo. Ero
così infastidita… ma non potevo farci niente.
Però, fu il padrone stesso a fare qualcosa, anche se avrei
preferito di no. C’era vento, il giorno in cui lui voleva
darmi a quella, il tipico vento dell’Autunno, con il suo buon
profumo… Lui mi aveva in mano, e io mi sgranchivo
nell’aria, sventolando la mia stoffa. Non prestavo attenzione
a niente, se non al vento… e, all’improvviso,
stavo volando nel vento. Mi aveva perso dalla mano… e dal
vento sono finita qui.”
La Sciarpa si voltò verso il Taccuino, senza degnare
più di uno sguardo l’Uomo.
“Ecco, questa è la mia umiliante storia. Persa per
caso…”
Il Taccuino non disse nulla e si scostò per farla rientrare
al suo posto, e la Sciarpa, strascicando la stoffa aranciata, senza
un’ulteriore parola tornò nel cerchio.
Ci fu un momento di silenzio dopo le ultime frasi della Sciarpa, prima
che il Taccuino decidesse di interromperlo di nuovo. L’Uomo
guardava in terra.
Infine il Taccuino parlò.
“Grazie, Sciarpa, mia cara. Ma ti prego, non parlare
più con questo tono così duro: sono certo che il
padrone è rimasto davvero dispiaciuto quando gli sei
sfuggita di mano, e poi, quello di poter essere regalata
all’incarnazione dell’Arte avrebbe dovuto essere un
onore, per te. Riflettici, per favore.”
La Sciarpa di stoffa indiana aveva un’espressione scettica,
ma non rispose.
“Dunque, continuiamo! Umano difettato, ancora niente? Sei
molto peggio di quanto pensassi, allora… Ragazze,
laggiù, che cos’è tutta questa
agitazione?”
Le Matite avevano iniziato a saltellare, esagitate.
“Tocca a noi!”
“Tocca a noi!”
“E chi racconterà?”
“Io, io!”
“No, tu parli come colori, cioè male. Racconto
io!”
“No, io! Ero la preferita!”
“No, nessuna di voi! Racconto io!”
“Ci vuole un colore deciso per raccontare, quindi
io!”
“Facciamo per votazione!”
“Sì! Va bene!”
“Sì! C’è qualcuno che vota
per me?”
“NO!”
“…Adesso basta!”
Le Matite si zittirono improvvisamente, mentre la Lampada da tavolo,
autrice di quell’ultimo urlo, cercava di fermare la sua
intermittenza da stress. Quelle pazze scatenate prima o poi
l’avrebbero fatta fulminare.
“Parlerò io,” disse poi a voce bassa e
controllata, “visto che la vostra storia la conosco bene,
tanto me l’avete raccontata, e voi siete incivili.
Vergognatevi!”
Le Matite si guardarono l’un l’altra con aria
improvvisamente intimorita, parlottando a voce bassa incolpandosi a
vicenda, ma non obiettarono.
La Lampada fece mente locale per ricostruire un racconto coerente da
quanto gli avevano disordinatamente detto le Matite durante la loro
permanenza nello zaino: erano così confusionarie da
risultare quasi incomprensibili. Il Taccuino la osservava con aria
d’approvazione, e la Lampada, sentendosene orgogliosa, si
mise d’impegno nel compito che si era presa.
A dir la verità, la Lampada era laggiù da ben
prima del Taccuino, solo che non aveva molto da raccontare: aveva fatto
il suo lavoro di illuminare per un periodo di tempo rispettabile, poi
un giorno era stata messa in un angolo perché continuava a
fulminarsi per l’età. Da lì, dopo
qualche tempo, mentre non stava attenta a cosa le accadeva intorno, si
era semplicemente ritrovata nella Scatola Polverosa e vi aveva trovato
tanti altri oggetti silenziosi e tristi. Aveva quindi deciso di non
distrarsi più per evitare che le accadesse di nuovo una cosa
del genere, ma laggiù la Lampada non aveva niente da fare,
nessun compito da svolgere, nessuno da aiutare: si annoiava a morte.
Poi, ad un certo punto, lo zaino si era aperto e tra di loro era
arrivato un Taccuino dell’artista, un oggetto estremamente
affascinante e carismatico… e la Lampada aveva deciso che
lui sarebbe stato un ottimo sostituto del padrone. Il resto della
storia lo conosciamo già.
Schiaritasi le idee, la Lampada avanzò quindi verso il
centro del cerchio, e iniziò a parlare guardando il
Taccuino.
“La storia di queste disgraziate non impiegherà
molto per essere raccontata… silenzio, voi! Non voglio
sentire proteste! Allora, erano le Matite del padrone, che lui si
portava sempre in giro e con cui faceva schizzi e disegni. La parte che
ci interessa della loro storia inizia quando vennero utilizzate per
disegnare la Rossa, come la chiamano loro.”
“Ma Lampada! Abbiamo fatto tanti altri disegni prima! Di
quelli non racconti?” si lamentò la Matita Rosa.
“Ho detto che non voglio sentire proteste. A nessuno
interessano gli altri disegni, Rosa, o almeno non adesso. Lasciami
continuare e taci.”
La Lampada si schiarì la voce e lanciò uno
sguardo d’ammonimento a tutto il gruppetto.
“Il padrone, a quanto mi è stato raccontato, le
utilizzava spesso per ritrarre la Rossa, mentre erano in viaggio e
mentre si fermavano. Viaggiavano molto, solitamente sul bus, diretti
chissà dove, sempre assieme a tante altre persone come
loro… da quanto queste qua hanno capito (e quindi forse
molto poco), facevano un viaggio per visitare i posti che li
rispecchiavano, che, a parer mio, erano irraggiungibili, o comunque
inutili da visitare. India, bah… Comunque, ci fu un periodo,
poco prima della loro caduta nello zaino, in cui disegnavano quasi
tutti i giorni, sia in auto, sia nelle case, sia di giorno, sia di
notte. A quanto pare fu un periodo molto faticoso, ma
soddisfacente.”
“E che disegni feci, colorando i suoi capelli! Fu il mio
periodo di gloria!” esclamò tronfia Arancione.
“Ehi, ehi, mica solo tu! C’ero
anch’io!” ribatté la Matita Rossa.
“Che cosa romantica, disegnarla di notte mentre
dormiva… e lei era così bella!”
“Già, così colorata! Era proprio
simpatica!”
“Sono d’accordo con te, Verde chiaro, anche di
solito mi stai antipatica,” disse Viola, annuendo.
“Per me erano proprio innamorati…”
sospirò la Matita Rosa, romantica fin dentro la mina.
“Secondo me invece lei non lo era.”
“Grigio, sei sempre la solita guastafeste!”
“Sarà, ma a me lei non sembrava innamorata per
niente…”
“Ma a te tutto sembra sempre negativo, sei triste e
smorta!”
“…come te!” esclamò la Matita
Blu elettrico guardando Marrone.
Come prevedibile, scoppiò immediatamente una rissa piuttosto
rumorosa. La Lampada ebbe un paio d’intermittenze,
esasperata, poi prese fiato.
“SILENZIO!”
Il Taccuino ridacchiò con affetto mentre la Lampada sgridava
a voce alta le Matite, quelle tante piccole disgraziate iperattive
così adorabili: come avrebbe fatto senza di lei a
fronteggiare tutte quelle scatenate?
La Lampada, finita la ramanzina che sarebbe risultata inutile come al
solito, si diede un contegno.
“Non voglio più sentire commenti, è
chiaro? Mi farete fulminare, una volta o l’altra. E adesso
lasciatemi finire, per carità. Come stavo dicendo, anche se
decisamente non se lo meritano, le Matite nell’ultimo periodo
vennero utilizzate tantissimo. Poi, da un giorno all’altro,
fine. Dopo essere state riposte nello zaino in fretta e furia, una
sera, caddero fuori con la loro scatola e non vennero raccolse, e io un
perché ce l’avrei. Fu così che vennero
perse, e si ritrovarono qui. Fine della storia.”
Le Matite non parvero molto contente di essere state liquidate con
così poche parole, ma la Lampada notoriamente era molto
pratica e senza senso della poesia… ed era anche molto
spaventosa quando si arrabbiava, quindi nessuna di loro osò
protestare. Soddisfatta, la Lampada si allontanò dal centro
del cerchio e un orgoglioso Taccuino prese il suo posto.
“Ti ringrazio, Lampada, carissima: davvero non so come farei
senza di te. Ah, Essere umano, nota come un suppellettile –
perdonami, mia cara, ma è così – senza
alcun senso dell’Arte possa essere così gentile e
indispensabile, come possa essere così perfetto e calzante
nel suo compito. È tutto il contrario di te, Uomo, che,
nonostante la tua libertà di movimento e di parola
là Fuori, sei finito qui tra gli oggetti perduti: lei ha
dato pieno compimento alla sua esistenza, è esattamente
ciò che dovrebbe essere. Tu, invece, sei un Essere umano
senza memoria e perso come un oggetto nonostante le tue mille
opportunità. Sei ridicolo.”
L’Uomo, come sempre, non diede segno di aver recepito quelle
parole. Il Taccuino iniziava davvero a stufarsi di quello scherzo della
natura: si era divertito abbastanza nello schernirlo, anche se lui non
gli dava troppe soddisfazioni, e il momento di sistemarlo
com’era possibile nella routine dello zaino si avvicinava.
Ah, che fastidio, certo, quest’essere improbabile, senza una
spiegazione logica, che finiva proprio nel suo zaino! Meglio andare
avanti, sì, dopo aver finito la farsa tutto sarebbe tornato
alla normalità… anche l’Essere umano.
Il Taccuino si schiarì la voce.
“Ah, ed ecco la volta della nostra ultima
narratrice… Collana, milady, ti prego, vieni
avanti.”
Con fare galante, il Taccuino, guardando l’altezzosa Collana,
si scostò per cederle il posto. Questa incedette, dandosi
importanza, mentre il medaglione mandava vaghi luccichii nella penombra
grigia; arrivò al centro e lì si
fermò, osservando svogliatamente l’Essere umano di
fronte a lei, che la fissava di rimando. Quell’Uomo la
divertiva, come tutte le cose inferiori a lei che corrono in giro
cercando il loro posto: questo, poi, era un caso disperato. Inutile
perderci troppo tempo, pensò raccogliendo vicino a lei la
sua cordicella e facendo vanitosamente luccicare il medaglione, tanto
valeva farla finita in fretta…
“Dunque, come iniziare? Avrei così tante cose da
dire… più di quante potreste immaginarne. Intanto
per cominciare, il padrone non è stato il mio primo padrone,
e già questo sarebbe lungo da raccontare… Ma la
cosa più importante è che la persona a cui
appartenevo prima era proprio quella di cui state parlando da un bel
po’: la ragazza del bus, la Rossa. Davvero, non vi immaginate
quante cose potrei raccontare, anche se adesso non lo farò e
seguirò la storia che avete portato avanti, anche
perché, sinceramente, proprio non ne avrei voglia.
Allora… Fui regalata al padrone in un giorno di inizio
Autunno.”
La Collana si fermò per un momento, persa nei ricordi, poi
sospirò romanticamente.
“Lo ricordo molto bene. Quel giorno la padrona mi aveva al
collo, come suo solito, assieme ad altre Collane. Quell’uomo
era con lei da circa un mese, e la seguiva ovunque andasse; erano
sempre insieme, spesso anche in compagnia di altre persone colorate, in
viaggio verso non saprei dire che. Un giorno, mentre conversava con
quell’uomo, la padrona senza preavviso si portò le
mani al collo e prese delicatamente la mia cordicella, mi
sollevò e mi porse a lui. Ne fui estremamente sorpresa: la
padrona che mi regala? Perché? Però non mi feci
troppe domande, alla fine non mi interessava così tanto; mi
limitai ad osservare il mio nuovo padrone, sperando che fosse gentile e
che mi tenesse bene come faceva la padrona. Il nuovo padrone
era più stupefatto di me, devo dire, e mi
ricevette con un sorriso di felicità. Da quel momento mi
portò sempre al collo, sotto la maglia, a contatto con la
sua pelle; non ne ero particolarmente contenta, come dire…
mi piace vedere il mondo, se sono al chiuso mi annoio. Purtroppo,
però, non potevo farci niente.”
La Collana giocherellò con il suo cordoncino nero.
“Passò del tempo. Non saprei dire esattamente
quanto, perché non ci sono mai stata attenta, ero
così annoiata, sotto la maglia… però
direi che non fu poco. Quando vi prestavo attenzione, durante quel
periodo sentivo a volte il padrone parlare con lei, ridere, baciarla,
disegnarla. Poi, un giorno, cosa che mi lasciò parecchio
stupita, perché proprio non me l’aspettavo, il
padrone mi tolse con parecchia malagrazia e mi ripose nella tasca dello
zaino. Fu piuttosto seccante, dico davvero, perché stare
chiusi in un posto buio, inutilizzate, per noi Collane è una
noia mortale, ancora peggio che essere portate nascoste sotto i
vestiti! Oh, la mia cordicella e il mio medaglione si impolverarono
così tanto, fu davvero un peccato. Arrabbiata
com’ero, il giorno in cui finalmente il padrone mi tolse
dalla tasca, non lo degnai neanche di uno sguardo; poi lui mi
spolverò con cura e mi lucidò… e
allora, beh, non potevo proprio avercela ancora con lui. Insomma, mi
aveva trattata con così tanta importanza!”
esclamò, con espressione lusingata.
“Da quel momento in poi, però, non mi mise
più: mi teneva sul comodino di una stanza che non avevo mai
visto prima, sempre ben spolverata, e la sera mi guardava con aria
persa, un po’ lontana. Mi chiedo a cosa pensasse, anche se in
fondo direi che non mi interessa. Poi…”
La Collana smise di parlare, lasciando la narrazione in sospeso, e il
suo sguardo si incupì.
Ecco, alla fine c’era arrivata: detestava pensare a quella
parte della storia. Fino a quel momento si poteva credere che tutto
andasse bene, come per gli altri… ma la conclusione della
sua vicenda portava con sé un dubbio atroce, qualcosa che
neanche la sua studiata superficialità riusciva a
cancellare, e lei odiava ricordarlo. Faceva tremare tutto quello in cui
credevano.
Sospirò, riluttante, e con voce buia terminò il
suo racconto.
“Poi un giorno lui se ne andò e mi
dimenticò lì, sul comodino, a prendere polvere. E
quando la polvere mi ricoprì, ero qua.”
Nessuno osò interrompere il silenzio che seguì
l’ultima frase della Collana.
Nessuno proferì parola, non il Taccuino, che fissava la sua
tasca d’onore nello zaino, non la Coperta ansiosa come una
mamma, non la Collana stessa, appena tornata a posto e abbattuta,
né tantomeno le Matite, per una volta tutte in gruppo
ordinate e silenziose. Quell’ultima frase del racconto, di
solito sepolta appena dopo averla sentita, ogniqualvolta di nuovo
menzionata gettava un’ombra sugli abitanti dello zaino. Tutti
tacevano, ognuno immerso nei propri pensieri e nei propri dubbi, e il
disagio e la paura serpeggiavano e si insinuavano nell’harem,
che spaurito si volgeva a cercare conforto dal proprio capo.
Ma, prima che il Taccuino potesse in alcun modo rassicurare le sue
donne e permettere loro di dimenticare di nuovo, la cappa di silenzio
venne improvvisamente infranta da una risata.
L’Uomo aveva iniziato a ridere.
Tenendosi il volto con le mani e chinando la testa, rideva e tremava.
Dapprima piano, poi sempre più forte, più intensa
e disperata, la risata riempì folle tutto lo zaino, mentre
l’Uomo tremava ancora di più e cadeva in
ginocchio, continuando a ridere senza riuscire a fermarsi, le mani sul
volto e sui capelli.
Attoniti, gli oggetti non seppero come reagire. Perfino il Taccuino si
limitava a fissare l’Uomo senza osare far nulla, sgomento,
mentre la risata diminuiva di tono e di energia, assomigliando sempre
più a dei singhiozzi, finché non si
fermò. Allora l’Uomo si alzò in piedi,
ghignando, e gli oggetti lo videro bene per la prima volta.
Impolverato, grigio e dimesso come loro, al centro del cerchio si
ergeva un Uomo trascurato, con pantaloni un tempo colorati e una
camicia dal disegno indiano spiegazzata, con lunghi capelli spettinati
e la barba incolta di qualche giorno; solo che adesso non sembrava
più piccolo rispetto agli oggetti, e incuteva loro un
inspiegabile terrore.
E, infine, l’Uomo parlò.
“Piccoli, stupidi oggetti pieni di voi! Vi sentite tanto
superiori, eh? È semplice fare i grossi quando si
è in tanti.”
Camminò fino ai bordi del cerchio, davanti al Taccuino.
“Semplice parlare senza davvero sapere, semplice dare
giudizi, semplice dire ‘io avrei fatto
così’.”
Iniziò a camminare in cerchio davanti al Taccuino e al suo
harem, guardandoli con scherno e una luce folle negli occhi.
“Poveri, piccoli oggetti, abitanti di questo posto
dimenticato! Non avete capito niente. Niente. ‘Il padrone era
così’, ‘il padrone era
cosà’, il padrone, il padrone, il padrone! Ma cosa
volete saperne, voi, del padrone? Tu, Taccuino
dell’artista,” gridò, volgendosi verso
di esso, “tu non sapevi niente. Il padrone non è
mai stato un artista, era solo un idiota senza posto nel mondo, ubriaco
di sogni insieme a tanti altri come lui. E Lei non era Arte.
Lei… era tutto ciò che non avevo mai avuto, era
tutto ciò che volevo. Quando ho trovato Lei, tu non sei
servito più.”
Mentre parlava, continuava a camminare lungo il bordo del cerchio,
scomposto e affannato, senza pace.
“Era amore, a modo suo, eccome se lo era… alla
fine, Coperta, avevi ragione tu. Ne ero innamorato, come non lo ero mai
stato. Era così bella, coi suoi capelli rossi,
così bella e viva. Era diversa da tutti gli altri, e, anche
se amavo la loro compagnia, potendo scegliere sarei stato soltanto con
Lei. Ah, Woodstock! Una delle esperienze più belle della mia
vita, e in gran parte lo devo a Lei. Decidemmo di viaggiare, assieme a
tutti gli altri, di andare fino in India… che bel sogno che
fu. Mi regalò una Collana, una sera, e io decisi che
l’avrei seguita ovunque: ormai era tutto per me. Era tutto
ciò che non avevo mai avuto.”
Guardò le Matite, immobili nella tensione, quasi con affetto.
“La disegnai mille e mille volte. Le regalavo i miei disegni,
perché a me bastava avere Lei.”
Si fermò davanti alla Sciarpa, che si trasse indietro con un
rumore di perline.
“Sai, Sciarpa? Avresti davvero dovuto essere onorata di
essere regalata a Lei. Era così migliore di me…
Troppo, forse. Quando ancora io credevo nel nostro grande sogno di
andare fino in India, Lei aveva già riflettuto su di esso, e
aveva deciso che non valeva la pena di andare. E l’aveva
deciso da sola. Era amore? Per me sì, ma per Lei…
chissà. Fu così che, un giorno, senza che mi
fossi accorto di niente delle sue riflessioni, comprai una Sciarpa di
stoffa indiana per regalarla a Lei, come simbolo e portafortuna per il
nostro viaggio.”
Lo sguardo dell’Uomo si fece improvvisamente velato di
lacrime, perso in ricordi lontani.
“Ma lei, proprio quel giorno, mi disse di quanto aveva
deciso. Non voleva più venire con noi, mi disse. Voleva
tornare a casa… da sola. Anche senza di me. E quel giorno le
mie speranze volarono via con la Sciarpa.”
Riprese a camminare, parlando con la voce rotta dal pianto.
“Cercai di tenerla legata a me in tutti i modi, con poesie,
disegni, baci, suppliche… ma lei aveva deciso. E
così, un giorno, com’era venuta se ne
andò. Lasciandomi solo.”
L’Uomo si fermò al centro del cerchio, e sembrava
una marionetta a cui fossero stati tagliati i fili.
“Io l’amavo… l’amavo davvero.
Me ne andai anche io, da solo, perché non sopportavo
più l’idea del viaggio con tutti gli altri, ma
senza di Lei. Ripresi la Collana che avevo chiuso nello zaino, nella
mia rabbia iniziale, e la tenni quasi come reliquia, come rimanente di
Lei, l’ultima cosa che avevo che me la ricordasse... Fino a
che non ce la feci più. Me ne andai dall’ostello
dove avevo alloggiato e la lasciai lì, l’ultimo
mio oggetto prezioso, a coprirsi di polvere.”
Alzò di nuovo la testa e guardò i suoi oggetti ad
uno ad uno: eccoli, spaventati e piccoli, zitti e che lo fissavano
senza muoversi. Esseri ridicoli.
Si voltò verso il Taccuino con aria di sfida.
“ È ora per me di restituire il favore della tua
cortesia. Sai dove siamo? Siamo nella Scatola polverosa, Taccuino. E
sai che luogo è, la Scatola polverosa?”
Il Taccuino non rispose e tenne lo sguardo fisso sul fondo dello zaino.
“È il luogo non dove finiscono gli oggetti perduti
dal padrone, Taccuino, no… Voi, piccoli patetici oggetti,
così boriosi e arroganti, pieni d’orgoglio, siete
qui in questo posto pieno di polvere! Polvere, Taccuino! Polvere, tutti
voi oggetti! Polvere, Collana… tu avevi capito, no? Avevi
capito che questo è il luogo dove cadono gli oggetti
dimenticati dal padrone, abbandonati alla polvere in quel momento e per
sempre, non è vero? Ah, tutti voi, siete solo ridicoli! E
io, io più di voi: io, che per Lei ho dimenticato me stesso
e i miei sogni, e mi sono ritrovato senza più niente, senza
più sapere come andare avanti!”
L’Uomo si passò una mano sul viso, e quando la
ritrasse stava ridendo di disperazione.
“Ed eccomi qui, pagliaccio in un harem di pagliacci, dove
tutti corrono in cerchio e senza alcun senso dietro a chi crede di
saperne di più, senza in realtà sapere
niente.”
Lacrime attraversarono l’aria densa di pulviscolo per andare
a cadere sul fondo grigio e polveroso.
“Correte, correte senza speranza, continuate a farlo e
dimenticate quanto vi ho detto… Tanto non vincerete mai, non
arriverete da nessuna parte. Prima o poi vi stancherete, e in quel
momento, forse, capirete.”
L’Uomo, lentamente, con aria stanca, si diresse verso
l’angolo degli oggetti malinconici e lì si
sedette, sospirando.
“Capirete che è nella completa dimenticanza, qui,
la salvezza. Nel non ricordare per non soffrire. Vi fermerete, allora,
vi accascerete in terra. E lascerete che, infine, la polvere regni
sovrana.”
----
Salve a tutti!
Rieccomi qui, stavolta con un'originale, partecipante al concorso L'Harem e... il Pagliaccio
indetto da Eylis.
La mia storia si è classificata settima, risultato di cui mi
ritengo assai soddisfatta, anche perché le critiche che mi
sono state rivolte me le aspettavo. Per questo motivo, quando
avrò tempo darò una bella revisione al racconto!
^^
Poi, che dire? Non è stato un racconto semplice da scrivere,
anzi. Mi ha preso parecchio tempo, più di quanto immaginassi
quando mi ero iscritta al concorso, e per questo motivo l'ho dovuto
finire un po' di fretta. Ma, come ho già detto, lo
sistemerò...
Faccio i miei complimenti alle partecipanti al concorso, tutte quante! Al
più presto leggerò i racconti. :)
A Eylis, grazie. I tuoi concorsi sono bellissimi, un toccasana per la
fantasia. Grazie, davvero.
Un grazie anche a tutte le ragazze con cui vivo: la sopportazione di
Wiwo in stato semi-ossessivo da concorso è un'arte. Vi voglio bene, e in
bocca al lupo a tutte!
Arrivederci su questi schermi.
Wiwo
|