Dè a tha thu_1
[
Prima classificata allo «Yaoi
Contest: Citazioni di Alessandro Baricco» indetto
da Ale2 ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Originale al
contest «Voglie estive di gustose letture»
indetto da aturiel ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Ambientzione al
contest «Together with our feeling»
indetto da Misty Eye ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Protagonista al
contest
«L'amore ai tempi di EFP»
indetto da victoria; e valutato da Lady Viviana ]
[ Prima
classificata e
vincitrice del Premio
Miglior Personaggio Secondario
assegnato ad Henry al contest
«Let's talk
about a Beatle. Let's talk about...The Cute One!»
indetto da DakotaDeveraux ]
Titolo: Dè
a tha thu a’ cluinntinn, mo chridhe?
Autore: My
Pride
Fandom: Originale ›
Sovrannaturale ›
Nonsense
Tipologia: Racconto
breve suddiviso in atti e scene
Genere: Storico,
Drammatico, Romantico, Malinconico,
Sovrannaturale,
Introspettivo
Avvertimenti:
Vagamente nonsense, Leggermente Slash
Rating:
Giallo / Arancione
Frase scelta: Numero
15
Introduzione: Potete
chiamarmi spettro, diavolo, demone o figlio
delle tenebre, se ciò vi aggrada. A me non importa. Chiunque
sia stato a farmi
questo, fosse anche il Diavolo in persona, se lo incontrassi sul mio
cammino,
probabilmente, lo ringrazierei. Forse sono stato semplicemente dannato
e non me
ne rendo conto adesso come non me n’ero reso conto a quel
tempo, ma ciò che
provai durante quei primi giorni della mia nuova esistenza non lo
scorderò mai:
i suoni vivi, i colori nitidi, le luci e le ombre che sembravano
palpabili,
quasi potessi intrappolarle fra le dita... si era rivelata una
situazione
meravigliosa.
Nota: Nel
corso della storia potrebbero essere presenti espressioni come
“Aye”
e “Nay”, che significano rispettivamente
“Sì” e “No” in
italiano, e “Och”, che
è un rafforzativo del “Sì”.
Esse non sono un errore, bensì una scelta personale
dell’autore, ormai affezionatasi a tale dicitura. Tenendo
inoltre conto del
luogo in cui la storia è ambientata, esse sono
un’ottima scelta linguistica.
DISCLAIMER:
All rights reserved
©
I
personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi
appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura
immaginazione. Ogni riferimento a
cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente
casuale, ad
eccezion fatta per le creature folkloristiche.
This
work
is licensed under a Creative
Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.
DÈ
A THA THU A’ CLUINNTINN, MO CHRIDHE? [1]
Alcuni
dicono che la vita sia una strada a senso unico, un grande binario che
procede
sempre dritto senza svolte significative.
Anch’io
l’avevo pensata così, al
principio, condizionato probabilmente dalla piattezza che mi circondava
e di
cui erano intrise le idee delle persone che solitamente frequentavo.
Prima
della battaglia di Culloden [2],
il mio era stato uno dei più potenti clan di tutta
la Scozia, se
proprio si voleva esagerare: il nostro nome era capace di provocare
mormorii
concitati e di richiamare sguardi sgomenti, incutendo terrore in
chiunque avesse anche solo pensato di pronunciarlo. O
almeno così mi era stato
raccontato. Ero difatti troppo piccolo per ricordare con esattezza quei
particolari, a quel tempo. Capivo ciò che mi succedeva
attorno, certo, ma non
coglievo appieno il significato di ogni singolo gesto o parola. Quelle
che mi
erano rimaste impresse, erano le idee e i pensieri sbagliati
di quella
società ormai in declino, concetti che non ero stato in
grado di scacciare
nemmeno crescendo.
E
così era stato fin quando la
battaglia non aveva portato alla nostra disfatta. Vinto lo scontro, il
governo
britannico sottomise noi tutti e la nostra amata Scozia, privandoci
d’ogni
nostra libertà, dei nostri usi e costumi, togliendo inoltre
qualsiasi autorità
ai capi d’ogni clan. Non c’era libertà
nemmeno nell’indossare il kilt.
Quella
fu una situazione che andò
avanti per anni, durante i quali la salute di mio padre, già
da tempo
cagionevole come quella della mia scomparsa madre,
s’aggravò. Morì ancor prima
di veder abolito il bando precedentemente imposto dai britannici,
lasciando a
me, suo unico erede, una modestissima somma di denaro che non toccai
mai,
nemmeno negli anni avvenire.
Utilizzai
solo quel poco che ero
riuscito a mettere da parte da me per seguire l’esempio di
molti altri
scozzesi: salpare verso le colonie del Nuovo Mondo.
Ma
il mio viaggio, almeno come
l’avevo immaginato io,
non cominciò mai.
Chiamatela volontà divina, chiamatelo
scherzo del destino, ma la notte prima della mia partenza, beh... io
morii.
Sembra assurdo da raccontare, e non vi do assolutamente torto. Se
qualcuno si
presentasse dinanzi a me, blaterando cose del genere, gli riderei in
faccia
senza tante pretese. Eppure è esattamente quello che
è successo. Forse se non
avessi incontrato sulla mia strada quei banditi e il mio cavallo non si
fosse imbizzarrito, disarcionandomi, le
cose
sarebbero anche andate diversamente. Se non avessi
sbattuto la testa
contro le rocce sottostanti, però, con molta
probabilità adesso
non sarei qui a
raccontarvi tutto questo.
Ricordo
fin troppo bene ciò che
accadde, quella notte. Non persi immediatamente conoscenza, anzi,
sentii
distintamente il furente scalpiccio degli zoccoli del mio destriero
sull’erba
umida, i sussurri concitati dei due uomini che mi avevano assalito e il
terrore
nel tono della loro voce, persino il momento in cui corsero via ed
intorno a me
non restò altro che il silenzioso, ma presente, mormorio
della notte.
Vagamente
consapevole che quella
trapunta di stelle che avevo iniziato ad osservare altro non
era che
la volta celeste, ci avevo messo non poco a capire che il
pulsare
che avevo cominciato a sentire nelle orecchie era il sangue che
tamburellava in
esse, seguendo il ritmo sempre più lento del mio cuore e
rendendo ovattato
tutto il resto.
Sarebbe
difficile tentare di
descrivere la bizzarra sensazione che provai nel sentire tutto il mio
essere
morire: vi siete mai ritrovati a svegliarvi di soprassalto durante la
notte, dopo
aver sognato di precipitare nel vuoto, provando quella sgradevole
sensazione di
caduta ancor prima d’aprire gli occhi? Ecco, quel che avevo
vissuto io sarebbe potuto essere comparato a quella stessa
percezione, con
la sola differenza che il mio non era un sogno dal quale mi sarei
svegliato.
E
forse fu proprio per quello che,
quella lontana notte, provai un attaccamento morboso alla vita,
rifiutandomi
d’accettare quel fato senza lottare e
d’incamminarmi su per quella strada a
senso unico che avrebbe segnato la mia morte. La mia vita non doveva
finire lì,
non era ciò che volevo: fra le ombre della notte, con i
richiami dei rapaci che
contrastavano nettamente con il debole pulsare del mio cuore, supplicai
di non
morire. Da chi fu accolta quella mia supplica non lo seppi allora e
temo non lo
saprò mai. Ciò che so per certo è che
sentii solo il dolore lancinante alla
testa serpeggiare finalmente in tutto il mio corpo. Mi fece contrarre i
muscoli
delle braccia e delle gambe, mi serrò la mascella e mi
mozzò quel poco fiato
che mi era rimasto nei polmoni ormai compressi. Nemmeno mi ero reso
conto, in
un primo momento, che i lampi che mi passavano fulminei dinanzi agli
occhi non
provenivano dal cielo, ma dalle fitte provocate dal mio cervello contro
le
pareti del cranio, e che danzavano sulle palpebre che non ricordavo
d’aver
abbassato.
Fu
in quell’istante che smisi di
lottare. Ma un alito gelido come il vento d’inverno,
gorgogliante come un
ruscello, parve capace di farmi restare ancorato a quel mondo,
sollevandomi
dall’abisso in cui ero sprofondato e artigliando la mia
anima. Divenne un
sussurro, una domanda che martellava le pareti del mio cervello e le
mie carni
ancora e ancora, insistentemente, senza darmi scampo o lasciarmi un
attimo di
respiro.
I
miei tentativi per scacciarla
dalla mente furono vani, e mi abbandonai completamente a quel mormorio
che
prometteva più di quanto io stesso avessi mai potuto
sperare. Esattamente non
seppi cosa successe, e forse anche questo sarà un
avvenimento senza risposta
alcuna, ma quando finalmente i miei occhi si riaprirono, fu come se
avessi
trattenuto il fiato fino a quel momento. La gola era riarsa, le labbra
secche,
respirare con regolarità era una fatica enorme. Pensai
d’esser morto, ma la
sensazione che provai nel sentire fra le dita l’erba bagnata
dalla rugiada fu
così reale che piansi, con lo sguardo rivolto a quel cielo
che man mano
diveniva perlaceo. Odori, suoni, persino il sapore del sangue sulle
labbra mi
diede la certezza che ero ancora lì, vivo,
sebbene sentissi in me
qualcosa di diverso che nutriva però la mia speme.
Non
domandatemi cosa fosse quel
qualcosa, non saprei rispondervi tuttora. Potete chiamarmi spettro,
diavolo,
demone o figlio delle tenebre, se ciò vi aggrada. A me non
importa. Chiunque
sia stato a farmi questo, fosse anche il Diavolo in persona, se lo
incontrassi
sul mio cammino, probabilmente, lo ringrazierei. Forse sono stato
semplicemente
dannato e non me ne rendo conto adesso come non me n’ero reso
conto a quel
tempo, ma ciò che provai durante quei primi giorni della mia
nuova esistenza
non lo scorderò mai: i suoni vivi, i colori nitidi, le luci
e le ombre che
sembravano palpabili, quasi potessi intrappolarle fra le dita... si era
rivelata una situazione meravigliosa.
Come?
Pensate che io sia un
vampiro? Nay, non so se sia la parola esatta per definirmi, non
chiedetemelo
con quel tono di referenziale timore. Forse lo sono, forse no. Non bevo
sangue,
ma, se qualche volta mi capita di assaggiarlo, il suo sapore non mi
disgusta.
Lo trovo anzi abbastanza piacevole. Evito qualche volta il sole, certo,
ma non
per paura che esso possa ridurmi in cenere.
Se
dovessi scavare nei miei
ricordi, cercando il momento esatto di quella mia alquanto bizzarra
trasformazione, non riuscirei a rammentare nulla di concreto.
Forse
sono davvero una sorta di
demonio, chi può dirlo. Forse quello sprazzo
d’erba su cui fui abbandonato era
un nugolo di presenze malvagie che avevano approfittato della mia
debolezza
d’animo per impossessarsi di me. Per quanto possa saperne,
può anche essere
stato il Demonio stesso ad aver accolto la mia supplica e ad avermi
reso quello
che sono adesso, qualsiasi cosa io sia realmente.
Ma
mai come in quei primi momenti
avevo sentito tutto il mio essere nel pieno delle forze, nel vigore
della
gioventù, con la consapevolezza che sarei potuto andare
ovunque volevo senza
sforzo alcuno. Fu proprio grazie a quei pensieri che decisi
d’intraprendere
quel mio viaggio che era stato così bruscamente interrotto,
ma non per
dirigermi nel Nuovo Mondo, nay, bensì verso quella stessa
nazione che ci aveva
così brutalmente sottomessi: l’Inghilterra.
La
ragione che mi spinse a farlo
non la saprò mai spiegare, così come tante altre
piccole cose che resteranno
per sempre senza risposta, ma sentii una strana forza, una bassa
melodia che
ancora oggi sembra risuonarmi nelle orecchie, che mi incitò
a mettermi in
viaggio verso Londra. Ed
è esattamente qui che ha inizio
la mia storia, la mia vita tramutata in atti che sparisce poi quando si
chiude
il sipario.
[1]
La
traduzione letterale è “Cosa stai ascoltando,
cuore mio?” ed è gaelico
scozzese.
[2]
Battaglia
combattuta il 16 aprile del 1746
nei pressi di Inverness, che vide sconfitti i giacobiti, sostenitori di
“Bonnie
Prince” (Charles Edward Stuart), dalle forze lealiste guidate
da William di
Cumberland, figlio del re Giorgio II.
Lo
scontro si concluse in una
disastrosa sconfitta, soprattutto a causa delle scarse innovazioni
belliche di
cui l’esercito scozzese era dotato; gli Highlanders, difatti,
s’ispiravano
ancora a strategie e concetti risalenti al medioevo. La fine della
battaglia
impedì del tutto agli Stuart di riconquistare il trono
inglese, ponendo fine al
sogno della Scozia di rendersi ancora una volta indipendente
dall’Inghilterra.
Dopo
la disfatta furono molti
i prigionieri, sia giacobiti che sostenitori: una stragrande
maggioranza fu
deportata nelle colonie, mentre i restanti vennero condannati, tenuti
in
carcere o mandati in esilio.
Per
sottomettere
definitivamente la Scozia, tra l’altro, il governo britannico
ne annientò
costumi e tradizioni, proibendo ai civili scozzesi di indossare il kilt
o di
suonare la cornamusa, fatta eccezione per i reggimenti facenti parte
dell’esercito inglese. A ciò si aggiunse inoltre
l’abolizione dell’autorità che
i capi avevano sui propri clan.
Il
bando venne abolito solo
nel 1782, periodo in cui l’immagine del mondo celtico andava
pian piano
estendendosi.
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
|