Eccezioni
La mia vita, in fin dei
conti, non è stata poi
così deludente.
Mi piace pensare che a
dirlo non ne sono capace solo perché
non ho mai conosciuto di meglio: in qualche modo, cerco sempre di
convincermi del fatto che se lo dico, è perché
è quello che penso davvero.
Non ho mai avuto
bisogno di nessuno, perché mai nessuno ha
avuto bisogno di me. Può sembrare patetico, ma come
può esserlo per qualcuno che non ha mai conosciuto
alternativa? E' così, io sto bene al pensiero che nessuno fa
di me una necessità, sto bene al pensiero di non essere, io,
una priorità per nessuno.
Nel mio secondo piano,
nel mio angolo da retroscena, io, in fin dei
conti, sto bene.
E' difficile concepire
l'idea di essere importante per qualcuno e non
vorrei mai esserlo: non vorrei mai esserlo.
Sarebbe un tale peso
sapere che qualcuno tiene a me, realizzare che
qualcuno, in fondo, s'interessa di me.
Dico sul serio, non
vorrei mai saperlo.
Anche se - io cerco di
scordarlo o comunque non prendo mai in
considerazione quella breve eccezione, sia chiaro - una volta, una
volta sola, credo di poter dire, senza pretesa alcuna, di essere stato
anche io
importante per qualcuno.
Ed è buffo
pensare che, come lui lo è per me, per
quella persona io ora non sono che una breve, ambigua eccezione.
Anche se sono suo
fratello.
Anche se è
mio fratello.
D'altronde quella
parentesi è durata poco, soltanto sei
anni, perché poi lui ha scelto la sua via e io ho
proseguito, di reazione, per la mia.
Lui, per un bambino di
sei anni, non poteva essere altro che un punto
di riferimento, e credo che per lui io sia stato lo stesso, per breve
tempo, sì, ma penso io lo sia stato.
D'altronde come
potevamo non esserlo?
Eravamo noi due, chi
altri c'era? I nostri genitori, troppo occupati a
vedere in noi, fin dal nostro primo giorno sulla Terra, la proiezione
distorta di noi, adulti dai sentieri già tracciati, dai
pensieri già programmati?
No, quale importanza
potevamo avere noi per loro?
Nessuna, nessuna
davvero.
Ma dopotutto andava
bene fingere di rientrare in quei limiti, fin
tanto che noi eravamo insieme.
Andava bene, andava
bene per me.
Ma, adesso sono
arrivato a credere, penso non andasse altrettanto per
lui.
C'è una
fase, tra l'essere grande e l'essere bambino, in cui
si crede di essere grandi, e paradossalmente avviene esattamente quando
si comincia a prendere coscienza dell'essere piccoli: questa fase, io
credo, è essenziale.
E proprio quella parte
di bambino che offuschiamo fingendoci adulti,
alla fine, la si porta poi sempre in grembo, fino alla vecchiaia, la si
porta sempre
con noi.
Ed è
essenziale. E' tutto.
Cerca sempre di
prendere il sopravvento: è quella che ci
rende egoisti, quella che ci fa sentire amati, è
ciò che ci spinge ad amare e ciò che ci porta a
sentire intimamente la necessità che gli altri abbiano
bisogno di noi: ed è la stessa parte di noi che ci fa
soffrire se si scopre che nessuno ne ha.
Lui l'ha passata quella
fase, aveva sette anni, e ha creduto di essere
diverso dagli altri: ha, ingenuamente, pensato di essere diverso dai
nostri genitori e, come se io non fossi altro che una loro esile
appendice, ha creduto di essere diverso anche da me: ha voluto essere
grande, nel timore di essere piccolo. Ed ha, questa sua convinzione,
come accade sempre, modellato il suo carattere, il suo futuro, la sua
essenza.
E la mia.
Se lui ha creduto di
essere grande, io, allora, lo sono diventato.
Perché per
me è stato diverso, io non ho passato
quella fase in cui ci si crede adulti, io non ho mai realizzato di
essere bambino: ho cominciato ad essere grande quando lui ha creduto di
esserlo, quando lui ha compreso la tenera età della sua
anima e ha cercato di nasconderla, anche se poi la si porta ugualmente
dentro.
Lui ha cancellato,
prima ancora che giungesse, il momento in cui avrei
realizzato di essere anch’io bambino.
E sono rimasto solo,
quando lui ha deciso che sarebbe stato diverso,
grande, quando lui mi ha assegnato il falso ruolo di trascurabile
accessorio dei nostri genitori, e se solo mi avesse concesso di essere
egoista, di voler essere adulto, di voler essere diverso anche io,
adesso, forse, mi sarei sentito importante, avrei avuto bisogno di
qualcuno che mi amasse: avrei sofferto per la mia scelta[1].
Ma lui mi ha reso
adulto, senza finzione, senza possibilità
di scelta, perché ho dovuto farlo, perché quando
si resta soli a quell'età si diventa adulti per forza: lui
mi ha privato dell'altra
fase senza che me ne rendessi conto, e di me ora non resta che un
adulto senza sogni, senza bisogni, con il nulla in una mano e il metallo[2]
nell'altra.
Forse, però,
dovrei dirgli grazie.
Perché non
sento ora la sofferenza dell’amore, la
voglia di essere piccolo: è solo un diffuso vuoto che mi
sento dentro, la mancanza di qualcosa.
Anche se non so che
cosa.
Ma è sempre
meglio del dolore, credo.
In ogni caso, gli
auguro solo, mentre io metto a tacere questo adulto
stolto e freddo che resta di me, di non perdere mai la sua parte di
bambino, quella che si nasconde sotto il mantello quando ci si rende
conto di esserlo, perché se mai non la trovasse
più, non sarebbe ancora amato, non amerebbe mai.
Non sarebbe
più capace di essere egoista.
Forse non dovrei
augurarglielo, forse non lo merita: in effetti,
suppongo di no.
Ma ho come la strana
sensazione che, forse, in quella sua parte di
bambino, in fondo in fondo, ci sia anche un pezzo della mia.
E, se esiste, non
voglio che vada persa.
Voglio che provi gioia,
che sia egoista, che viva,
anche se
solo
dentro di lui.
E anche se vorrei non
averla mai persa.
E anche se vorrei,
almeno una volta, sentirne il calore.
Anche solo una volta.
[1]La scelta del
sacrificio.
[2]Il
medaglione.
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