If I Can Stop - Capitolo 1
–
Non m’importa.. –
Pronunciò
quella frase osservando il paesaggio umido fuori dalla finestra. Il vetro
appannato rendeva indefiniti i contorni delle auto e delle case all’esterno. I
pochi suoni che si percepivano, il motore di un autobus, il gracchiare di un
corvo solitario o lo sgocciolio delle tettoie, erano resi ancora più ovattati
dal silenzio dell’alba inoltrata.
Non
era riuscito a dormire bene quella notte. Un rancore in particolare lo aveva
tenuto sveglio.
Rimase
ancora qualche attimo davanti la finestra, con la mano che scansava la tenda da
un lato, stringendo saldamente nell’altra la lettera che aveva ricevuto il
pomeriggio prima.
Gli
piaceva fermarsi ad osservare; a volte la contemplazione di spaccati banali e
quotidiani lo rilassava, lasciava scorrere via i suoi pensieri per dar spazio
alla sola quiete.
Sfortunatamente,
la pratica abitudinaria non aveva avuto gli stessi effetti questa volta.
Strinse
con maggiore forza la lettera nella sua mano sinistra, fin quasi ad
accartocciarla, e lasciando ricadere la tenda, regalando nuovamente oscurità al
piccolo salone, si avviò verso l’ingresso. Gettò con disprezzo l’oggetto di
tale frustrazione nel cestino che si trovava vicino la porta d’entrata,
rimanendo a fissarla con sguardo severo ancora per diversi attimi.
Stringendo
leggermente i pugni trovò la giusta risoluzione per allontanarsi da lì,
sperando di aver abbandonato anche il suo attaccamento a quell’oggetto
ridicolo. Eppure..
Si
abbandonò sul divano, coprendosi gli occhi affaticati dall’insonnia con il
dorso della mano. Quella mattina sarebbe dovuto andare all’università. Non che
la cosa lo entusiasmasse particolarmente ma… era il giorno in cui gli studenti
stranieri dello scambio sarebbero arrivati, e tutti i ragazzi del suo corso con
cui era riuscito ad instaurare un buon rapporto gli avevano raccomandato di
esserci, di non mancare assolutamente all’accoglienza. Non avrebbe sicuramente
fatto una buona impressione quella mattina visto che era di pessimo umore, ma
d’altronde non era il tipo da non mantenere la parola data. Kiku, in
particolare, si era raccomandato. Nonostante fosse giapponese ed una persona
estremamente discreta, era stato molto insistente affinché partecipasse anche
lui.
Spostò
pigramente la mano dagli occhi, aprendo uno spiraglio verso l’orologio del
salotto che segnava le sei e mezzo del mattino. Almeno avrebbe potuto
prendersela comoda.
Sapeva
di essere notevolmente in anticipo, ma era così eccitato all’idea di iniziare
quella nuova pagina della sua vita che tutto il sonno e la stanchezza del
viaggio erano spariti durante la notte. Quello che chiamavano “Erasmus”⁽¹⁾,
poteva essere per tanti ragazzi della sua età un’esperienza di studio e di
crescita straordinaria, ma a dir la verità le motivazioni che lo avevano spinto
a fare quella scelta erano molto meno lusinghiere.
Aveva
desiderato più di tutto allontanarsi dalla sua città, e anche dalle sue tante
conoscenze. Come se avesse bisogno di cambiare aria per un po’. Amava Parigi. Tuttavia, la curiosità
dell’ignoto e dell’avventura si era impossessata di lui da tempo ormai, e
quando per gli studenti del suo corso universitario si era prospettata la
possibilità di un anno di studi all’estero gli era sembrato un segno
inequivocabile. Doveva partire.
Purtroppo
però anche quell’avventura avrebbe avuto i suoi svantaggi: il primo era legato
a sua madre. Odiava l’idea di lasciarla sola per tutto quel tempo, ma lei al
contrario si era dimostrata entusiasta e aveva insistito fino allo stremo
perché presentasse la domanda. Gli ripeteva – Non potrà farti che bene! E’
giusto che tu abbia le tue esperienze senza preoccuparti di quello che farò
io.. – insomma, le solite frasi che trovano i genitori per alleviare il senso
di colpa di molti dei figli che lasciano casa per lunghi periodi. Le aveva però
promesso che sarebbe tornato da lei un weekend al mese e che le avrebbe
telefonato tutti i giorni, al che lei gli aveva regalato un sorriso pieno
d’affetto ma che lasciava trapelare comunque una certa mestizia. Aveva portato
con sé anche una sua foto per sentirla in qualche modo più vicina.
L’altro
aspetto negativo era la destinazione: Londra.
Non
era mai stato un grande amante di quella terra, tantomeno di quella gente.
Forse anche questa era una specie di prova per aiutarlo ad abbattere qualche
luogo comune e consentirgli di aprire di più la sua mente. Comunque, l’unica
università europea che presentava la possibilità di seguire per un anno il suo
corso di studi e la sua tipologia di esami era quella di Londra. Diciamo che
avrebbe dovuto accontentarsi. Forse, alla fine, si sarebbe persino abituato a
quel luogo, a quella visione del mondo e delle cose squisitamente anglosassone
e a quella lingua che parlava e comprendeva perfettamente, ma che in un certo
senso considerava aspra ed eccessivamente abusata.
Tirò
un profondo sospiro ripensando a tutto quello che l’aveva portato lì, mentre
sedeva su una delle panchine del bellissimo e ampio cortile universitario che
cominciava a dipingersi dei colori autunnali. Si avvolse la sciarpa intorno al
collo un'altra volta. Quella mattina faceva davvero freddo per essere ottobre,
ma d’altronde si trovava in uno dei posti più umidi d’Europa, quasi mai baciato
dal sole, isolato dalle fredde acque dell’oceano.
Riaprì
il libro alla pagina dove aveva lasciato il segno e cominciò a leggere,
aspettando con ansia il momento in cui avrebbe conosciuto i suoi nuovi compagni
di corso… chissà se fra quelli non ci fossero stati anche qualche ragazza o
ragazzo con cui intraprendere una nuova storia a breve termine. Calcolando
quante se ne era lasciate alle spalle in appena ventisei anni di vita, in
quell’arco di tempo era certo sarebbe riuscito a racimolare qualcosa. D’altronde
in quel campo si era sempre considerato un esperto; ed effettivamente lo era
davvero. A quel pensiero un sorriso malizioso gli piegò le labbra mentre
mormorava fra sé:
–
Non c’è fretta.. –
–
Buongiorno Arthur. – Il giapponese si sporse verso l’inglese salutandolo
cordialmente.
–
Ah, buongiorno Kiku. – Rispose l’altro, non avendolo notato prima.
–
Allora, sono arrivati i ragazzi stranieri? –
Il
giapponese distese le braccia lungo il corpo, inclinando leggermente la testa
da un lato.
–
Stanno per arrivare. L’appuntamento con il loro gruppo era alle nove, e mancano
pochi minuti ormai. –
L’inglese
non rispose. Si limitò a sedersi su una delle tante sedie che occupavano
ordinatamente entrambi i lati dell’ampio corridoio, fissando il pavimento.
–
Va tutto bene, Arthur? – Domandò il giapponese con apprensione. – Hai l’aria
esausta –
–
Non è niente. Sto bene. – Sospirò e alzò lo sguardo verso l’altra figura di
fronte a sé. – Allora…ripetimi un attimo i dettagli. Sono..quanti, cinque? –
Il
giapponese assentì – Sì. Vengono tutti da paesi diversi. Sono sicuro di
ricordare ci sia un italiano e una ungherese ma..gli altri non saprei. – Si
sedette accanto al compagno di corso. – Visto che l’appuntamento era in
cortile, forse dovremmo scendere.. –
L’inglese
annuì debolmente, quindi si tirò in piedi. Quella mattina non avrebbe di certo
fatto amicizia. Non era solo che non ne avesse voglia, quanto anche il fatto
che, di quell’umore, sarebbe stato sicuramente intrattabile e avrebbe finito
con l’irritare qualcuno. D’altronde, coi pensieri che si concentravano su
tutt’altro, non gliene importava neanche un granché. Il fatto che non fosse mai
stato fortunato nelle amicizie e nelle relazioni interpersonali era per lui un
dato ormai assodato.
Percorse
il corridoio e le scale, raggiungendo infine il cortile interno insieme al
giapponese e i due trovarono nel luogo dell’appuntamento anche altri ragazzi
del loro corso che, come loro, avrebbero dovuto dare il benvenuto ai nuovi
studenti stranieri. La durata dell’Erasmus era fissata generalmente a un anno.
Allo scadere di quell’arco di tempo molti ragazzi, tra i quali lui stesso, si
sarebbero laureati; mentre gli studenti stranieri sarebbero tornati nel loro
paese per presentare la loro tesi e laurearsi a loro volta. Sembrava tutto
molto interessante, e per un attimo provò una certa amarezza pensando che il
suo potenziale entusiasmo per quell’esperienza non potesse accendersi per via
di quella stramaledetta lettera che aveva ricevuto da quell’idiota di Alfred.
Non gli andava giù il fatto di considerarlo al punto da fargli distogliere la
concentrazione dai suoi impegni quotidiani, ma non riusciva ad impedirlo.
Liberò
la mente da quei pensieri nel momento in cui ricevette una leggera gomitata sul
braccio da uno dei suoi compagni che cominciò ad indicargli i nuovi studenti
stranieri che si avvicinavano attraverso il cortile. Tre ragazzi e due ragazze.
Li osservò uno per uno: attirò per primo la sua attenzione il giovane dai
capelli chiari, quasi albini, che avanzava con passo sicuro, le mani nelle
tasche dei jeans e un ghigno sbarazzino stampato sul volto. La ragazza che gli
stava accanto era invece molto più raffinata nei movimenti, con dei lunghi
capelli castani e dei lineamenti delicati. L’altra ragazza dava l’impressione
di essere meno socievole, soprattutto con quei lunghissimi e liscissimi capelli
che le ricadevano quasi davanti al viso; aveva uno sguardo determinato e
alquanto fiero. Tutto il contrario sembrava invece il secondo dei due ragazzi,
il quale avanzava con un sorriso sincero, quasi saltellando dall’entusiasmo. E
infine l’ultimo del gruppo su cui gli cadde lo sguardo: a prima vista sembrava
proprio il classico “bel tipo” degli ambienti universitari: alto, sinuoso,
biondo e con occhi chiari, un pizzetto ben curato che mostrava con sicurezza.
Quando
si unirono al loro gruppo aveva appena finito di osservarli, e ci fu un
generale giro di saluti, vaghe strette di mano e sorrisi dalla cui pratica si
tenne però distante.
Dopo
i primi attimi di confusione cominciarono delle ordinate presentazioni, che
partirono da Roderich, Feliks e Kiku per giungere infine a lui. Pronunciò il
suo nome debolmente, quasi gli pesasse il doverlo fare, senza neanche
aggiungere una qualche frase di circostanza come “Piacere di conoscervi” oppure
“Com’è andato il viaggio?”. In realtà si sorprese lui stesso per il grado di
apatia con cui si era presentato, forse troppo sgarbato per un primo incontro.
Almeno non fu costretto a pensarci troppo su visto che i ragazzi stranieri
iniziarono a loro volta a presentarsi senza dare troppo peso al suo
disinteresse.
Gilbert,
Elizabeta, Natalia, Feliciano e Francis. Questi i nomi dei suoi nuovi compagni
di corso.
Il
gruppo rimase diversi minuti nel cortile a chiacchierare, scherzare, continuare
con presentazioni più approfondite…il tempo per svagarsi però era ormai finito
in quanto la maggior parte di loro di lì a poco avrebbe iniziato le lezioni
della mattina. Kiku propose quindi, a chi fosse interessato o ne avesse la
possibilità, di ritrovarsi più tardi, per pranzo. Per quel che lo riguardava
già sapeva che avrebbe trascorso il resto del suo tempo dopo le lezioni
soprattutto in biblioteca, dove non sarebbe stato disturbato. Un po’ di pace, e
in realtà solitudine più di ogni altra cosa, era quello che stava cercando in
quel momento.
Mentre
il gruppo entrava nell’edificio salendo le scale, Roderich, suo compagno di
corso da sempre, stava spiegando ad alcuni come raggiungere le aule dove si
sarebbero svolte le loro nuove lezioni.
–
Questo posto sembra enorme! – Esclamò l’italiano mentre si guardava intorno
entusiasta.
–
Oh bé, in realtà, tipo, lo è davvero! Cioè, io mi ci perdevo ancora dopo mesi!
– Gli rispose Feliks.
Giunti
nel corridoio il gruppo si separò visto che molti dovevano raggiungere luoghi
diversi.
–
Allora, a voi conviene proseguire qui a sinistra e giungere fino alle scale. Da
lì se scendete un piano vi troverete l’aula B esattamente di fronte. – Spiegò Kiku
a Gilbert, Elizabeta e Feliciano. Questi ultimi ringraziarono per
l’informazione e si recarono nella direzione indicatagli insieme a Roderich e
Feliks.
Il
giapponese si voltò quindi verso quelli rimasti – Per noi è meglio di qua. – E
indicò il lato opposto, verso il quale li invitò ad incamminarsi.
–
Che lezione avreste voi adesso? – Domandò disinibito il francese mentre,
continuando a camminare, si levava la giacca.
–
Io adesso devo frequentare “Anglistica e Americanistica”. Voi? – Chiese Kiku.
–
Ah, io avrei…aah, come si chiamava? Qualcosa come “La poetica e la narrativa di
Poe nella letteratura successiva”. – Rispose il giovane biondo passandosi una
mano tra i capelli.
–
Oh, ho capito. Allora quando arriviamo alle scale a voi due conviene salire. –
Disse Kiku affacciandosi verso l’amico inglese e Francis – Tu Arthur, hai il
corso di epoca vittoriana se non sbaglio, vero? –
La
domanda svegliò l’inglese dal suo torpore. Non aveva fatto molto caso a quello
che avevano detto fino a quel momento.
–
Mh? Ah, sì..certo. Aula venti. – Dopo aver completato la frase notò con la coda
dell’occhio che il francese gli aveva lanciato un’occhiata curiosa. La cosa non
lo infastidì più di tanto, pensando che un atteggiamento del genere avrebbe
impressionato anche lui fosse stato nei suoi panni.
Si
limitò ad abbassare lo sguardo, mentre procedevano per i corridoi.
–
Comunque, devo farvi i complimenti. Parlate tutti molto bene. – Affermò Kiku
sorridendo ai due ragazzi dell’Erasmus, anche se da parte della giovane Natalia
si erano percepite appena poche parole durante la presentazione.
–
Ahah, davvero? Merci⁽²⁾. – Rispose il francese.
Il
gruppo si arrestò nel momento in cui si avvicinarono alle scale. Dovevano
prendere direzioni diverse.
–
Io devo raggiungere l’aula cinque. – Disse la ragazza, rivolgendosi al
giapponese.
–
Allora ti accompagno. È qui vicino, su questo piano. – Poi si voltò verso gli
altri due – Voi invece salite per di qua, quindi..vi saluto. Se volete ci
vediamo a pranzo, va bene? – E li salutò con un cenno della testa mentre si
avviava lungo il corridoio con la giovane bielorussa accanto. Il francese
ricambiò con un gesto della mano, mentre l’altro lo osservò allontanarsi in
silenzio.
Senza
neanche aspettare che il francese finisse di congedarsi cominciò a salire le
scale.
–
Ah, aspetta! – esclamò Francis affrettandosi sulle scale per raggiungerlo.
L’inglese voltò leggermente lo sguardo verso di lui.
–
Scusa. È che ho lezione. –
–
Oh bé, anch’io…e a proposito, non mi ricordo quale fosse l’aula… –
–
Hai detto che era il corso di Poe, giusto? – Domandò Arthur mentre iniziavano
la seconda parte della rampa di scale che separava il primo dal secondo piano.
–
Oui⁽³⁾.
– Rispose l’altro con naturalezza mentre l’inglese gli lanciava un’occhiataccia
per via del francesismo utilizzato. Non sopportava quella lingua, così come non
sopportava i francesi. Ma doveva sforzarsi di mantenere un atteggiamento
bendisposto; quel ragazzo era pur sempre un ospite della loro università, e se
era lì una borsa di studio l’aveva vinta e pertanto meritava un minimo di
rispetto. Persino da parte sua.
–
Allora sei al secondo piano. Tra l’altro sono quasi sicuro che l’aula della
lezione sia la G. Comunque quando arrivi su chiedi conferma a qualche altro
ragazzo. –
Arrivarono
a completare le scale proprio quando l’inglese concluse con le spiegazioni. Si
arrestò un attimo, voltandosi a guardare il francese, ma prima che potesse dire
qualcosa venne preceduto dall’altro.
–
Arthur..giusto? – Domandò in tono retorico – Ci sarai anche tu più tardi? –
–
Eh? – L’inglese rimase leggermente sorpreso da quell’interrogativo che non
aveva niente a che fare con quello di cui avevano parlato fino a quel momento.
–
..no. Direi di no. Ho piuttosto da fare. – Rispose in tono fermo.
–
Mh, capisco. – Sembrava quasi deluso dalla risposta ricevuta.
Dopo
qualche attimo scrollò le spalle tirando un sospiro – Allora…ci vediamo in
giro. Grazie delle dritte. – Disse lasciandolo con un cenno della mano e
strizzando un occhio.
L’inglese
rimase a fissarlo andare via ancora per qualche secondo, osservando la sua
camminata elegante e sicura. Quindi gli voltò anch’egli le spalle e riprese a
salire le altre scale che lo attendevano per raggiungere l’ultimo piano
dell’edificio, cercando di non sprofondare di nuovo nei suoi pensieri solitari e
di non lasciarsi distrarre dal rancore che si trascinava dietro, consumandolo
di più ad ogni gradino che saliva.
Kiku
diede uno sguardo al cellulare che estrasse dalla tasca dei pantaloni. Segnava
le due passate. Non sarebbe sicuramente arrivato. Sospirò dentro di sé mentre osservava
gli altri intorno al tavolo della mensa al quale si erano seduti ridere e
scherzare come se si conoscessero da sempre. L’unica cosa spiacevole è che era
proprio l’unico ad essere assente, quasi a significare fosse il solo a cui non
importasse un granché di accogliere in maniera appropriata i nuovi arrivati. Forse è più impegnato del solito. Anche se..
Richiuse
il libro di fronte a sé, il quale emise un suono tonfo, muovendo una certa
quantità d’aria intorno, per via della pesantezza del volume. Si coprì il viso
con i palmi delle mani, rilassandosi per qualche secondo. Ormai era da dopo le
lezioni della mattina che era lì in biblioteca a studiare e raccogliere
materiale. Diede uno sguardo all’orologio da polso: erano le cinque e mezzo.
Non pensava di aver fatto così tardi.
Si
stiracchiò silenziosamente, per non disturbare gli altri studenti che ancora
studiavano, quindi si alzò, portando con sé i libri che aveva utilizzato e
raggiunse gli scaffali dove li aveva trovati, riponendoli al loro posto. Poteva
udire lo scroscio della pioggia sul tetto della biblioteca e sull’erba del
giardino che circondava l’edificio, e rimase in ascolto di quel bel noto
sottofondo per qualche secondo.
Sistemò
meglio la tracolla sulla spalla e si diresse verso l’uscita mentre estraeva
dalla tasca della giacca il cellulare. Era solito tenerlo sempre spento in
biblioteca, e perciò lo riaccese per controllare eventuali messaggi o chiamate.
Quando superò la porta d’uscita della biblioteca immettendosi nel grande
portico gli arrivò un messaggio. Era da parte di Kiku: Francis mi ha detto che eri impegnato. Peccato! Ci vediamo domani.
Già.
Il pranzo con gli altri che aveva saltato.
Sospirò
internamente riponendo nella tasca il cellulare e aprendo in seguito la borsa
per estrarne l’ombrello. Accidenti, diluvia alla grande…e fa pure
freddo. Pensò fra sé lamentandosi. Non riusciva a trovare quel maledetto
ombrello nella borsa, quindi provò a cercarlo con maggiore attenzione,
sfilandosi la tracolla. Possibile? Non riusciva a crederci neanche lui, aveva
proprio lasciato l’ombrello a casa.
Certo,
quella mattina, per come aveva la testa e l’umore, sarebbe stato in grado di
scordarsi anche qualcosa di più importante, però..adesso si sarebbe davvero
inzuppato. Gli venne una gran voglia di prendere a calci qualcosa, ma si
trattenne limitandosi a sospirare profondamente con aria di rimpianto. Non che
ci fossero molte altre possibilità visto che a casa doveva tornarci per forza. Stava
già per levarsi la giacca, per usarla come copertura dalla pioggia, che una
voce alle sue spalle gli si rivolse, scherzosa:
–
Serve una mano? –
Si
voltò lentamente, osservando la figura del giovane francese di quella mattina.
Aveva un sorriso affabile sul viso, e anche se ancora non avevano lasciato il
portico teneva in mano l’ombrello aperto allungandolo verso la sua testa, quasi
a cercare di proteggerlo da tutta la pioggia che altrimenti avrebbe preso.
Rispose solo dopo lunghi secondi di attesa e in tono vago.
–
..ah..no..cioè, non fa niente.. –
L’altro
si lasciò andare ad una garbata risatina divertita.
–
Ehehe questo sì che è uno spettacolo insolito: un inglese senza ombrello. –
–
Sì..immagino tu abbia ragione. – Rispose condividendo l’incredulità del
francese davanti a un episodio del genere. Si risistemò la tracolla sulla
spalla.
–
Dai, ti accompagno io. – Propose l’altro avvicinandosi e concedendo all’inglese
metà del suo ombrello.
–
No! Voglio dire, non importa. Tu pensa ad andare, io me la caverò lo stesso.
Non piove poi…così tanto. – Pronunciò l’ultima frase con un certo sconforto
visto che gettando uno sguardo alla pioggia la vedeva cadere sempre più fitta.
–
Ma se diluvia! – Rispose l’altro leggermente stupito dai suoi tentennamenti. –
Tranquillo, non è un problema. – E così dicendo lo afferrò per un braccio,
trascinandolo con sé verso il giardino dal quale avrebbero lasciato il complesso
universitario.
–
Ehi, a-aspe.. – Non finì neanche di lamentarsi che già si ritrovò a camminare
insieme a lui sotto l’ombrello.
Fu
colto da un certo senso di colpa. Non era stato esattamente gentile con lui
quella mattina, eppure adesso aveva ricevuto un grande favore. In quel momento
rimproverò se stesso per essere stato così maldisposto nei suoi confronti.
–
…grazie. – Disse timidamente, abbassando lo sguardo.
Il
francese per tutta risposta gli rivolse un ampio sorriso. – Figurati. – e
continuò dopo una breve pausa:
–
Abiti lontano? –
–
No. Sto a due isolati dall’università. –
–
Oh, perfetto! Allora ti porto fino a casa. –
–
Scherzi? Va benissimo anche se mi lasci appena fuori dal complesso, il resto
posso farlo da solo. – Rispose cercando di non approfittare ulteriormente della
disponibilità del giovane.
Francis
scosse la testa con aria disinvolta, rispondendo ironicamente.
–
Se ti lascio tornare sotto la pioggia ti prenderai una polmonite. Preferisco
portarti fino a casa. –
Arthur
si voltò a fissarlo per qualche istante.
–
Non mi va di approfittarne e poi essere in debito. –
Il
francese a quella affermazione scoppiò in una sincera risata.
–
Ahahah non preoccuparti! Se è quello il problema, sappi che non ti chiederò
nulla in cambio. – E ammiccando gli fece l’occhiolino. L’inglese non riuscì a
replicare con nulla di convincente, e quindi decise di lasciargli vincere la
disputa e approfittare completamente della cortesia.
Rimasero
diversi secondi, che parvero interminabili, senza parlare, mentre lasciavano ormai
il complesso universitario. Fu inaspettatamente Arthur ad intraprendere una
conversazione.
–
Parli molto bene inglese. Sei bravo. Sono sicuro che non avrai difficoltà con
le lezioni e gli esami. –
Il
francese gli rivolse uno sguardo meravigliato – Oh, lo pensi davvero? Eheh,
grazie mille allora. –
–
È la tua prima volta a Londra? – Domandò l’inglese che era insolitamente in
vena di chiacchierare.
–
A dir la verità no. Mi è già capitato di venire qui…anche se non era per motivi
di studio.. – Fece una breve pausa – Dove giriamo, a destra o a sinistra? – Domandò
indicando col dito l’incrocio a pochi metri di distanza. – Qui a destra, poi la
terza a sinistra e quindi sempre dritto. – Rispose l’altro mettendosi le mani
in tasca per il freddo che si faceva più pungente. – D’accord⁽⁴⁾.
–
L’inglese
evitò commenti sul suo rinnovato francesismo e decise invece di continuare ad
interrogare il suo nuovo compagno di corso.
–
Tu e gli altri dove alloggiate? –
A
quella domanda il francese rivolse lo sguardo verso l’alto, quasi si stesse
concentrando per ricordare la risposta esatta. – Bé…in realtà non siamo tutti
esattamente vicini..Elizabeta e Natalia condividono un appartamento vicino alla
stazione con un’altra studentessa. Gilbert viene ospitato gratuitamente da un
suo amico che abita in periferia, mentre io e Feliciano per adesso alloggiamo
nel dormitorio universitario. –
L’inglese
ascoltò con attenzione; gli appartamentini del dormitorio ai quali faceva
riferimento erano probabilmente quelli con tariffe agevolate, o in certi casi
addirittura gratuiti, riservati a studenti-lavoratori e borsisti.
–
Aspetta, ma allora tu ti stai allungando tantissimo! Ti bastava attraversare la
città universitaria ed eri già a casa! – Esclamò realizzando quanto avesse
scomodato l’altro giovane.
–
Aaah, ma avevo detto che non era un problema, no? Smetti di preoccuparti e fa’
piuttosto attenzione a non bagnarti. – Rispose l’altro tirandolo per un braccio
più verso sé, per impedire che la pioggia che gocciava dall’ombrello lo
inzuppasse sul lato esterno. – Di qua, no? – Chiese conferma.
–
S-sì.. – Rispose incerto, non essendo riuscito a ribattere nulla. Rimase poi in
silenzio, aspettando che il semaforo per il passaggio pedonale diventasse
verde.
Il
suo entusiasmo per la conversazione si era ormai affievolito e si trovava già a
corto di argomenti da proporre. Osservò le incessanti gocce di pioggia colpire
con violenza l’asfalto a poca distanza dai suoi piedi, per poi disperdersi in
un’infinità di goccioline invisibili. Aveva visto abbastanza pioggia nella sua
vita per essere quasi certo che non avrebbe smesso fino alla mattina
successiva. Almeno avrebbe avuto un sottofondo di compagnia quella notte, nel
caso non fosse di nuovo riuscito a dormire...per un attimo l’immagine della
lettera che aveva lasciato nel cestino riapparve nella sua testa come
un’insegna luminosa. Scacciò quel pensiero stringendo con forza le palpebre
sugli occhi, calando per qualche secondo nell’oscurità. Avrebbe fatto i conti
con se stesso e il suo risentimento più tardi, adesso voleva solo godersi
quegli ultimi momenti di distrazione e vita sociale prima di ritirarsi
nuovamente nel suo misero, buio e freddo appartamento. Nel momento in cui tornò
con lo sguardo all’esterno il semaforo si fece verde, e i due ripresero a
camminare fino a raggiungere l’altro lato del marciapiede e continuare quindi
per dritto, nella direzione indicata dall’inglese.
Lungo
la via si respirava un’aria balsamica di erba umida, mentre era scomparso il
vociare di bambini che di solito giocavano per la strada a quell’ora della
sera, e che accompagnava quasi sempre il suo rientro dall’università.
Notò
con la coda dell’occhio che il francese si guardava intorno incuriosito. Poi
incrociò il suo sguardo quando si voltò verso di lui. – Sembra carino qui. –
Disse sorridendo.
L’inglese
annuì col capo. – Sì, non è male. Se non altro è molto tranquillo. – Emise un
debole sospiro, poi tirò fuori la mano destra dalla tasca dei pantaloni e col
dito indicò qualcosa poco distante. – Quella lì è la mia. – Il francese cercò
di seguire la traiettoria segnata dall’indicazione dell’altro, ma non riuscì a
trattenere una leggera risata.
–
Ahah, ho sempre pensato come facciate voi inglesi a mantenere il senso
dell’orientamento con queste case assolutamente identiche tutte in fila. Non
entrate mai nell’appartamento sbagliato? –
Arthur
non rispose all’umorismo del francese con altrettanto spirito e gli lanciò
un’altra delle sue occhiatacce. – Ma che dici? Come fai a sbagliarti? Vuoi
dirmi che non riconosceresti casa tua? – E sbuffò rumorosamente lasciando
intendere il suo disappunto, il quale tuttavia non sembrò intaccare il buon
umore dell’altro. – Terraced House⁽⁵⁾ eh?.. – Sembrò canticchiare tra sé
il francese, senza preoccuparsi delle critiche del giovane a fianco.
Arrivarono
all’altezza della sua abitazione e ne salirono i pochi gradini che li
separavano dall’entrata. Il francese approfittò della tettoia della porta per
spostare da un lato l’ombrello, chiudendolo per metà. Quindi si voltò verso
l’inglese che nel frattempo aveva estratto dalla borsa le chiavi di casa.
–
Grazie. Sei stato gentile. –
L’altro
sorrise. – Domani hai lezione? – Chiese con aria di aspettativa.
–
..sì. Ho due lezioni da seguire nel pomeriggio. –
–
Io ho di nuovo il corso su Poe e “Storia Inglese”. –
–
Anch’io ho “Storia Inglese” domani. – Rispose Arthur iniziando a giocherellare
con le chiavi.
–
Ah, bene. Allora ci vedremo domani insieme agli altri. –
–
Suppongo di sì. – C’era stata una leggera indifferenza nel tono con cui si era
espresso.
Forse
l’altro non ci fece troppo caso visto che dopo un rapido sguardo riaprì
completamente l’ombrello e gli diede le spalle, scendendo i gradini fino a
raggiungere l’asfalto del marciapiede.
Un
nuovo senso di colpa attraversò l’inglese che si era mostrato probabilmente
troppo scostante nei suoi confronti, soprattutto dopo aver approfittato tanto
della sua disponibilità. Cercò quindi di rimediare come poteva, ringraziandolo
a gran voce, nella speranza che le sue parole lo raggiungessero oltre lo
scrosciare della pioggia.
–
Grazie per avermi accompagnato! Mi dispiace di averti fatto perdere tempo.. –
Esitò nell’ultima parte della frase, come se l’avesse lasciata in sospeso.
Il
francese si arrestò, voltandosi repentino quando gli giunse il ringraziamento dell’inglese
che lo fissava dalla porta di casa. Sollevò una mano in segno di saluto.
–
E’ stato divertente. E poi, adesso posso dire di sapere dove abiti. – Rispose
ammiccando nuovamente, e senza aspettare una risposta da parte di Arthur, si
voltò e ricominciò ad incamminarsi sotto la pioggia che, impietosa, continuava
a cadere intensamente.
L’altro
lo fissò allontanarsi, rimanendo con la bocca socchiusa, incerto.
Si
rivolse infine alla porta di casa, infilando la chiave nella serratura.
Spalancò la porta e nell’entrare si sfilò la borsa che buttò pigramente da un
lato, mentre con l’altra spingeva la porta dietro di sé, per farla chiudere.
Davvero uno strano tipo…
Avanzò
nell’appartamento, evitando intenzionalmente di lasciar cadere lo sguardo sul
cestino posto vicino all’ingresso. Deciderò
io quando meriterai la mia attenzione.. pensò tra sé, lasciandosi l’uscio
di casa alle spalle.
⁽¹⁾ acronimo di European Region Action Scheme for the Mobility
of University Students, sancisce la possibilità
di uno studente universitario europeo di effettuare in una università
straniera un periodo di studio legalmente riconosciuto dalla propria
università.
⁽²⁾
“Grazie”, in francese.
⁽³⁾ “Sì”,
in francese.
⁽⁴⁾
“D’accordo”, in francese.
⁽⁵⁾ “Casa a
schiera”, è una tipologia di abitazione caratterizzata dall'accostamento di
più unità abitative, una a fianco dell'altra. La singola
unità abitativa presenta in genere un fronte stretto per svilupparsi in
profondità e in altezza su più piani. Presenta spesso un orto o un cortile
retrostante e internamente una scala può portare ai piani superiori. Generalmente
è una casa monofamiliare.
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