Couple Trouble
Neuro sanguinava.
Yako non avrebbe mai immaginato che anche lui, un giorno, avrebbe potuto sanguinare come una persona normale - e tanto copiosamente, per giunta.
Le sfingi di HAL non erano state affatto magnanime con lui: rigagnoli
scarlatti gli rigavano il viso, scendendogli lungo le guance ed il
collo martoriati e costellati di graffi, fortunatamente di lieve
entità.
Il suo abito sempre impeccabile adesso era ridotto a tessuto logoro
dagli innumerevoli strappi sparsi un po’ ovunque sugli arti ed il
torace, insozzati di altro sangue, stavolta in stato di
semi-coagulazione.
La sua espressione mostrava bene i segni della stanchezza e di uno
sfinimento profondo, incommensurabile. Era stato praticamente
prosciugato di tutti i suoi poteri o quasi.
Era esanime, e lei non aveva la più pallida idea di che cosa potesse fare per aiutarlo.
«Neuro...?!» chiamò la ragazza, dalla cui voce
trapelava una spiccata nota d’angoscia e paura, mentre
s’inginocchiava al suo fianco.
Il demone si spinse un po’ di più a ridosso della parete,
cercando di mettersi seduto in una posizione migliore ed un poco
più dignitosa.
«Come ti senti? Ce la fai ad alzarti?» chiese la Katsuragi,
facendo per posargli una mano sul braccio, ma lui la respinse via
bruscamente, con sdegno, anche se non riuscì ad infondere tanta
energia nel gesto.
«Non trattarmi come se fossi uno stupido essere umano,
serva!» esclamò in tono severo, anche se era palese il suo
sforzo di ostentare la sua solita arroganza.
A Yako non solo metteva un’angoscia tremenda vederlo in quelle condizioni, ma anche tristezza e... pena:
guardarlo cercare di non perdere tutta la sua dignità ed il suo
orgoglio, tentare di non soccombere all’umiliazione totale di se
stesso era qualcosa che le suscitava una profonda, incommensurabile
compassione nei suoi confronti.
Era come un grande, potente leone ferito.
«Scusami...» mormorò, cercando di reprimere le
lacrime che minacciavano di travolgerla da un momento all’altro.
Neuro emise un debole sospiro strozzato, appoggiandosi languidamente un
braccio sullo stomaco, andando a stringere la mano sul fianco sinistro,
poi si accasciò definitivamente contro la parete, le palpebre
dolcemente chiuse.
Nessun movimento: aveva perso i sensi.
Yako lo contemplò per qualche momento: adesso che era senza
sensi sembrava ancor più provato, inerme e, tutto sommato,
circondato da un alone di sofferenza che lo faceva sembrare più
umano - e bello - ai suoi occhi - anche se non sapeva se considerarla
una cosa positiva o meno.
Certo era che non poteva lasciarlo lì, ne rimanere ancora,
rischiando così che qualche seguace di HAL li trovasse e li
uccidesse entrambi.
Banalmente, la prima soluzione che le venne in mente fu di passarsi il
suo braccio destro sulle spalle ed alzarlo, nonostante non fosse affatto semplice, data la non indifferente diversità della loro stazza.
Barcollando sotto il peso morto del demone, la detective
s’incamminò quanto più in fretta poté verso
l’uscita.
Non riusciva a credere d’avercela fatta ad arrivare fino all’ufficio con il demone senza l’aiuto di nessuno.
Lungo la strada si era caricata il suo corpo sulle spalle, così
da potersi muovere un po’ più liberamente, anche se la sua
schiena si era lamentata non poco per lo sforzo improvviso che le era
stato richiesto.
Ancora adesso le spalle le bruciavano e le gambe faticavano a sorreggere tutto quel peso.
Quand’erano arrivati circa a metà strada
dall’ufficio, aveva cominciato a piovere - e non una
pioggerellina fine, ma uno scrosciare continuo e martellante
d’acqua gelata, come se un demone ferito e privo di sensi non
fosse già di per sé abbastanza.
La pioggia aveva lavato le ferite di lui e diluito il sangue che aveva
sparso addosso, facendolo scivolare giù a bagnare il cappotto di
Yako. Adesso era lei quella
impregnata di linfa, benché fosse parecchio diluita. In aggiunta
a ciò, il freddo che aveva accompagnato l’acquazzone le
aveva intirizzito i muscoli, non contribuendo affatto a migliorare la
situazione.
Quando finalmente spinse con fare stanco l’uscio dell’ufficio, la Katsuragi tirò un sospiro di puro sollievo.
Varcò la soglia a passo incerto, beandosi dell’improvvisa aria calda che la investì non appena fu dentro.
Avanzò, piegata in avanti, stringendo la presa sulle braccia di
Neuro - che si era strette attorno al collo - gocciolando copiosamente
acqua sul pavimento, sia limpida che ancora un poco rossastra.
All’interno non c’era nessuno, eccetto Akane, che penzolava
come al solito dal suo angolo di parete. Godai, evidentemente, era
uscito a fare un giro, ed in un certo senso era un bene: non sarebbe
stato molto d’aiuto in quel frangente.
Yako adagiò il corpo di Neuro sul divano, lasciandosi poi cadere
seduta sul pavimento, esausta. I suoi muscoli si rilassarono
immediatamente, cessando di dolere.
Rimase lì ferma per alcuni minuti, godendosi quei primi momenti
di riposo ed esaminando al tempo stesso Neuro, non sapendo che altro
fare.
Sapeva perfettamente che si sarebbe ristabilito da solo, ciononostante
il desiderio di curarlo era forte. L’impulso era dovuto
sicuramente al fatto che gli si era indubbiamente affezionata, a
dispetto di tutti i maltrattamenti ricevuti, e che adesso Neuro era una
parte integrante e vitale
della sua vita, una delle cose che rendevano sensata e completa la sua
esistenza - anche se si era sempre ben guardata dal dirglielo, dato che
s’immaginava una sua reazione non troppo entusiasta.
Più lo guardava e più si sentiva dispiaciuta per lui e
preoccupata per le ferite che non avevano ancora iniziato a
rimarginarsi.
A furia di fissarlo e angustiarsi per le sue condizioni, sentiva il
bisogno sempre più intenso di toccarlo, percepire fisicamente la
sua vicinanza.
Approfittando della sua incoscienza, gli carezzò una guancia,
passando delicatamente le dita sulla pelle graffiata, percependo un
calore, in fondo al petto, che alleviava in parte la sua preoccupazione.
Gli si avvicinò di più, continuando ad accarezzargli il
viso, aggrappandosi al contatto con la sua pelle martoriata come se
fosse un’ancora di salvezza per sottrarsi alla paura.
Il suo “volergli bene” aveva ormai raggiunto un livello ben
superiore al normale, quello che poteva benissimo essere definito amore,
anche se lei - benché conscia di ciò - facesse di tutto
per reprimere il sentimento: Neuro era un demone, dopotutto.
Non avrebbe mai potuto amarla.
Mentre era lì che lo sfiorava, lui riaprì lentamente gli occhi.
La prima cosa che guardò fu proprio lei, la quale arrossì
e ritrasse in fretta la mano per evitare di farlo arrabbiare,
però lui l’aveva sentita eccome la sua mano sul suo volto.
«Che cosa stavi facendo?» chiese con voce stranamente forte
e tono inquisitorio. Sembrava volerla aggredire verbalmente.
«N-niente...» mormorò lei, intimidita dalla sua reazione.
«Non è vero» ribatté lui con decisione,
continuando a guardarla con una certa intensità «Dimmelo.
Che cosa stavi facendo?».
La Katsuragi esitò un momento, poi rispose: «Ti stavo accarezzando. Tutto qui».
Neuro sorrise di sghembo, in modo un po’ malvagio ma con una nota velata di sofferenza.
«È tipico di voi umani cercare una consolazione nelle persone che amate» disse, puntellandosi faticosamente sui gomiti per mettersi meglio seduto.
Gli faceva ancora male un fianco, ma cercò di non darlo a vedere: odiava mostrarsi vulnerabile e debole.
Il tono con cui parlò - e soprattutto con cui pronunciò
l’ultima parola - denotava un disprezzo non indifferente verso la
cosa, che punse sul vivo la ragazza.
«Lo dici come se fosse una cosa brutta o una debolezza»
disse lei, badando involontariamente a tenere gli occhi incollati al
pavimento «E se anche fosse così? Se avessi voluto cercare
una consolazione?».
La poneva in modo ipotetico, ma era vero che voleva consolarsi, solo
che non glielo voleva dire. Oltre a ciò, non avrebbe voluto
neanche parlargli in quei termini né in tono così rude,
soprattutto perché le sue condizioni fisiche quasi le imponevano
di trattarlo con particolari riguardi, ma quel che aveva detto le aveva
urtato sensibilmente i nervi.
Lui non batté ciglio né si arrabbiò per la sua
mancanza di rispetto verso di lui, il suo teorico
“padrone”, contrariamente al solito - chissà, forse
quand’era moribondo gli passava anche la voglia di fare il
presuntuoso.
Tutto ciò che si limitò a dire fu: «Allora significa che mi ami».
Yako arrossì tutta, sgranando gli occhi, allontanandosi un po’.
«C-che cosa?!» fece, paonazza di vergogna «N-no, non
è vero!» asserì subito dopo. La tattica migliore,
in certi casi, era sempre e solo una: mentire.
Mentire spudoratamente, anche di fronte a prove schiaccianti.
«Io non ti amo!» ribadì.
Dirlo la fece sentire un verme. Fu come pugnalarsi da sola al cuore: un dolore acuto, penetrante, che la fece sprofondare letteralmente nei più bui e lontani recessi della sua coscienza.
Probabilmente era quella l’orribile sensazione che si provava nel
rinnegare i propri sentimenti per qualcuno, visto che non si era mai
sentita tanto male dentro prima di allora.
«No...?» domandò lui, poi aggiunse:
«Be’, non è rilevante per me: dopotutto, tu sei
soltanto un essere umano».
Lo disse con un tono di sufficienza tale che Yako si sentì non solo offesa, ma anche oltraggiata su tutti i fronti.
Percepì l’affermazione come uno schiaffo a lei medesima e
ai suoi sentimenti - e fu proprio uno schiaffo quello che gli
appioppò d’istinto in risposta, mentre le lacrime le
invadevano di nuovo gli occhi e, almeno stavolta, riuscivano a
traboccare oltre.
«Sei uno stronzo, Neuro!» sbottò.
Il demone si sfiorò la guancia lesa guardando la ragazza con gli occhi sgranati: aveva avuto non solo il coraggio di insultarlo, ma anche di picchiarlo.
Era un fatto senza precedenti.
Lei se ne stava lì, seduta sul pavimento, guardandolo con gli
occhi corrugati in uno sguardo arrabbiato mentre continuava a piangere.
La sorpresa di lui fu sostituita in breve tempo da un’espressione consapevole e vagamente maligna.
«Questa reazione conferma quanto ho detto prima: tu mi ami, Yako» concluse.
La ragazza ebbe un tremito momentaneo, prima di rispondere con
veemenza, senza pensare: «Sì, ti amo! È una cosa
tanto sbagliata?!».
Quando Neuro si comportava così non riusciva a non odiarlo,
anche se la sua stronzaggine lo rendeva dannatamente interessante.
Il demone ignorò completamente la possibilità che la
ragazza, in quel momento, non volesse essere toccata ed allungò
un braccio verso di lei, prendendole il mento ed alzandolo in modo tale
che si potessero guardare bene in faccia.
Yako constatò con un istantaneo moto di sollievo che i graffi sul suo viso si erano rimarginati.
«Sai qual è l’unico problema a fare coppia con
me?» chiese lui, senza alcun preavviso, cogliendola alla
sprovvista.
I suoi occhi brillarono subitaneamente d’un intenso verde smeraldo, mentre ghignava: «Io sono il problema. Non posso capire né ricambiare nessun tipo di sentimento. Questo non ti fa soffrire?».
Sembrava che volesse sentirsi rispondere con una frase melodrammatica tipo: “sì, mi fa soffrire tantissimo”.
Invece lei rimase a guardarlo per qualche minuto, interdetta, come se
non avesse capito una sola parola di tutto il suo discorso. Infine
rispose: «Lo so che non puoi amarmi, ma io non posso farci
niente: io ti amo e tu ormai sei una parte della mia vita. Non
riuscirei a smettere né di amarti né di preoccuparmi per
te neppure volendo».
Una frase melodrammatica le era venuta fuori comunque, tutto sommato.
L’inflessione che pose sull’ultima parola fece chiaramente
trapelare il messaggio che lei non aveva la minima intenzione di
smettere.
Tutto ciò che fece lui a quella risposta fu ridere.
Gli faceva un male tremendo allo sterno e al fianco - probabilmente
perché aveva anche qualcosa di rotto - ma non riusciva a
smetterla: era una di quelle risate sguaiate che vengono
d’istinto al sentirsi dire cose reputate assurde.
Yako si limitò a guardarlo e attendere. Del resto, non aveva la
più pallida e remota idea del perché fosse scoppiato a
ridere così improvvisamente.
Certe volte il suo comportamento le risultava davvero incomprensibile.
«Va’ a prendermi del ghiaccio, serva» le
ordinò il demone, non appena si fu ripreso e fu riuscito a
tornare minimamente serio.
La ragazza tergiversò un momento, poi si alzò e andò in cerca di ciò che le era stato richiesto.
In realtà, Neuro non aveva affatto bisogno del ghiaccio,
bensì di starsene un po’ da solo. Il fatto era che,
nonostante tutta la storia che non poteva provare nessun sentimento
eccetera, la dichiarazione di poco prima da parte della ragazza
l’aveva un po’ spiazzato.
Poteva anche non essere capace di corrispondere il suo amore,
però era rimasto ugualmente sorpreso: era la prima volta - per ovvie
ragioni - che qualcuno si interessava a lui su un piano totalmente
differente da quello del mero sfruttamento delle sue abilità
ultraterrene.
Pertanto, non sapeva se considerare la cosa positivamente o negativamente - se non addirittura ignorarla e basta.
«Ecco, Neuro» esclamò Yako, tornando da lui con un impacco di ghiaccio, che gli porse gentilmente.
Nel prenderlo, il demone giunse alla conclusione che, in fondo, non era
una situazione poi così grave o degna d’importanza come
aveva creduto all’inizio.
Oltretutto, se proprio doveva essere sincero, Yako non era neppure un
così cattivo partito: servizievole, mansueta, ubbidiente.
In pratica, la donna perfetta.
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