Note
dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:
Non
abituatevi al fatto
che aggiornerò sempre a distanza di... uhm, quanto? Uno, due
giorni?
Ecco, per l'appunto. Ho deciso di postare oggi solo perché:
a) il
primo capitolo era già pronto da quando ho scritto il
prologo; b)
non riesco a dormire e mi annoio – stupida caffeinomania;
c)
basta. È stato il mio dito a cliccare da solo.
Come
vi avevo accennato
– non l'ho fatto? Uhm, beh, non so che farci, mi spiace
– in
questo capitolo compaiono i prodi eredi di Remus e Tonks, di cui uno
è nato con tre occhi, una con l'alluce al posto del naso e
l'altra
con il superpotere di lanciare raggi gamma dalle orecchie.
...nessuno
di voi mi ha
preso sul serio, vero? Se tu che stai leggendo mi hai preso sul
serio, sappi che potresti avere qualche problema di tipo
riflessivo-cognitivo. :)
No,
okay. Seriamente.
Questo è il primo capitolo di una long-fic che, confesso,
non so
esattamente dove mi porterà. Poco professionale, voi dite?
Chissenefrega, vi ripeto che ho bisogno di fluffosità
– e
il primo che allude al fatto che presto sarà San Valentino
verrà
mutilato via fax, poiché la sottoscritta odia
candidamente
San Valentino.
Le
uniche note
veramente utili (ma in realtà non lo sono affatto) che devo
sottolineare sono: a) la filastrocca finale, che io sappia,
è un
made in mia nonna, ma tradotta in italiano da un ben
più
volgare e barbaro dialetto; b) tutti i nomi di Creature Magiche che
compaiono sono stati spudoratamente letti sulla sempre fedele Wiki;
c) i personaggi e i luoghi di questa fan fiction non appartengono a
me, ma a J.K. Rowling – cosa che sapete perfettamente e
che... no,
un attimo. Tre di questi personaggi mi
appartengono eccome,
invece. Oh, chissenefrega. Piantatela di leggere le mie note inutili,
così la mia incurabile logorrea può lasciarvi al
capitolo.
Buona
lettura, baldo
popolo di Efp! :)
*
La
Casa Stornella
Capitolo
Uno
Ninna
Nanna
Remus
non ricordava da quanto tempo non rincasasse a quella tarda ora della
sera – anni, probabilmente. Quando si
Smaterializzò nel cortile di
Casa Stornella, il suo orologio da taschino segnava le nove e
quarantacinque minuti. Non si concesse neppure il tempo di lisciare
il risvolto del lungo soprabito nero che indossava: era un'abitudine
che aveva sempre avuto dacché aveva superato l'Esame per la
Materializzazione. Salì con urgenza i gradini di pietra e
sfiorò
con un polpastrello il battente a forma di volpe. Pochi istanti dopo,
questa aprì pigramente un occhio e fece un grande sbadiglio.
«Bentornato,
professore...» biascicò appena, con la voce
gracchiante un po'
impastata.
Si
udì un secco rumore metallico, prima che la porta s'aprisse
sull'ampio salone di ingresso.
Se
l'esterno di Casa Stornella si presentava come una confortevole e
tradizionale dimora inglese, l'interno era indiscutibilmente una
confortevole e tradizionale dimora magica.
Mentre
l'attaccapanni si piegava su se stesso per aiutarlo a sfilare il
soprabito dalle spalle, Remus allungò il collo verso la
porta della
cucina, da cui arrivava il sordo fruscio delle stoviglie che si
lavavano e delle ramazze che spazzavano il pavimento.
«Mastro
Lupin, ardito e nobile signore! Indomito condottiero di mille e mille
sventure!» eruppe una voce da un quadro alla sua destra.
«Mi pare
siate in ritardo, quest'oggi: cosa vi ha trattenuto lungo la
travagliata via del ritorno? Troll? Orchi? Draghi?».
«Magari
si fosse trattato di un Drago, Sir Cadogan»
scherzò con tono
gentile Remus. «Riunione del Consiglio Scolastico
nell'Ufficio della
Preside McGranitt».
Il
vecchio cavaliere dipinto fece una smorfia di disgusto.
«Per
la buon anima del mio Crinedoro, qui... quella strega v'ha realmente
trattenuto fino a questa tarda ora?».
«Sì,
a breve le intenterò sicuramente causa presso il Ministero.
Avete
visto mia moglie?».
«Naturale,
Mastro Lupin! Naturale! I miei occhi sono occhi di falco! Le mie
braccia sono braccia di orso! Il mio cuore è cuore
di Dra--».
«E
le mie orecchie sono davvero stanche, temo» lo prese
bonariamente
in giro. «Dov'è mia moglie, Sir
Cadogan?».
«Ha
detto di doversi ristorare nelle stanze da bagno, vista l'immane
tortura che oggi s'è rivelata essere addormentare i vostri
bambini.
Mi sono apparsi assai troppo vivaci, sì. E la vostra
più piccola,
quella canaglia, ha tentato di disegnarmi un grosso paio di baffi,
Mastro Lupin! Proprio qui, sotto il mio eroico naso! È tutto
il
giorno che se ne va in giro a fare dei danni! Oh, povera, povera la
vostra dolce moglie! Una così delicata creatura costretta a
inseguire un demonio per ogni dove della casa».
«Che
Godric mi aiuti ad accasarla in fretta...» mormorò
Remus,
passandosi una mano sul viso con aria esasperata.
«Vedrò di fare
due chiacchiere con lei, Sir Cadogan. Credo di poterla convincere a
non recarvi disturbo... o di farlo a giorni alterni,
perlomeno».
Si
avviò velocemente verso la larga scalinata che portava al
piano
superiore, fingendo di non sentire l'aulico brontolare del quadro per
non essere nuovamente bloccato dalle sue folli fantasie e dai suoi
sconsiderati consigli. Talvolta, si chiedeva cosa gli fosse passato
per la testa per portare Sir Cadogan a casa sua. Sapeva solo che
quando aveva scoperto che il poveretto era stato portato in un
vecchio ripostiglio del quarto piano di Hogwarts, solo e dimenticato,
aveva avvertito il dovere morale di aiutare quel quadro squilibrato.
Fortuna che sua moglie fosse squilibrata quanto lui e Sir Cadogan, o
quello sarebbe affondato nel fiume con tutta la sua cornice dorata
–
e Remus con lui per aver avanzato l'insana proposta di appenderlo
nell'ingresso, probabilmente.
Sebbene
fosse molto allettato dall'idea di immergersi in una vasca bollente
al più presto, Remus avvertì il bisogno di
controllare che tutti e
quattro i suoi figli stessero effettivamente dormendo. Non si sarebbe
affatto stupito se gli avesse trovati tutti nascosti sotto le coperte
in una delle loro stanze, illuminati solo dalla torcia a pile che
Arthur aveva loro regalato. Due mattine prima, lui e Tonks li avevano
trovati addormentati sul pavimento di legno della stanza di Teddy e
Alastor, ingarbugliati gli uni con le altre e con un grossissimo
libro di leggende irlandesi aperto lì accanto.
Quatto
quatto, si avvicinò alla cameretta delle bambine,
abbassò con
estrema delicatezza la maniglia d'ottone e aprì la porta di
qualche
centimetro. La luce s'insinuò nella stanza buia, illuminando
un
piedino scoperto. Remus sorrise ed entrò con cautela,
avanzando in
punta di piedi verso il lettino di Andromeda. Prestando attenzione ad
ogni movimento, afferrò il bordo della trapunta turchese e
le
rimboccò amorevolmente le coperte. Andromeda emise un
incomprensibile borbottio e Remus alzò il capo per guardarla
in
viso.
Come
Alastor, Andromeda aveva ereditato i capelli chiari del padre, ma, al
contrario, non possedeva niente del buffo contegno assennato del
fratello. Era una bambina dall'indole calma, dallo spirito generoso e
dall'innocente ingenuità: fra i quattro, era
indiscutibilmente la
meno capricciosa e la più avvezza alle coccole.
Era
anche estremamente timida, tant'è che aveva il vizio di
nascondere
il volto dagli sguardi degli adulti che cercavano di conversare con
lei e di nascondersi dietro alle spalle dei genitori. Sebbene Tonks
cercasse di incitarla a parlare, sembrava proprio che in pubblico
Andromeda non riuscisse a spiccicare più di qualche
stringata
formula di cortesia. E dire che in casa, di norma, chiacchierava
esattamente quanto gli altri.
Ciò
che più di ogni altra cosa aveva sempre destato l'interesse
dei loro
conoscenti era la limpida tonalità azzurra dei suoi occhi.
Quelli di
Tonks – quelli naturali, perlomeno – erano scuri e
brillanti;
quelli di Remus, invece, erano di una calda tonalità
ambrata. Quando
avevano scoperto che gli occhi di Andromeda sarebbero rimasti
celesti, Tonks e sua madre avevano drammaticamente annunciato un
ritorno in voga dei geni Black. Remus aveva avuto l'incauto ardimento
di domandare loro chi, in quella famiglia di pazzi sconsiderati,
avesse posseduto due occhi tanto belli e lucenti. Andromeda Tonks
aveva assottigliato pericolosamente le palpebre e aveva sibilato un
gelido “Narcissa”.
Remus
le aveva liquidate sostenendo quanto fossero irrimediabilmente
svitate, perché non c'era proprio nulla – nulla
– nei suoi figli
che potesse ricondurre ai Black. Quando era nata Minerva, tuttavia,
aveva dovuto ricredersi.
I
suoi capelli erano dritti come dei fusi, neri e lucenti – e i
suoi
occhi lo erano altrettanto. A differenza di Tonks, tuttavia, la cui
forma conferiva al volto qualcosa di naturalmente simpatico, gli
occhi di Minerva erano stretti e allungati, come quelli di un
predatore ad un balzo dalla preda.
Dopo
qualche mese dalla sua nascita, Andromeda si era dichiarata sconvolta
dalla somiglianza che correva fra lei e la defunta Bellatrix Black.
Quel paragone aveva fatto infuriare Tonks e la questione era
rapidamente degenerata in una violenta discussione fra madre e
figlia.
All'età
di cinque anni, Minerva era più bassa delle sue coetanee di
almeno
una spanna. Dominique Weasley, che aveva solo pochi mesi in
più di
lei, la superava già dell'intera testa. Era così
piccola e minuta
che tutti quanti, un po' per vezzeggiarla e un po' per divertirsi,
l'avevano soprannominata Minima - e pareva proprio che quell'assurdo
nomignolo avesse ormai sostituito il suo nome di battesimo. Minima,
d'altro canto, di piccolo e minuto aveva solo la corporatura.
Era
una bambina particolarmente sveglia e curiosa, dal temperamento
impetuoso, testardo e impaziente. Era nata con la lingua lunga e la
mente acuta: Remus aveva capito fin da subito che crescere Minima
sarebbe stata un'epica crociata. Sembrava avere una visione del mondo
in bianco e nero, senza compromessi o vie di mezzo, ed era
ostinatamente convinta che ad ogni battaglia persa ne conseguisse
un'altra più feroce. Anche il rispetto, nella sua infantile
concezione della vita, era fatto di estremi. Nonostante fosse ancora
così piccola, sembrava già capace di distinguere
le persone a cui
concedere la propria attenzione da quelle con le quali non valeva la
pena confrontarsi. A differenza dei fratelli e di tutti gli altri
bambini, pareva avvertire la differenza di meriti e pregi che
differenziava un adulto da un altro e, in base al suo insindacabile
giudizio, si comportava di conseguenza.
Il
mese prima, durante la cena, Tonks stava raccontando a Remus di aver
litigato con l'Auror Dawlish per un affare di carattere burocratico.
Teddy stava cercando di nascondere i fagioli in un angolo del piatto,
mentre ascoltava Alastor raccontare ad Andromeda la storia –
letta
in chissà quale enciclopedia della loro biblioteca - di come
l'usanza delle forchette fosse arrivata in Gran Bretagna. Minima,
seduta accanto alla madre, aveva alzato improvvisamente la testa
dalla bistecca che stava sbocconcellando e aveva domandato
candidamente:
«L'Auror
Dawlish è il signore altissimo e con i capelli cortissimi,
mamma? È
quello che quando parla tiene tutta la pancia in fuori?».
Tonks
aveva interrotto la conversazione con il marito e aveva guardato la
figlia con aria di puro divertimento.
«Sì,
tesoro, ma non è la pancia. È il petto».
«Sì,
Minima» aveva incalzato d'un tratto Teddy, sporgendosi verso
la
sorellina e annuendo vigorosamente. «Si chiama
“petto”, quello
dell'Auror Dawlish. Ha un sacco di muscoli, lui! Deve essere
fortissimo!».
«Perché?»
aveva protestato Andromeda. «Papà non ha i
muscoli, ma è
fortissimo anche lui. Vero, papà, che tu sei
fortissimo?».
«Assolutamente
sì» aveva assicurato Remus. «E bada,
Ted, che i muscoli non sono
sempre indice di forza».
«Come
Re Davide e il gigante Golia nei Libri delle Cronache» si era
intromesso Alastor.
«Precisamente».
«Ma
con te non vale. A te non servono i muscoli, papà. Sei un
professore» aveva concluso con ovvietà Teddy.
«I professori non
hanno mica i muscoli come gli Auror».
Tonks
stava per aprire la bocca, quando Minima aveva sentenziato con
estrema semplicità:
«L'Auror
Dawlish è un idiota».
L'avevano
fissata tutti per un lungo istante di silenzio. Era stata Tonks la
prima a parlare e la sua voce aveva una nota minacciosa.
«Minima,
se ti sento ripetere la parola “idiota”, ti annodo
la lingua al
palato per i prossimi sei mesi».
«Ma
lo è, mamma» aveva ripetuto lei con decisione.
«Se ne gira con la
pancia in fuori e il naso in su, e dice di essere una persona forte
anche quando non serve che lo dica. Quando l'abbiamo visto a Diagon
Alley, l'altra volta, aveva attaccato al suo mantello rosso un
distintivo uguale a quello che tu porti in tasca. Se lo puliva sempre
con la manica e quando girava si vedeva che voleva che tutti lo
guardavamo. Io dico che è un idiota».
L'irritazione
di Tonks per aver sentito Minima pronunciare la parola
“idiota”
si era presto trasformata in sbigottita ilarità. La
vanità e
l'estenuante contegno di Dawlish non era certo un segreto per la
comunità magica, ma scoprire che Minima era stata in grado
di trarne
una descrizione così accurata aveva un che di
preoccupantemente
comico.
«Ciao,
papà».
Remus
trasalì impercettibilmente e si voltò verso il
letto della sua
bambina più piccola.
«Minima»
le disse in un sussurro, avvicinandosi con estrema delicatezza e
sedendosi sul bordo. «Perché sei ancora
sveglia?».
«Non
lo so».
«Non
lo sai?».
«Non
lo so» ripeté con voce convinta Minima.
«A te succede di non
sapere le cose, papà?».
Remus
strinse fra loro le labbra e si massaggiò stancamente
l'attaccatura
fra le sopracciglia e il naso. Fra le incontrollabili
particolarità
di Minima, la peggiore era sicuramente la sua capacità di
fare
sempre domande che finivano per mettere gli adulti in imbarazzante
difficoltà.
«Sì,
tesoro» le rispose dopo un attimo di riflessione.
«È normale non
sapere tutto quanto. Ciò che non è normale
è non sapere per quale
motivo si è svegli... soprattutto quando chi dovrebbe
dormire ha già
superato da un bel pezzo l'ora della ritirata. Dico bene,
signorina?».
«Sì,
lo dice pure l'orologio. L'ho sentito fare due cucù,
prima».
«Per
l'appunto. Povero orologio, mai nessuno in questa casa che gli dia
ascolto» scherzò piano Remus, cercando nella
penombra il bordo
della trapunta per rimboccare le coperte per la seconda volta nel
giro di due minuti.
«Dovrebbe
arrabbiarsi» aggiunse Minima. «Se ero io,
l'orologio, mi
arrabbiavo».
«Oh,
questo lo so perfettamente» ridacchiò Remus,
insaccandola fino al
mento e controllando che fosse ben coperta. «A proposito di
cose che
si arrabbiano... vuoi provare a indovinare chi era molto arrabbiato,
quando sono rientrato questa sera?».
Lei
scosse vigorosamente il capo.
«No,
papà. Non voglio indovinare».
«Beh,
temo che dovrò ugualmente dirtelo. Posso sapere cos'hai
combinato,
oggi, a quel poveretto di Sir Cadogan?».
«Niente»
affermò con voce innocente.
«Minima...»
la avvisò Remus con un mezzo sorriso.
«Giuro
solennemente, papà».
Diviso
dal desiderio di ridere e quello di compiere i suoi doveri di
genitore, Remus fece un sospiro stremato.
«Sir
Cadogan non è dello stesso parere».
«Forse
dobbiamo disegnarci un paio di occhiali».
A
questa affermazione, Remus dovette appellare tutta la propria
volontà
per non scoppiare in una fragorosa risata.
«Forse
qualcuno dovrebbe smetterla di usarlo come un album da disegno, non
ti pare? Cosa faresti se domani mattina ti svegliassi con tutta la
faccia scarabocchiata?».
Minima
sembrò soppesare mentalmente la questione.
«Butto
Teddy nel fiume, perché sicuramente Alastor e Dromeda non
sono
stati, a scarabocchiarmi la faccia».
«Ne
deduco che in questa sporca faccenda c'entri anche Ted.
Com'è
possibile che voi due andiate d'accordo solo quando si tratta di fare
dei pasticci?» mormorò piano Remus, prima di
alzarsi dal letto. «Si
è fatto davvero tardi, Minima. Se la mamma dovesse scoprire
che non
ti ho obbligato immediatamente a dormire, mi Trasfigurerebbe in un
calzino».
Lei
ridacchiò fra le coperte, mentre Remus le baciava appena la
fronte
liscia. Avviandosi verso la porta, gettò uno sguardo ad
Andromeda.
Per sua fortuna, era ancora profondamente addormentata. Si
fermò
sull'uscio e si voltò verso Minima.
«Giuri
di metterti subito a dormire?» le domandò con un
sorriso
affettuoso.
«Solennemente,
papà».
*
Nell'istante
in cui apriva la porta della stanza dei due figli più
grandi, Remus
sapeva già che li avrebbe trovati svegli. Aveva appena
infilato la
testa nella stanza quando aveva sentito un sordo tonfo provenire dal
letto più vicino alla finestra. Fece un sospiro rassegnato e
accese
le luci con un movimento pigro della bacchetta.
Alastor
giaceva di schiena ai piedi del proprio letto, con le gambe
ingarbugliate nelle lenzuola e gli occhiali storti sul naso. Quando
ebbe riconosciuto la figura del padre, si mordicchiò
nervosamente il
labbro inferiore e gli rivolse un sorriso innocente.
Remus
inarcò un sopracciglio e si voltò verso la
trapunta sotto la quale
si era nascosto Teddy. A giudicare dal ritmato tremolio, stava
ridendo con il viso sepolto nel cuscino. Si avvicinò e gli
tolse la
coperta tutto d'un colpo. Teddy si girò rapidamente sulla
schiena e
scoppiò in una risata cristallina.
«Sei
cascato da solo!» rise, mentre i capelli si tingevano del
colore dei
mirtilli. «Sei davvero
cascato da solo!».
Alastor
fece forza sulle piccole mani, si mise a sedere e si grattò
timidamente una guancia, arrossendo appena. Remus lo osservò
con
espressione interrogativa.
«Non
l'ho fatto apposta».
Se
c'era qualcosa di cui l'intera comunità magica era
totalmente
d'accordo, era che il giovane Alastor Lupin era indiscutibilmente
figlio di suo padre – e non solo per l'incredibile
somiglianza
fisica. Aveva compiuto otto anni lo scorso settembre e ne aveva
già
trascorsi cinque con la testa immersa nei libri. Sembrava avere una
particolare predisposizione allo studio ed era dotato di una memoria
sconcertante. All'età di sei anni, Remus lo aveva trovato
seduto
davanti al caminetto della biblioteca, mentre fissava con aria
perplessa un vecchio poema gnomico scritto in Rune Antiche.
Appoggiato acconto ai suoi piedi, Remus aveva riconosciuto il suo
vecchio Compendio per la Lettura Semplificate delle Rune.
Remus
si era avvicinato con un mezzo sorriso divertito, si era accomodato
sulla proprio poltrona e aveva intrecciato fra loro le dita, in
attesa. Fu solo in quel momento che Alastor aveva sollevato il viso
dal pesante libro e aveva detto:
«C'è
un passaggio che non capisco, papà».
Remus
si era trattenuto con forza dal ridere, ma si era limitato a
spronarlo silenziosamente con un movimento della mano. Com'era
possibile che un bambino di sei anni, per quanto sveglio, potesse
capire la sottile arte delle Rune Antiche?
«“Gefinn
Óð ni, sjalfur sjalfum mér, à
þeim meiði er manngi veit”»
aveva recitato a gran voce Alastor, muovendo gli occhi davanti a
sé
come se stesse leggendo le parole nell'aria. «“Vlð
hlefi mik sæ ldu né við hornigi.
Ný sta ek niðr, nam ek upp
rùnar, æpandi nam, fell ek aftr
þaðan”».
Remus
era rimasto in silenzio per diversi istanti, sconcertato. Aveva letto
talmente tante volte quel poema gnomico da conoscerlo a memoria e
sapeva che il figlio, contro ogni più logico giudizio, aveva
appena
ripetuto alla perfezione l'intera strofa della morte di Odino. Aveva
sbattuto un paio di volte le palpebre, cercando una spiegazione a
quell'inverosimile comportamento.
«Alastor»
gli aveva detto con voce calma. «Come sei riuscito a
impararlo a
memoria?».
Il
bambino lo aveva guardato con aria confusa e aveva alzato le spalle.
«L'ho
letto, papà».
«Quante
volte?».
«Una
sola, prima che entrassi tu».
Quando
lo aveva raccontato a Tonks, lei si era particolarmente agitata e
aveva insistito per portare Alastor al San Mungo il giorno seguente.
Remus non era molto entusiasta all'idea – aveva sempre
detestato
qualunque genere di ospedale o di infermeria – ed era
oltremodo
convinto che la reazione della moglie fosse assolutamente esagerata.
Alla fine, tuttavia, aveva acconsentito.
Il
Medimago specializzato in Magia Infantile, Eliphas Sheehan, aveva
ascoltato il resoconto di Remus con grande interesse, lisciandosi
pensieroso i lunghi baffi bianchi e annuendo con solenni grugniti.
Aveva sottoposto Alastor a qualche quesito di logica, al quale il
bambino aveva risposto con vivace acume. Poi, gli aveva fatto leggere
una filastrocca lunga una ventina di righe e gli aveva chiesto se
fosse in grado di ripetergliela. Alastor si era comportato
esattamente come nella biblioteca di Casa Stornella: i suoi occhi
sembravano scorrere lungo parole invisibili tracciate a mezz'aria.
Il
responso del Mediamago Sheenan fu che Alastor era dotato di una
sottile memoria eidetica che gli permetteva di visualizzare nella
mente le immagini viste con limpidissima precisione. Aveva aggiunto
che molti bambini possedevano quel particolare tipo di memoria e che,
di norma, tendevano a perderla con il passare degli anni. Tuttavia,
erano ormai trascorsi due anni, da allora, e la memoria di Alastor
pareva incrementarsi anziché diminuire.
«Sei
arrivato tardissimo, papà» affermò
Teddy, gettandosi di pancia sul
materasso e appoggiando il mento alle mani.
«Dov'eri?».
Remus
si avvicinò al letto di Teddy, lo afferrò per una
caviglia, lo
ribaltò sulla schiena e lo infilò di forza sotto
le coperte.
«A
Hogwarts per una riunione con il Consiglio. Quei vecchi brontoloni
non volevano più tornarsene a casa».
«Dovevate
liberare i ragni, allora» sentenziò lui con piglio
deciso.
«Ragni?
Quali ragni?».
«Non
sono ragni, Teddy» lo corresse piano Alastor, rigirandosi
nelle
coperte. «Sono Acromantule».
«Beh,
fa lo stesso. Hanno tante zampe, tanti occhi e tante tenaglie. Quei
vecchi che non lasciavano tornare papà a casa sarebbero
scappati
come dei Fuochi Forsennati!».
«Non
si può. Il Ministero della Magia ha inserito le Acromantule
fra le
Creature Ammazzamaghi».
«E
allora devono liberarle anche con quelli del Ministero»
ribatté con
decisione Teddy. «A me piacciono».
Remus
alzò gli occhi al cielo. Se c'era un'abitudine del suo
primogenito
che lo preoccupava davvero, quella era la sfrenata passione per
qualunque cosa potesse essere definita anche solo remotamente
imprudente. Non credeva che un bambino di nove anni potesse
dimostrare un simile sprezzo del pericolo – lui, perlomeno,
non lo
aveva mai avuto. Eppure, Teddy era sempre pronto a tuffarsi da
improbabili trampolini, a saltare rovinosi ostacoli, a familiarizzare
con animali selvatici potenzialmente letali e a proporre ai fratelli
più piccoli qualsivoglia genere di gioco rischioso.
L'anno
prima, incurante delle più ovvie regole di sopravvivenza,
aveva
legato il capo di una corda al ramo di un grosso faggio che si ergeva
dietro Casa Stornella. Poi, tenendo saldamente stretto l'altro capo,
si era arrampicato sulla grondaia, aveva raggiunto il tetto e si era
lanciato, convinto che avrebbe dondolato. Invece, si era rotto il
polso destro e la gamba sinistra.
Il
sesto senso di Remus gli diceva che il Cappello Parlante lo avrebbe
Smistato a Grifondoro. Non poteva che essere così: era
troppo
sconsiderato e irrequieto per una qualsiasi delle altre Case. Non che
per Remus fosse motivo di vergogna, naturalmente: era il Direttore di
Grifondoro dacché Minerva McGranitt era diventata Preside,
ma
sospettava che la spontanea irruenza di Ted dovesse ancora
raggiungere il culmine. Per allora, Remus prevedeva guai seri.
«Posso
tenere un cucciolo di Acromantula, papà?»
domandò con innocenza
Teddy.
«Non
abbiamo già avuto una conversazione simile la settimana
scorsa, noi
due?» ribatté Remus, costringendolo a infilarsi
sotto le coperte.
Alzò
la mano destra verso Alastor, schioccò con eloquenza le dita
e
indicò con decisione il letto. Il ragazzino si
sfilò gli occhiali
dal naso, li ripiegò con cura, li mise su un grosso libro di
fiabe
appoggiato al comodino e si gettò addosso le lenzuola.
«Avevamo
parlato di un Camuflone, ma hai detto che è troppo grosso e
perde un
sacco di pelo» continuò Teddy.
«Però, papà, lo sai che i draghi
peruviani non superano mai i cinque metri di lunghezza?».
«La
nostra porta d'ingresso non è abbastanza grande».
«E
un Fiammagranchio? Sono piccolissimi, quelli!».
«Sputano
fiamme dal posteriore, il che li rende veramente poco
signorili».
Teddy
soffocò una risatina alla parola
“posteriore” e Remus sfruttò
la sua distrazione per coprirlo fino al naso e avvicinarsi al letto
di Alastor.
«Un
Runespoor? Ha tre teste, papà, lo sapevi?» riprese
imperterrito
Teddy.
«Sì,
e nessuna di loro varcherà la soglia di questa casa
finché io sarò
in vita».
«Un
Tebo?».
«Diventerebbe
invisibile e qualcuno finirebbe per inciamparvi sopra».
«Allora
uno Yeti!».
Mentre
rimboccava le coperte di Alastor, Remus si finse pensieroso.
«Quello
è perfetto».
«Davvero!?»
esclamarono in coro i due bambini.
«Ma,
papà, gli Yeti sono creature native del Tibet»
recitò Alastor con
il tono tranquillo di chi sta leggendo a voce alta. «Possono
raggiungere l'altezza massima di quattro metri e mezzo e divorano
qualunque creatura incontrino sul loro cammino. La loro
voracità è
risaputa e temuta, tant'è che nessun Mago o Strega si
è mai
avvicinato abbastanza per verificare se lo Yeti sia imparentato con i
Troll».
Teddy
annuì con solenne enfasi.
«Già.
Non è fantastico? Avrò uno Yeti tutto
mio!».
«Se
sarò fortunato, potrebbe mangiarvi tutti»
commentò con estrema
semplicità Remus. «Così, finalmente, io
e vostra madre avremmo un
attimo di serenità».
Mentre
Teddy iniziava a protestare e Alastor ridacchiava fra le mani, Remus
si avvicinò alla porta e spense le luci. Sull'uscio, si
voltò per
rivolgere ai figli un ultimo sguardo severo.
«Papà?»
lo chiamò improvvisamente la voce di Teddy.
«No,
Teddy. Non ho realmente intenzione di comprarti uno Yeti».
«Sì,
lo avevo capito... volevo chiederti se domani possiamo andare a fare
un giro a Diagon Alley».
«Oh,
sì!» esclamò la voce entusiasta di
Alastor. «Possiamo, papà?».
«Vedremo»
disse Remus con un mezzo sorriso. «Prima, voglio sapere da
vostra
madre quante ne avete combinate, oggi».
«Siamo
stati bravissimi, papà» rimbeccò Teddy.
«Bravissimissimi».
«Come
un branco di Chimere impazzite, di sicuro» concluse con
divertito
Remus. «Dormite, adesso. È tardissimo. Sogni
di burro, sogni di
miele...».
«...hanno
già spento le candele».
«Sogni
di latte, sogni di panna...».
«...chiudi
gli occhi e fai la nanna».
Remus
fece un movimento compiaciuto del capo.
«Buona
notte» mormorò, richiudendo piano la porta della
camera.
|