Aveva 10 anni quando il destino gli portò via una delle
persone più importanti della sua vita.
Jörg era andato, come tutte le mattine, a lavorare con la sua
solita giacca grigia e la cravatta gialla, la sua preferita. Ricordava
che il padre fischiettava quella mattina di Novembre e che, quando era
salito in macchina, si era voltato a guardarlo e gli aveva sorriso.
« Ci vediamo stasera, campione! »
Ma quella sera non era rientrato. Al posto suo, sua madre Simone si era
trovata davanti due agenti di polizia e aveva subito capito che qualcosa non era
andato per il verso giusto.
Jörg aveva avuto un incidente che gli era costato la vita e
Simone aveva iniziato ad urlare e a dimenarsi mentre un agente cercava
di tenerla su.
Ricordava ancora che lui teneva fra le mani un mattoncino lego giallo,
perché stava costruendo una casa e voleva farla vedere al
suo papà appena sarebbe tornato dal lavoro.
Ma sollevò lo sguardo e anche lui vide i due uomini in
divisa.
Si alzò di scatto e corse incontro alla madre che a fatica
si reggeva in piedi e la tirò via, chiedendole cosa le
stessero facendo quei due.
Simone l’aveva semplicemente stretto fra le sue braccia
reprimendo dei singhiozzi che avrebbero fatto preoccupare ulteriormente
suo figlio.
A quel punto si limitò a guardarlo negli occhi, con i suoi
arrossati e traboccanti di lacrime.
Gli accarezzò le guance e i capelli corti e biondi.
« Cos’è successo, mamma? »
Simone avrebbe preferito non rispondere a quella domanda.
Nessuno aveva mai visto Simone in quelle condizioni. La dovevano
sorreggere in tre ma nessuno era capace di raccogliere
l’enorme dolore che il suo cuore stava sanguinando.
Un corteo di voci che mormoravo un sentito
“condoglianze” si snodava dentro e fuori la casa
che di vitale ormai aveva ben poco.
Sulle sue guance si depositavano pizzicotti o umidi bacetti seguiti da
sorrisi abbozzati o da ulteriori carezze sul suo capo biondo.
Aveva sentito la vecchia zia Margaret dire: « Per il bambino
era una figura importante. ».
Non capiva il perché di tutto quel movimento lento a casa
sua e tantomeno riusciva a capire perché sua madre
l’avesse vestito in giacca e cravatta.
Lui le aveva chiesto espressamente di mettergli quella gialla uguale a
suo padre ma Simone non l’aveva ascoltato, assorta nei suoi
pensieri.
Gli aveva invece rivolto un sorriso.
« Dov’è papà? »
Lei sospirava e abbassava lo sguardo, sapendo di dover dare sempre la
stessa risposta al figlio.
« E’ andato via per un po’, Tom.
»
Quel “è andato via per un po’”
non aveva un vero e proprio significato alle orecchie del bambino, che
aveva tenuto la casetta dei Lego e l’aveva riposta su una
mensola in modo da farla vedere al padre. Perché era sicuro
che Jörg sarebbe tornato a casa.
Il punto era che non capiva perché sua madre avesse
perennemente un fazzoletto bianco sul viso e perché ci fosse
così tanta gente vestita di nero.
Insomma, l’unica cosa colorata sembravano essere le sue Nike
bianche e celesti.
No, Simone non si era accorta del cambio di scarpe che aveva fatto suo
figlio, ma le altre erano troppo strette e poi a Tom piacevano quelle
scarpe.
Si sedette sull’altalena che suo padre gli aveva fatto con
una grossa gomma e iniziò a dondolarsi lentamente.
Il cielo sulla sua testa era grigio e oscurava il sole californiano, e
non c’era gusto a stare da solo su un’altalena
mentre tutti gli altri entravano per salutarti e riuscivano.
Tom sentì dei passi scricchiolare sul terreno e alla sua
destra vide Kay, sua cugina.
Non poteva capire come fossero imparentati, visto che lei aveva i
capelli rossi e gli occhi verdi e lui invece i capelli biondi e gli
occhi scuri.
« Ciao. » lo salutò.
Lui si voltò dall’altra parte. Lo riteneva un
saluto.
« Come stai? »
Fece spallucce.
« Bene. »
Kay fece altri tre passi avanti, con le mani unite in grembo, sul suo
vestitino blu scuro.
« Mi dispiace. »
« Per cosa? »
« Per tuo padre. »
Tom sollevò lo sguardo sul cielo e poi lo
abbassò, iniziando a contare i filicini di erba sotto i suoi
piedi penzolanti.
« Non preoccuparti, tornerà presto. »
« Mia mamma dice che se ti serve qualcosa, puoi venire da noi
a Portland. »
« Los Angeles mi piace. » scrollò le
spalle.
Kay si avvicinò di nuovo e gli prese una mano, per poi
dargli un piccolo bacino sulla guancia.
Tom arrossì e si voltò a guardarla.
« Perché l’hai fatto? »
Kay scrollò le spalle, con un mezzo sorriso. I suoi grandi
occhioni verdi che fissavano Tom con insistenza.
« Mi andava. »
Tom corrugò la fronte, stranito.
« Anche a me andrebbe di togliermi questi vestiti, ma la
mamma si arrabbia. »
« Tu sei arrabbiato? »
« No. »
« Allora non trovo nessun problema. Mi andava. »
Kay era del tutto fuori di testa, pensò Tom.
« Devo dartene uno anche io? » domandò.
La cugina alzò e abbassò le spalle, mantenendo il
suo sorrisetto che le formava due piccole fossette sulle guance.
« Solo se ti va. »
Tom si voltò dall’altra parte. Con una mano
strinse ulteriormente la corda dell’altalena mentre
l’altra restava immobile sotto la presa di Kay.
Scese dall’enorme gomma, riuscendo così a far
spostare la bambina, che non sorrideva più.
Tom la superava in altezza, nonostante Kay fosse più grande
di lui di un anno.
Si strinse nelle spalle, abbassando lo sguardo sul vestito vellutato
della bimba.
Poi inspirò profondamente e le baciò le labbra
rosee. Sapevano di fragola, ma non fece troppa pressione
perché Kay si scansò quasi subito. Era tutta
rossa.
« Ma che fai?! »
« Hai detto che potevo baciarti se mi andava. »
« Ma sulla guancia! »
« E che differenza fa?! I grandi lo fanno! Anzi.. loro vanno
anche oltre. »
Kay abbassò lo sguardo.
« La mamma dice che si bacia sulla bocca solo quando si
è innamorati. »
Tom scoppiò a ridere, con la sua solita risata vivace e
allegra.
« Ma nei film si baciano e non si amano! »
Kay rimase interdetta e lo guardò, pensierosa.
« Ma nei film è diverso.. »
« Nei film fanno vedere anche le tette. »
« Tua mamma ti fa guardare film dove si vedono le tette?!
»
Kay era shockata. I suoi occhi erano diventati ancora più
grandi e aveva la bocca spalancata.
Tom, dal canto suo, trovava tutto molto normale.
« No, lei non sa che vedo le tette. Di solito le vedo quando
lei dorme o magari quando va a fare la spesa e io devo finire i
compiti. »
Diede un calcio ad una pietrolina là vicino e poi si
infilò le mani in tasca.
Kay lo guardò scegliendo con cura, nel piccolo vocabolario
che possedeva, quali parole usare per fargli la domanda che gli ronzava
in testa da un po’.
« Tu hai già dato il tuo primo bacio, vero?
»
Tom sollevò il viso e annuì senza preoccupazioni.
« E com’è? »
« Umido. »
« Bleah! » Kay contrasse il viso in una smorfia di
disgusto.
« No, non è da bleah. »
precisò Tom. « E’ figo. Però
è umido. »
« Come una lumaca? »
Tom sollevò il busto e guardò le finestre della
casa. La gente stava andando via.
« Ah? »
Kay richiamò la sua attenzione.
« No, le lumache fanno schifo! Se i baci fossero come le
lumache, nessuno si bacerebbe. »
La bambina sembrò andare d’accordo col il
ragionamento del cugino. Si poggiò un poco alla gomma che
dondolava leggermente.
« E’ vero che guardi sotto le gonne delle bambine?
»
« Chi te l’ha detto?! »
Tom era diventato rosso come un peperone e Kay trattenne un sorriso.
« La mamma. L’ha chiamata tua mamma e le ha detto
che l’hanno chiamata da scuola per dirle che…
»
« Oh sì, il colloquio. Beh no, è
successo una volta soltanto. E non l’ho fatto apposta.
»
Kay si caricò sulla gomma dove prima c’era seduto
Tom, e iniziò a dondolarsi.
« Ti va di raccontarmi? »
Tom si grattò la testa e pensò che non
c’era nulla di male nel dirglielo.
« Mi era caduta la penna, così mi sono inchinato
ma Lena aveva la gonna troppo corta. E allora le ho visto le mutande.
Gliele ho guardate per un po’, perché erano
strane. Erano blu e c’erano delle lettere sopra. Quando ho
capito che c’era scritto il suo nome la maestra mi ha
sgridato e Lena mi ha dato un calcio. »
« Ti ha fatto male? »
« No, ma la matita è finita dall’altra
parte della classe. » rispose. « E poi Lena si
è scusata. »
« Capisco. »
Kay si dondolò ancora un po’
sull’altalena, finché Tom vide la zia Margaret
salutare ancora sua madre.
« Comunque, non dire a nessuno che ti ho baciata, ok?
»
« Perché? »
« Che ne so, magari si arrabbiano. »
« Oh, giusto. Ok va bene, tranquillo. »
« Grazie. »
« Kay! »
Zia Margaret chiamava la figlia a gran voce mentre zio Victor stava
mettendo in moto la macchina.
« Devo andare. Ci vediamo! »
Kay scese con un balzo dalla gomma e salutò Tom con un cenno
della mano, prima di iniziare a correre via.
Tom si limitò a guardarla e si morse un labbro.
Aveva ancora sapore di fragola.
Pigiò ulteriormente il piede sull’acceleratore e
sentì una scarica di adrenalina percorrergli tutto il corpo.
Al suo fianco Georg, un amico conosciuto a scuola, tracannava una
bottiglia di Vodka alla pesca.
Tom non era più il bambino dai corti capelli color miele di
una decina d’anni prima.
Ora portava dei lunghi cornrows neri e aveva un piercing sul lato
sinistro del labbro inferiore.
Era cresciuto bene, andava a correre ogni mattina e si allenava ogni
giorno. Ma con l’andare degli anni Simone aveva notato un
lento ma radicale cambiamento. Tom cresceva in una maniera spaventosa,
era quasi diventato un uomo ma ancora non sapeva cosa voleva davvero
dalla vita. Vita che detestava e se solo pensava al fatto che fosse
stato privato di suo padre, la rabbia gli montava sul corpo. Tom aveva
lentamente capito che suo padre non sarebbe più stato al suo
fianco quando Simone gli aveva presentato Gordon, un amico. Per lui non
c’era più alcun motivo per fare il
“bravo ragazzo”.
Per questo si era fatto trascinare da Georg in quel vortice di alcohol
e fumo.
Aveva iniziato a fumare all’età di 15 anni ed era
arrivato a sostituire i pasti con le canne. Simone l’aveva
beccato più volte in stato confusionale, rideva senza motivo
e barcollava come un malato di mente. Quando poi aveva preso la patente
aveva iniziato a guidare di notte, a bere in macchina e a usarla come
ripostiglio per fare sesso con chiunque gli capitasse sotto gli occhi.
Jamie, Liz, Deborah, Tamara e perfino Maria, la brasiliana che non
guardava nemmeno in faccia i professori. Tom l’aveva fatta
cadere ai suoi piedi con un solo sorriso e dopo qualche moina se
l’era scopata. I giorni successivi aveva interrotto il
rapporto in modo più o meno naturale e lei aveva cambiato
città.
Georg gli passò la bottiglia ripulendosi la bocca con la
manica della giacca in pelle scura e Tom finì di bere dando
uno sguardo alla strada davanti a sé. La radio era accesa e
la macchina sballottava da una parte all’altra ma nessuno dei
due se ne curava granché.
« Allora, ti sei deciso con quella… come si
chiama?! » Tom cercò di superare il volume della
musica.
Georg lo guardò.
« Hanna? »
« Sì, quella. Hai detto che volevi portartela a
letto, no? »
« Sì ma non mi dà corda. »
« Credevo che non fosse un problema. » decise di
abbassare il volume della musica, per sentire di più
l’amico.
« Non lo era finché non è saltato fuori
il ragazzo. »
Georg si sporse verso la radio e aumentò di nuovo il volume.
« Il ragazzo?! »
L’amico annuì con la testa.
« E’ fidanzata da due anni! »
Tom strinse le mani nel volante e iniziò a ridere di gusto,
battendo poi una mano sulla spalla muscolosa di Georg.
« Complimenti, sei proprio fortunato! »
Georg scosse la testa e aprì il finestrino facendo entrare
il vento Californiano di fine Agosto che gli scompigliò i
lunghi capelli castani.
« Che t’ha detto tua madre per Sabato? »
Tom fece spallucce e controllò lo specchietto alla sua
sinistra.
« Sostanzialmente nulla. Ormai non insiste più.
»
Georg si lasciò sfuggire una risata.
« Immagino che si sia stufata di averti in mezzo alle palle e
che quindi ti lasci fare tutto quello che vuoi. »
« Molto divertente! » commentò Tom,
voltandosi a guardarlo.
Georg gli passò una mano in testa, sapendo che Tom odiava
quando qualcuno gli toccava le treccine, ancor più se erano
quelle incarnate.
Così gli spostò bruscamente la mano con una
sberla ma Georg era così cocciuto da voler insistere pur di
infastidirlo.
« Dai finiscila, sto guidando! »
Georg incrociò le braccia sul petto, e ridendo come un ebete
si mise a fissare la strada.
Lui e Tom si erano conosciuti quando Georg era all’ultimo
anno di studi e Tom era ancora un pivellino. Fumava solo sigarette e
non beveva nulla ma a Georg piaceva il suo modo di fare, la sua
strafottenza. Così iniziarono ad uscire insieme, Georg aveva
la macchina e quindi lo portava con sé. Tom
iniziò a fumare canne con lui e infranse la legge bevendo
alcolici, in qualche pub sperduto di Los Angeles.
Il sesso era tutta un’altra storia. Quello era arrivato prima
di Georg, per Tom.
La prima volta l’aveva fatto a 16 anni, con una ragazza di
due anni più grande di lui. Era così eccitato da
averla trombata anche quando lei gridava di smetterla perché
non ce la faceva più.
Da quel momento aveva capito che il sesso era qualcosa di davvero
eccezionale e non si era più fermato.
Era un po’ come dire che Tom ragionava con il pene e non con
il cervello, anche se un cervello lo aveva e non lo sfruttava.
A scuola non era un secchione perché non passava nemmeno un
istante sui libri ma era terribilmente intelligente da riuscire a
sostenere un’interrogazione solo ascoltando una semplice
spiegazione.
Quella era l’unica cosa che Simone non gli rimproverava mai.
Ed era un’altra differenza fra lui e l’amico che
sedeva al suo fianco.
Fisicamente, Georg restava più basso di Tom che raggiungeva
e superava il metro e ottanta, ed era solito tenere i capelli castani
lunghi sulle spalle. Tom giurava che se li piastrasse ogni volta, ma
non l’aveva mai visto con un taglio diverso da quello.
« Ho preso l’erba. » l’amico lo
riportò sulla Terra.
« Ah sì? »
« Già. » gongolò.
« Per quando? »
« Anche domani, se per te va bene. »
Tom mise la freccia e svoltò, facendo poi spallucce.
« Sai che son sempre libero. »
Finita la curva Tom rimise a posto la marcia, ma i fari che
illuminavano la strada davanti a loro, illuminarono anche due grandi
occhi color nocciola e con essi un corpo peloso.
« Tom, cazzo, un cane! »
Georg strillò così forte che Tom
sterzò bruscamente non solo per il cane che era apparso dal
nulla, ma anche per l’amico che aveva duplicato il suo
spavento.
La macchina fece un lungo fischio e strisciò sulla strada.
L’animale non si mosse né emise alcun verso, ma
rimase immobile al suo posto, con le zampe ben piantate
sull’asfalto.
Tom cercò di tenere il controllo, un piede pigiato sul
freno, ma la macchina girò su sé stessa e il
ragazzo non vide la curva successiva.
Un frastuono assordante che Tom riconobbe come
l’accartocciarsi della macchina, e il parabrezza si ruppe in
mille pezzi.
La cintura lo tenne saldo al sedile e con le mani ancora sul volante,
Tom continuò a pigiare il freno, finché la
macchina si immobilizzò per qualche istante in mezzo alla
corsia, con il muso contro il guardrail.
Georg aveva un’espressione paralizzata, gli occhi spalancati
e le mani chiuse in due pugni.
Tom vide le sue pupille dilatarsi e guardare oltre la sua testa. Quando
si voltò, gli sembrava di essere il cane che aveva evitato;
due fari gli illuminavano perfettamente gli occhi.
Poi, buio.
Tom aprì gli occhi e una forte luce lo illuminò.
Quando mise a fuoco, si trovò in piedi in uno spazio
completamente bianco e immenso.
Si toccò istintivamente il petto e si guardò le
mani.
« Sono morto?! » domandò, senza
aspettarsi una risposta.
Aveva gli stessi abiti che indossava prima dell’incidente e
si sentiva tremendamente in forma, nemmeno un po’ assonnato o
stordito.
« No, non sei morto. »
Una voce dal niente lo fece sobbalzare e si guardò intorno,
cercando qualcuno.
« Chi ha parlato? »
« Non mi puoi vedere. »
Tom esitò un attimo, continuando a guardarsi attorno e
sperando di trovarsi in uno scherzo.
« Sei Dio? »
La voce rise. Una risata calda ma leggermente rauca.
« No, non sono Dio. Però sono qui per darti un
messaggio importante. »
« Oh, bene. Di che si tratta? »
Tom parve incuriosirsi e subito dopo si diede del pazzo per il fatto
che parlasse con una voce che non aveva alcun volto.
« Una punizione. »
« Come?! » sbottò.
La voce ci mise di nuovo un po’ a rispondere.
« Una punizione. »
« E perché mai?! »
Si definì uno stupido per aver fatto quella domanda. Era
ovvio che nella sua vita non era stato proprio il ragazzo modello. O il
figlio modello, quello che ogni madre sogna.
« Perché è ora che tu abbia una
lezione. »
« E dovevo schiantarmi contro un guardrail per avere una
lezione?! »
La voce ignorò la sua lamentela, e il suo tono divenne
più solenne.
« Ti restano 100 giorni, Tom. »
« 100 giorni?! »
« Dal momento in cui ti sveglierai avrai 100 giorni di vita.
»
« Oh, wow. Fantastico. » alzò le braccia
in aria, sbigottito. « Ho il tempo per decidermi la lapide,
vedo. » ironizzò. « E sentiamo un
po’: come morirò? »
« In questi 100 giorni, » lo ignorò
ancora la voce « avrai l’opportunità di
conoscere una persona importante. L’unica che ti
cambierà la vita in meglio e che te la salverà.
Se fallirai, morirai. »
Tom non rispose, immagazzinando le istruzioni della voce, che poteva
appartenere ad una figura maschile.
« Aspetta. Tu mi stai dicendo che in questi 100 giorni di
vita devo trovare qualcuno che mi salverà la vita e quindi
non farmi morire? »
« Esatto. »
« E solo io a scegliere? »
« No. Sei tu a trovarla. »
Tom annuì con la testa, definendo tutto quello ridicolo.
Sentì uno strano formicolio alle mani e guardandole, le vide
svanire lentamente nel nulla.
« No, un attimo, come sarebbe a dire?! Devo farmi salvare da
una persona che non conosco? E che diavolo mi sta succedendo alle
mani?! »
Le sue braccia erano quasi completamente sparite, così come
le gambe e il bacino.
In breve anche il busto scomparve nel nulla, e la vista di Tom si
annebbiò fino ad oscurarsi.
« Hai 100 giorni, Tom. Trova la persona che ti
salverà. »
Non accadde come nei film, quando gli attori aprono istintivamente gli
occhi.
Il primo senso che Tom riacquistò fu l’udito.
Sentì un fastidioso rumore simile ad un BIP penetrargli nei
timpani e martellargli il cervello con frequenza.
Poi sentì le palpebre vibrare, ma prima di aprirle
sentì le cavità nasali semi ostruite e
provò a chiudere la mano sinistra in un pugno.
Il polso destro gli faceva male e la testa gli pulsava parecchio, per
non parlare del bruciore che sentiva in gola e sulle labbra e del
dolore che gli smorzava il fiato, pungente sul fianco sinistro.
Per ultimo, Tom si decise ad aprire lentamente gli occhi ma li richiuse
subito dopo per la forte luce bianca.
No, decisamente non era come nei film.
Aprì prima un occhio e poi l’altro con molta
tranquillità e fissò qualche istante il soffitto
chiaro.
Probabilmente un verme stava in condizioni migliori delle sue,
strisciante sul suolo. Tom non riusciva nemmeno a respirare dai dolori
che aveva in tutto il corpo. I postumi dell’incidente lo
stavano attraversando come lame.
Sentì la porta alla sua sinistra aprirsi con un cigolio e
voltò lentamente la testa. Con in mano un caffè,
sulla soglia della stanza c’era Simone, sua madre.
I lunghi capelli corvini le ricadeva sulla spalle, lasciandole il viso
bianco come un cencio coperto alla luce artificiale delle lampade sul
soffitto. Aveva gli occhi arrossati e delle borse sotto di essi.
Guardò Tom e trattenne per un istante il fiato.
Camminò verso il lettino e si sedette sulla sedia messa
là affianco, che Tom non aveva minimamente visto.
« Tom. » lo chiamò.
Lui sfoggiò uno dei migliori sorrisi che poteva fare in quel
momento.
« Hey, mamma. » mormorò con voce roca,
risvegliando le corde vocali.
Simone poggiò il caffè nel mobiletto accanto a
sé e prese una mano al figlio.
Lo guardò dritto negli occhi.
« Come stai? »
Tom le sorrise ulteriormente.
« Bene, e tu? »
Simone fece segno col viso che se la cavava.
« Come sta Georg? »
La donna annuì con la testa.
« Non ha nulla di rotto per fortuna. L’hanno
dimesso due giorni fa. »
Tom annuì con la testa. Poi rifletté sulle parole
della madre.
« Due giorni fa? »
Simone annuì ancora una volta, quasi sull’orlo
delle lacrime. Poi, capì che il figlio non comprendeva.
« Ti sei appena svegliato dal coma, Tom. »
Tom immagazzinò lentamente quelle parole e capì
perché si sentiva così stordito.
« Coma?! » ripeté sconcertato.
La madre annuì di nuovo con la testa.
« Non ti sei accorto di nulla? »
Tom negò.
« Di quando ti parlavo? O di quando ti parlava Gordon?
»
Lui scosse di nuovo la testa e Simone poggiò la schiena
sulla sedia, leggermente delusa. Poi però fece un mezzo
sorriso e gli prese una mano.
« L’importante è che ti sia svegliato.
»
Tom ricambiò il sorriso e poi voltò il viso da
un’altra parte, mentre Simone riprendeva il caffè
in mano.
Era rimasto in coma per due giorni e non se n’era minimamente
accorto.
La sua testa iniziò a pulsare più di quanto
avesse fatto in tutta la sua vita.
Per un momento, si sentì incredibilmente miracolato.
Qualche giorno dopo, eseguiti diversi controlli, Tom tornò a
casa.
Gli sembrava di essersi perso gran parte del tempo della sua vita e che
tutto, o quasi, fosse cambiato. In realtà no, era tutto
uguale a come l’aveva lasciato.
La via dove abitava, il suo giardino, tutta la casa.
Tom si guardava attorno scrutando ogni minimo particolare.
« Come ti senti? » gli domandò Simone.
Lui annuì senza parlare e si diresse verso camera sua.
Gordon era rimasto fuori a chiudere la macchina e quando
rientrò, fischiettando, poggiò le chiavi sul
mobile accanto all’ingresso e seguì Tom e Simone
con lo sguardo. Il ragazzo sembrava spaesato.
Aprì la porta di camera sua e vide l’armadio
aperto. Per terra c’era una valigia e dentro diversi abiti
che riconobbe come suoi. Ok, forse non tutto era uguale a come
l’aveva lasciato. Non si ricordava di una valigia aperta; non
aveva nessun viaggio in programma secondo la sua memoria.
« Perché c’è una valigia
aperta? » domandò voltandosi verso la madre.
Questa fece zigzagare lo sguardo, senza rispondergli.
Gordon si avvicinò velocemente.
« Non gliel’hai detto?! »
Simone lo guardò aprendo bocca, agitata.
« Ci ho provato ma non trovavo il momento giusto, ero
così preoccupata! »
« Dovevi dirglielo, diamine! »
« Lo so Gordon, lo so ma non ci riuscivo, capiscimi!
»
Tom li guardava perplesso, mentre uno rimproverava l’altra.
« Avevi detto che ci avresti pensato tu! »
« Lo so e ho sbagliato, tutto qui! Non sono riuscita a
dirglielo ancora. »
« Dirmi cosa? » sentenziò Tom, sentendo
la testa bollire.
Simone e Gordon lo guardarono e il secondo poi volto la testa da
un’altra parte, sbuffando.
La madre prese fiato.
« Sono molto delusa da ciò che è
successo, Tom. »
Il ragazzo roteò gli occhi.
« Devi farmi una ramanzina? Beh non ho voglia di starti a
sentire. Hai deciso di buttarmi fuori da casa perché una
macchina mi è venuta addosso? »
Simone scosse la testa.
« Non è questo il punto. Continui a comportarti
come se noi non esistessimo, fai ciò che ti pare e ti stai
riducendo ad uno stato pessimo. Guardati! Hai rischiato di morire!
» Simone scandì bene l’ultima parola e
Tom evitò di nuovo il suo sguardo.
A quel punto, la donna poggiò le mani sui fianchi e lo
guardò imperterrita.
« Ho chiamato zia Margaret, a Portland. Mi ha detto che Kay
sta frequentando un college dove si studia e ci si diverte, e che lei
si trova perfettamente a suo agio, quasi non vorrebbe finire
l’anno per restare lì in eterno. »
Il figlio si voltò annoiato.
« Così ho deciso che fosse il caso di mandarti a
stare da loro e frequentare il college. »
Tom impallidì e si voltò precipitosamente e
fissare la madre.
« Cosa?! Ma sei fuori?! Io non ci voglio andare
lì! »
« L’ho fatto per te! » replicò
la donna.
Tom si prese la testa fra le mani.
« Tu non capisci! Come faccio io ad andare in un posto nuovo,
senza conoscere alcun’anima e poi come faccio a frequentare
un college che nemmeno conosco?! Non so nemmeno che ambiente
è, non voglio stare con zia Margaret tutto il tempo!
»
« C’è Kay, ti troverai bene. »
« Io non voglio stare con Kay, io voglio stare qui, a casa
mia e con i miei amici! »
Gordon fece un passo avanti e cinse le spalle di Simone.
« Lo facciamo per il tuo bene, Tom! Possibile che tu non lo
capisca? »
Il ragazzo si voltò furente e guardò Gordon con
gli occhi quasi in fiamme.
« Tu non sai cosa intendo io per ‘bene’ e
tantomeno ti puoi permettere di definire questo come tale. Non sei
nessuno per me, Gordon. »
Il silenziò calò nella stanza e successivamente
Simone si mise fra i due, puntando un dito contro Tom.
« Fila in camera tua e non t’azzardare mai
più a rivolgerti a Gordon così. Tuo padre non
avrebbe mai ammesso una cosa del genere! »
« Mio padre non mi avrebbe mandato a vivere a casa di zia
Margaret perché ho avuto un incidente in macchina!
» sbraitò Tom, sovrastando la madre in altezza.
Poi si voltò e, furente, entrò in camera sua
sbattendo forte la porta.
Diede un calcio alla valigia ancora aperta e le magliette dentro di
essa si smossero, alcune scomponendosi. Poi si lasciò cadere
sul letto e si schiacciò la testa contro il cuscino,
sentendosi tremendamente nervoso.
Se suo padre fosse stato lì, tutto quello non sarebbe mai
accaduto.
|