Questa storia
è leggera, poco impegnativa e dannatamente OOC. Ne sono
conscia e ho messo l’avvertimento, quindi non fatemi le piste
per la caratterizzazione di L.
Perdonatemi se lo dico in maniera così brusca: si
tratta di sfogo da scribacchina frustrata XD
Il fatto è che anche a me piange il cuore a vedere
questo personaggio trattato così, ma purtroppo ogni volta
riesco a tenerlo IC solamente finché non lo faccio parlare;
dopo, puntualmente, sfugge al mio controllo. E la cosa mi irrita non
poco! E’ un personaggio davvero capriccioso e
indisponente… ma confido nel fatto che prima o poi
riuscirò a domarlo! Quindi non me ne vogliate per come
l’ho reso; devo pur esercitarmi in qualche modo a
maneggiarlo, no? Per una volta, provate ad immaginare un L lontano
dalle indagini: esasperate il suo lato infantile, accentuate la sua
vena ironica (perché, sì, spesso L nel manga è
ironico), tenete a mente i suoi atteggiamenti bizzarri e calatelo in
una gag... ci siete? Bene! Siete pronti per immergervi nella lettura!
La prima battuta di Watari è presa dal minimanga
One day, disegnato dal sensei Obata e apparso nel libro “File
n° 15”; lo avreste mai detto che L dorme?!
L
accese il pc, ritemprato dalle quasi diciassette ore di sonno che si
era concesso e pronto per tornare operativo.
– Dopo centodue ore di veglia, forse dovresti
dormire ancora un po’. – gli suggerì
Watari, porgendogli premurosamente il vassoio della colazione sul
quale, accanto al bricco di caffè caldo e ad una ciotola
strabordante di zollette di zucchero, faceva bella mostra una fetta di
torta di fragole dall’aspetto invitante.
L ignorò il consiglio, senza però
mancare di ringraziare mentalmente l’anziano signore per le
attenzioni che poneva sempre nei suoi confronti.
Si sedette alla sua postazione, circondato da monitor,
schedari e dolciumi vari, e cominciò immediatamente a
studiare le segnalazioni che FBI, CIA e polizia di tutto il mondo si
erano scambiati durante il suo riposo, sintetizzate scrupolosamente da
Watari nel tabulato posato sulla scrivania. Trasferì otto
zollette di zucchero nella tazzina da caffè e prese a
sbocconcellare la torta.
Era pronto per iniziare la giornata nel migliore dei modi.
Se non che notò con la coda dell’occhio
che il vecchietto era rimasto in piedi al suo fianco senza accennare a
ritirarsi - come faceva abitualmente dopo avergli fornito tutto
l’occorrente - né a dare spiegazioni in proposito.
Quel comportamento poteva significare una cosa sola: Watari
stava per annunciargli un compito che sapeva non avrebbe gradito; e al
quale, per di più, non avrebbe potuto sottrarsi.
Era certo che non si trattasse di lavoro. Il fondatore della
Wammy’s House infatti sapeva bene che in quel caso ogni
tentativo sarebbe stato vano; L accettava esclusivamente i casi che
stuzzicavano la sua curiosità, e se non li giudicava degni
di attenzione non c’era verso di convincerlo.
No, doveva trattarsi di qualcos’altro.
Il ragazzo diede un’occhiata alla lista dei
compiti della giornata posata accanto al tabulato, anch’essa
redatta da Watari. Non vi scorse nulla di sospetto: “Contattare Maison, direttore
dell’FBI; intervenire a un’assemblea
dell’ICPO; discutere con il presidente degli Stati Uniti di
una faccenda delicata in cui pare siano implicate le più
alte sfere del Governo...”
Scorse la lista finché, arrivato circa a
metà, si bloccò e deglutì a secco:
“Passare al
laboratorio di D”.
Oh.
Mio.
Dio.
Ecco
cosa c’era.
“D
di disgrazia” pensò il detective,
mogio.
Si era sempre chiesto perché alla
Wammy’s House continuassero a tollerare la presenza di un
individuo del genere. D, apparentemente una ragazzetta da niente, era
un genio strampalato e completamente ingestibile. Era stata accolta
all’Istituto per la sua spiccata intelligenza, grazie alla
quale fin dalla tenera età aveva progettato invenzioni di
vario genere nei campi più disparati; ma ben presto era
divenuto chiaro a tutti che la sua genialità non avrebbe mai
portato a nulla di concreto.
Per di più D si era messa in testa che, data la
sua predilezione per i dolci, L potesse essere interessato a tutte le sue
invenzioni assurde in merito all’argomento. Di conseguenza,
non mancava mai di renderlo partecipe delle sue scoperte. Al ragazzo
venne in mente un esempio eloquente, tra i tanti episodi del passato.
– Guarda, ho assemblato un termometro che avverte
quando una torta è bruciata! Volevo che fossi il primo a
vederlo! – aveva esclamato raggiante indicandogli, sul
carrellino che si era trascinata dietro, un marchingegno dalla mole
tale che non sarebbe mai
riuscito ad entrare in un forno normale.
– Le sue dimensioni non sembrano molto pratiche...
– le aveva detto lui, laconico.
– Sciocco! – aveva ribattuto la ragazza
ridendo, come se dare dello sciocco ad L fosse stata la cosa
più naturale del mondo. – Non si deve
necessariamente tenere in casa! Anche in giardino va benissimo! O in
cantina. O sul balcone. Funziona a distanza, grazie ad un sensore a
impulsi positronici! –
– A cosa serve un termometro che avverte quando il
danno ormai è fatto? – le aveva chiesto, con tono
piatto.
– Non è questo il punto. Funziona, no?
– aveva ribattuto lei con una logica tutta sua.
Il problema di D era proprio quello. Per lei il mezzo era
più importante del fine. Era la creazione in
sé ad attirare la sua attenzione;
l’utilità, presunta o concreta che fosse, era una
conseguenza secondaria.
E il concetto di “creare”, in un
cervello bislacco come quello, aveva avuto degli sviluppi inaspettati:
l’interesse di D con il passare degli anni si era concentrato
sull’arte bianca, ovvero la pasticceria.
Naturalmente non bisogna credere che il suo personale
concetto di pasticceria combaciasse con quello comune. I prodotti della
sua mente erano meraviglie dell’architettura, in cui la
perfezione geometrica e l’originalità della
fantasia raggiungevano il culmine: dolci incredibili, sbalorditivi,
invitanti... e assolutamente immangiabili. Era capace di usare il
detersivo in polvere in mancanza della farina, il sapone al posto del
burro, o il dentifricio in gel invece della marmellata, a patto che
avesse un colore interessante.
Del resto, il fine ultimo di un dolce non la riguardava affatto, in
quanto giudicato superfluo.
Così, tutte le invenzioni della ragazza erano
dirette a coadiuvarla nel campo dolciario per facilitarle il lavoro, ma
in un modo apparentemente privo di senso. In verità, dire
che le scoperte di D fossero insensate non era esatto; solo,
all’atto pratico si rivelavano totalmente inutili per
qualsiasi individuo raziocinante che non fosse stato il loro inventore.
I docenti della Wammy’s House avevano tentato
più volte di indirizzare il suo talento verso
attività più proficue, ma con il passare degli
anni i loro sforzi si erano rivelati inutili. Sembrava che in lei
vigesse esclusivamente il binomio genio-follia. Alla fine tutti si
erano rassegnati a lasciarle fare ciò che più le
aggradava, convinti che la ragazza soffrisse di una qualche forma di
menomazione mentale che le intaccava la sfera della logica pur senza
danneggiare quella intellettiva. Le avevano assegnato una cucina
spaziosa, in cui poteva sbizzarrirsi con le creazioni più
astruse, e non l’avevano più obbligata a seguire
nessun tipo di corso di studio. Da allora, D aveva vissuto praticamente
a tempo pieno nel suo “laboratorio”, guardata con
sospetto da alcuni compagni e con compassione da altri, con il suo
perenne sorriso da alienata stampato in faccia.
L tentò di pensare velocemente ad una soluzione
per sviare dall’impegno indesiderato, senza osare voltarsi
direttamente verso Watari. Purtroppo l’anziano signore lo
conosceva fin da bambino e, oltre ad avere ancora un certo ascendente
su di lui, avrebbe sicuramente riconosciuto una scusa. Gli sarebbe
bastato uno sguardo per leggergliela in faccia.
Per di più, Watari sembrava avere intuito la sua
ritrosia, e pareva aver già adottato una tattica: L
reputò che l’attesa paziente del vecchietto alle
sue spalle fosse a dir poco snervante. Certamente l’uomo sapeva che lui
aveva già scorso tutta la lista degli impegni trovando il
punto incriminato, e di sicuro si ostinava a non dire nulla al solo
scopo di tenerlo sulle spine di
proposito e farlo capitolare. Doveva decidersi ad
affrontare la situazione e ad anticiparlo facendo la prima mossa; dopo
tutto, era ridicolo
rimanere in silenzio in quel modo, lasciando che il tempo trascorresse
inutilmente!
– C’è dell’altro?
– chiese, tanto per tastare il terreno, ma temendo la
risposta.
– Stamattina D ha chiesto una tua... consulenza.
Sta allestendo una mostra. – rispose educatamente
l’anziano.
Una mostra? Figuriamoci, non aveva nessuna voglia di perdere
tempo dietro alle fantasie di una mentecatta.
– Ho un impegno urgente e improrogabile. Credo che
non sarà possibile. – rispose, sperando di
liquidare la faccenda.
Ma che brillante giustificazione! Perché in
presenza di Watari, al di fuori dell’ambito lavorativo, la
sua acutissima mente doveva regredire all’infanzia?
– Ti sei appena svegliato, e non hai ancora deciso
a cosa lavorare. – gli fece notare l’altro.
– Ho letto sulla lista che devo presenziare a una
riunione dell’ICPO alle dieci in punto. Non mi rimane molto
tempo. – ribatté caparbiamente il detective.
Avrebbe tenuto duro.
– Proprio così. Quindi è
meglio affrettarsi a passare dal laboratorio di D. Dopo potrai
dedicarti a tutto il resto senza essere distratto da nessuna
preoccupazione. – continuò Watari con il consueto
tono rispettoso.
Eh no, non l’avrebbe avuta vinta! Diamine, era
adulto, e padrone delle proprie decisioni. Si voltò verso il
suo tutore, deciso a fronteggiarlo.
– Sentimi bene, io... –
cominciò.
– L... – lo interruppe
l’altro.
L’espressione placida sul volto di Watari non era
mutata, ma il tono di voce ebbe il potere di zittire il detective
all’istante. Calmo. Deferente. E spaventosamente perentorio.
– Sì? – riuscì a
mormorare.
– ...dovresti essere più gentile con le
ragazze. – fu la conclusione lapidaria.
Niente da fare, l’autorità di Watari su
di lui era ancora salda come una volta. L, rassegnato, si
alzò dalla sedia srotolandosi dalla sua assurda posizione e
si avviò verso il laboratorio di D, con le mani cacciate a
fondo nelle tasche e più incurvato che mai.
..oOOo..
Il
laboratorio, che D chiamava “la fucina
dell’estro” ma che tutti conoscevano come
“l’antro della cuoca pazza”, era
un’enorme cucina attrezzata che si estendeva su
un’area di circa quaranta metri quadri, ottenuta unendo tre
camere del dormitorio. In essa mobili, pentolame ed elettrodomestici si
alternavano ad apparecchiature elettroniche, arnesi da lavoro e cavi
elettrici che correvano lungo il pavimento.
Sulla porta spiccava una targa dai colori pastello che
citava “D’s lab :)”. L
pensò che quando D parlava del suo laboratorio se lo
immaginasse proprio così, con una faccina sorridente al
fondo. Girò il pomello della porta, entrò... e
quasi si scontrò con due ragazze slanciate e attraenti che
indossavano nient’altro che un corto accappatoio.
– Uffa, non è ancora arrivato...
– sbuffò annoiata una delle due.
Portava i capelli raccolti in una curiosa acconciatura di
bastoncini di vaniglia e ciliegine candite.
– Chi dovrebbe arrivare? – chiese il
ragazzo, incuriosito dallo strano incontro.
– Quella
là ha detto che non può finire il
mio vestito finché non le portano della panna da montare!
– gli rispose la seconda.
L si accorse con sorpresa che, ad una più attenta
osservazione, il trucco del viso della giovane era composto non da
normali cosmetici, ma da un sottilissimo strato di zucchero colorato.
In quel momento la conversazione fu interrotta da uno
strillo acuto, proveniente dal retro di una tenda che serviva da
divisore tra la cucina e l’area di lavoro.
– Oh, scusa! Non mi ero accorta che fosse ancora così
caldo! – cinguettò un’inconfondibile
vocina femminile.
“Chi
sta torturando questa volta?” si chiese il
detective, con un sospiro.
– Posso entrare? – domandò,
scostando la tenda.
Quello che vide lo lasciò di stucco. D, per mezzo
di una sac à poche (1), stava
tracciando il disegno di un elaborato arabesco di cioccolata
direttamente sul petto e l’addome di una ragazza sdraiata sul
tavolo. Quest’ultima era completamente nuda ad eccezione di
un succinto perizoma color pelle, ed era graziosa al pari delle altre
due ragazze che aveva incontrato all’ingresso della cucina.
Immobile sulla lastra di marmo nonostante l’espressione
insofferente sul viso, attendeva che la pasticciera terminasse
l’arabesco, del tutto indifferente al fatto che un uomo
avesse fatto il suo ingresso. L notò che il disegno di
cioccolata simulava una guepière dalla trama raffinata.
Poco più in là, una fotografa era
intenta ad inquadrare una quarta modella da diverse angolazioni,
scattando foto senza sosta con la sua reflex. L rimase senza parole:
l’ultima modella indossava quello che sembrava essere un
sofisticato abito di pan di Spagna e marzapane.
L’esclamazione di gioia di D lo riportò
alla realtà.
– Piccolo Pandaaaa! Sei venuto a trovarmi!
– esultò vedendolo.
Gli si lanciò contro senza mollare la sac
à poche che stava utilizzando, con il risultato di
macchiargli vistosamente la maglia bianca con la crema al cioccolato
che vi era contenuta.
“D
di disastro…” pensò L,
irritato.
– Non mi chiamare con stupidi soprannomi. Non
siamo più bambini! – la rimproverò.
– D’accordo, Piccolo Panda –
rispose la ragazza fissandolo con sguardo adorante.
– Chiamami L! –
– Come vuoi, Ellino! –
continuò lei, senza smettere di sorridergli.
“Rettifico:
D di demente” puntualizzò L fra
sé.
La ragazza tornò allegramente
all’occupazione che aveva interrotto. La divisa bianca che
indossava le cadeva dritta sul corpo efebico, privo di curve e fianchi.
Una ciocca di capelli le sfuggì dal cappello da cuoco; D se
la risistemò dietro l’orecchio, lasciando una
sbavatura di cioccolato a fare compagnia alla chiazza di zucchero a
velo che le imbrattava una guancia.
– Watari ti avrà accennato della
mostra. In realtà, all’inizio volevo organizzare
una sfilata di moda dal vivo, con vestiti commestibili! Non
è emozionante? Però c’era un problema:
non sarebbe stato possibile far sfilare tutte le mie opere direttamente
davanti al pubblico, perchè alcune sono troppo deperibili e
di breve durata. Così ho pensato di farle immortalare, e di
abbinare una mostra fotografica alla sfilata! L’ho intitolata
“le belle pasticcine”. E’ un gioco di
parole, l’hai capito? Ricorda “le belle
statuine”, ah ah ah! – lo informò
ridendo.
“Confermo.
D di demente” pensò L, guardandosi
però bene dall’esternare la propria opinione.
– Quel vestito, in particolare, mi è
costato parecchia fatica. All’inizio non avevo la
più pallida idea di come confezionarlo. Voglio dire, non
è che possa cucire il pan di Spagna... meno male che sono
riuscita a tenerlo insieme con un condensato di marmellata e bostik!
– concluse D con un sorriso radioso, in attesa di un
apprezzamento dal suo interlocutore per la brillante trovata.
– ...bell’idea... – la
accontentò L con sufficienza.
Il pensiero di cosa potesse aver usato la ragazza oltre al
bostik gli tolse ogni appetito verso quelle splendide creazioni.
D gli si avvicinò, parlando a bassa voce per non
farsi sentire dalla modella vestita di marzapane.
– Cioè, se avessi potuto ficcarla
direttamente nel forno avvolta nell’impasto sarebbe stato
tutto più facile... ma non credo che si possa fare, vero?
– chiese speranzosa, come se un’eventuale risposta
positiva del detective avesse potuto darle il via libera.
L la scrutò attentamente senza riuscire a capire
se stesse scherzando. Scacciò dalla mente il dubbio atroce
che gli stesse dicendo la pura e semplice verità.
In quel momento qualcuno bussò alla porta,
spalancandola senza attendere il permesso di entrare.
– Mello, finalmente! – lo accolse D
saltellandogli incontro.
– La tua panna, dottor Frankenstein –
l’apostrofò il biondo, sbattendo un cartoccio da
due litri sul piano di lavoro della cucina.
– Grazie! – rispose lei giuliva. Poi,
con aria contrita, aggiunse: – Senti, non è che ci
hai ripensato? –
– Neanche morto! Non ci pensare nemmeno, non mi
lascerò mai trasformare in un ricoperto al cioccolato!
– ringhiò il ragazzo.
– Ma ti ho già spiegato che non ci
sarà nessun pericolo! Il cioccolato sarà tiepido! E ti
lascerò libere le narici! – ribattè
lei, con gli occhi lucidi.
– Non mi freghi! – rispose Mello.
– Vuole immergermi nel cioccolato fuso e farmi partecipare
alla sua dannata mostra! – spiegò rivolto al
ragazzo moro.
– Ma non capisci? Il cioccolato è il
must del momento! Pensa, un ricoperto al cioccolato vivente... Ti
intitolerei “Magnum”, come il gelato della Wall's! (2)
Saresti il pezzo forte della sfilata! – piagnucolò
lei.
– Come no! Conoscendoti, per completare
l’opera saresti perfino capace di infilarmi una stecca nel...
–.
Il campanello del forno censurò
l’ultima parola di Mello.
– Ah! Il cappello di meringa è pronto!
– esclamò D correndo ad estrarre la teglia e
mollando il “pezzo forte” della mostra a lagnarsi
con il detective.
– Bene, ora che è arrivata la panna
posso preparare il “bikini montato”! –
annunciò poi, tornando nell’area di lavoro
reggendo una ciotola con una mano e un apparecchio elettrico con
l’altra.
Chiamò la modella con il trucco di zucchero e le
chiese di distendersi sul tavolo al posto di quella con la
guepière di cioccolata, che nel frattempo si era
solidificata. La modella sciolse il nodo della cintura
dell’accappatoio e gettò a terra
l’indumento, rimanendo di colpo completamente nuda e facendo
rischiare un mezzo infarto ai due ragazzi presenti. Incurante della
loro reazione, si sdraiò elegantemente sul piano di lavoro.
– Un pasticciere degno di questo nome monta la
panna a mano, ma per questa volta farò
un’eccezione e inaugurerò il mio nuovo frullino
semovente a flusso ordinato di cariche elettriche (3)
– spiegò D, sollevando l’apparecchio
come un trofeo.
– Assomiglia in tutto e per tutto a un comunissimo
sbattitore elettrico – le fece notare Mello.
D mise in moto l’apparecchio, senza curarsi
dell’osservazione del biondo.
– Hai proprio ragione –
concordò L.
Quest’ultimo commento, al contrario, parve pungere
la ragazza sul vivo.
– Non vorrai insinuare che copio le invenzioni
altrui? – rispose con un tono stizzito che non le era
consono.
L rimase colpito dal suo scatto: era sicuramente la prima
volta in cui la ragazza gli si rivolgeva priva
dell’eterno sorriso sul volto.
– Non so cosa sia, questo “sbattitore
elettrico” – borbottò imbronciata fra
sé e sé.
Dopo di che non disse più una parola.
Cominciò a lavorare la panna liquida con il frullino
finché non triplicò di volume e si
solidificò. Sempre in silenzio, applicò poi una
bocchetta rigata ad una nuova sac à poche e
riempì la tasca di panna montata per mezzo di una spatola.
Ad L quel mutismo sembrò innaturale come il
sorriso svanito. L’atmosfera si era fatta improvvisamente
pesante; per di più, Mello ebbe la splendida idea di
defilarsi, mollandolo lì ad arrabattarsi per cercare una
soluzione. A cosa, poi? Non riusciva proprio a capire perché
D se la fosse presa con lui. Dopo tutto, era stato Mello a parlare per
primo.
– Lo sbattitore elettrico è un
apparecchio composto da due fruste e un motore, ma molto più
lento, grezzo e antiquato del tuo. A guardare meglio, si vede
chiaramente che sono due cose completamente diverse! – le
disse nell’intento di rimediare.
– Non prendermi per scema. – fu la
risposta di D.
L’incrinatura che avvertì nella sua
voce lo meravigliò ancor più
dell’arrabbiatura apparentemente ingiustificata della ragazza.
“D
di depressa. Questa mi mancava”.
La ragazza, muovendo con maestria la sac à poche,
cominciò a disegnare addosso alla modella i contorni del
bikini con lunghi ghirigori di panna montata, riempiendoli poi con
linee orizzontali e verticali in modo da riprodurre la trama di una
stoffa. Completò il motivo con alcuni ciuffetti di crema e
con bacche di mirtilli e lamponi, ed infine posò sulla testa
della modella un turbante di zucchero filato. Durante tutta
l’operazione mantenne sul viso quell’aria
corrucciata del tutto estranea alla sua solita espressione.
– Fatto. Ora puoi sfilare davanti alla macchina
fotografica – proferì con voce atona.
L’entusiasmo con cui aveva lavorato
all’idea di quell’evento si era smorzato.
Naturalmente aveva mentito, riguardo lo sbattitore
elettrico. In quanto appassionata di pasticceria, era ovvio che
conoscesse un attrezzo del genere. Ma la sua invenzione, rispetto ad
esso, era molto più evoluta: sfruttando la particolare forma
aerodinamica delle fruste e gli impulsi elettrici trasmessi ad esse dal
motorino da lei stessa brevettato, permetteva di montare panna o albumi
in un tempo irrisorio senza surriscaldarne le molecole. Il sensore
bloccava automaticamente l’apparecchio quando la panna
raggiungeva la giusta consistenza, evitando così di farla
impazzire o di trasformarla in burro. Ma l’idea che
quell’apparecchio, così simile ad un comune
sbattitore, avesse potuto essere in realtà qualcosa di molto
più avanzato, evidentemente non era nemmeno passata per
l’anticamera del cervello del detective. Come tutti gli
altri, anche lui aveva creduto che il genio strampalato della
Wammy’s House non fosse in grado di produrre nulla di
utile…
D sapeva benissimo che le sue invenzioni non venissero
comprese, e sapeva altrettanto bene che gli altri la considerassero
diversa. Lei stessa
era conscia di essere diversa; solo non capiva il perché. La
spiegazione le sfuggiva, aleggiando appena al di sopra della soglia
della sua comprensione, come quando non riusciva a cogliere
l’essenza delle lezioni di filosofia e etica che i suoi
compagni sembravano apprendere con estrema facilità. Per
lei, le uniche cose comprensibili erano la matematica, la meccanica, la
fisica; tutto ciò che esulava dalle scienze esatte era fuori
dalla sua portata.
A volte pensava che probabilmente, se fosse nata e vissuta
su un’isola deserta, avrebbe condotto un’esistenza
felice all’oscuro della propria diversità; ma, a
contatto con la gente, non poteva fare a meno di avvertire la loro
diffidenza nei suoi confronti. Cosa c’era di diverso tra il
suo comportamento e quello degli altri? Perché la
giudicavano strana? Non riusciva a comprenderlo. Aveva la netta
impressione che il proprio handicap, se così si poteva
chiamare, le stesse precludendo un’enorme fetta di vita che
non sarebbe mai riuscita ad afferrare appieno: come le lezioni di
filosofia, sarebbe rimasta per sempre un privilegio degli
“altri”.
In L a volte avvertiva la sua stessa diversità.
Forse per questo lo sentiva più vicino di qualsiasi altro
ragazzo della Wammy’s House. Tuttavia, la presunta
diversità di L, a differenza della sua, era volontaria. Lui
si emarginava coscientemente dalla vita sociale, perché i
suoi interessi erano rivolti altrove;
l’eccentricità del suo comportamento era dettata
dal suo carattere peculiare, e non indotta da una tara mentale.
Nonostante ciò, L era l’unica persona
che avesse provato a leggerle dentro, senza farsi influenzare dalla
definizione di “geniale ma stramba” con la quale la
ragazza veniva etichettata e liquidata dalla maggior parte della gente
che si teneva alla larga da lei. In verità, quella del
detective era pura curiosità: se Watari e Roger avevano
creduto in D al punto da assegnarle una lettera dell’alfabeto
– premio riservato esclusivamente agli allievi che
possedevano capacità tali da poter contribuire alla salvezza
del mondo con il loro operato – qualcosa di utile in lei
doveva esserci. Di conseguenza, il suo spirito investigativo lo aveva
spinto irresistibilmente a scoprire di che cosa si trattasse.
Ma D tutto questo non poteva saperlo; da parte sua, credeva
piuttosto che L le si fosse avvicinato per distrazione o per noia. In
fondo, il vero motivo non le importava; le piaceva poter scambiare
qualche parola con quel ragazzo che, al pari di lei, sembrava isolato
dal mondo esterno. La faceva sentire meno reietta.
Fino a quel momento lo aveva ritenuto migliore di tutti gli
altri, ma a quanto pareva si era illusa. Il suo commento sullo
sbattitore le aveva aperto gli occhi, ferendola.
D rimase a fissare le modelle che posavano davanti
all’obiettivo esibendosi con i suoi abiti mangerecci e
facendoli risaltare con la loro grazia. Le invidiò un
pochino.
Non si poteva definire bella, lei: i capelli, di un biondo
senza tono, incorniciavano il viso smunto dai lineamenti anonimi e
dagli occhi cerulei, di una sfumatura così slavata da
risultare insignificante. Le labbra, lungi dall’assomigliare
a quei boccioli pieni e morbidi tipici delle adolescenti, erano
sottili, quasi ceree. L’unico pallido tocco di colore era
dato dalle guance, di un tenue rosa pesca.
Anche il sul corpo era anonimo; ancora acerbo, non faceva
intuire neanche l’accenno di una curva femminile.
Sì, in quel momento D pensò di
invidiare davvero le ragazze che si pavoneggiavano indossando le sue
creazioni, ridendo fra loro e mettendosi in posa. Si ritrovò
a pensare che, pur non possedendo un briciolo della sua
creatività, potevano permettersi un sacco di esperienze che
a lei erano precluse, e si sentì triste. Non le era certo
sfuggito lo sguardo dei due ragazzi davanti al corpo nudo della
modella. Lei, al contrario, non avrebbe mai attirato
l’attenzione di nessuno.
– Trovo che tu abbia avuto un’idea
davvero originale, con questa sfilata. – le disse L, alle sue
spalle.
Lei si voltò verso di lui, indecisa se credere o
meno alle sue parole.
– E’ per questo che mi hai fatto
chiamare, no? Volevi un mio parere. Beh, credo che il pubblico
rimarrà a bocca aperta. – continuò.
La ragazza lo fissò assorta. In altri momenti gli
sarebbe saltata festosamente al collo, entusiasta del suo giudizio,
guadagnandoci da parte di lui una smorfia irritata che trovava
estremamente comica. Ma in quel momento si chiese se non la stesse
prendendo nuovamente in giro.
Quel pensiero la turbò: provare sospetto per L
era una sensazione del tutto nuova, aliena. E spiacevole.
Lo aveva considerato un amico per tanto tempo; forse,
sbagliava ad essere così precipitosa, giudicandolo male per
una breve, unica frase e negandogli una seconda possibilità.
Però, se non fosse stato sincero, lei questa volta ci
sarebbe rimasta male per davvero…
Il ragazzo si accorse del suo nervosismo. Non gli piaceva,
questa “D
diffidente”, così diversa dalla
ragazza svampita a cui era abituato. Gli diede la sensazione che
qualcosa fra di loro si fosse irreparabilmente infranto; un legame
prezioso e speciale, che fino a poco prima era riservato esclusivamente
a lui e a nessun altro.
Poi lei sorrise, e l’inquietudine svanì.
La ragazza aprì il frigo e ne estrasse un
dolcetto dall’aria deliziosamente invitante. Lo porse al
detective, che però esitò.
– Coraggio, prendilo! Ti assicuro che
l’ho preparato soltanto con ingredienti commestibili!
E’ per ringraziarti del tempo che mi hai dedicato, Piccolo
Panda. – lo incoraggiò, ridendo della sua ritrosia.
– Allora grazie. – rispose lui,
accettando il dolce e avviandosi verso l’uscita. –
Sono sicuro che la sfilata sarà un successo... anche senza
il “pezzo forte”. –
D non smise di sorridergli, ed L si sentì
risollevato. Come se avesse rischiato per un pelo di perdere qualcosa
di essenziale.
..oOOo..
L
posò il dolcetto sulla scrivania. Era un vero gioiellino di
arte pasticciera; se il sapore era all’altezza
dell’aspetto, si sarebbe rivelato senza dubbio il dolce
più squisito della sua vita.
Per un momento fu sfiorato dal pensiero che sarebbe stato un
peccato rovinarlo mangiandolo… e un attimo dopo il pensiero
venne giudicato estremamente stupido e blasfemo, e scacciato senza
indugio.
Dopo tutto, un dolce esisteva appositamente per essere
mangiato. E poi a D avrebbe fatto piacere sapere se gli era piaciuto.
D…
Chissà quanto impegno doveva averci messo nella
preparazione di quel dolce, appositamente per lui!
– D di... dolcezza? – mormorò
soprappensiero.
Che stupidaggine, quella ragazza era così
strampalata che i due termini non avrebbero mai potuto coesistere nella
stessa frase. Nonostante ciò, L non riuscì a
cancellare del tutto la sensazione che aveva avvertito quando lei gli
aveva porto il suo regalo, con il sorriso radioso stampato sulla faccia
e le guance un po’ più colorite del solito. In
quel momento, gli occhi le brillavano di felicità. Gli era
sembrata davvero tenera.
Per un attimo L si sentì vicino a svelare il
mistero della presenza della ragazza alla Wammy’s House. D
non avrebbe mai potuto succedergli, questo era un dato di fatto; era
una persona incoerente e completamente scollegata dalla
realtà, con gravi problemi di integrazione sociale.
Però, proprio per questo motivo si era legata a lui; in un
certo senso, D dipendeva
da lui. E ciò lo rendeva in qualche modo responsabile della
sorte della ragazza. Avrebbe potuto continuare ad ignorarla come aveva
fatto fino a quel momento, oppure accettare la sua amicizia
disinteressata, sobbarcandosi la conseguenza di farle un po’
da fratello maggiore. Però, in questo caso, avrebbe dovuto
cominciare a prendere coscienza lui stesso dei
rapporti umani dai quali si era sempre tenuto alla larga.
Forse la soluzione era tutta lì. Roger e Watari
avevano visto in D l’elemento che avrebbe potuto sostenere L
nella sua missione in un modo particolare: costringendolo a far
affiorare dentro di sè un senso di altruismo.
Dopo tutto, era impensabile poter salvare il mondo chiudendo
fuori i sentimenti umani.
Guardò l’ora: le dieci meno cinque.
Chiamò Watari e gli chiese di metterlo in contatto con la
sede dell’ICPO. Avrebbe fatto in modo di liquidare la
riunione il più in fretta possibile. Poi finalmente avrebbe
potuto godersi il suo dolce in pace: meritava di essere gustato con
calma.
(1) La sac à poche è la tasca da
pasticciere, ovvero l’attrezzo che serve per decorare i
dolci, riempire i pasticcini, fare zeppole e bignè, ecc.
(2) Wall’s è il marchio
dell’Algida in Inghilterra (la Wammy’s House si
trova a Winchester). Eh sì, sono capace di badare a queste
inezie infinitesimali e contemporaneamente di trascurare vagonate di
particolari basilari. Questa è AngelVirtues, gente!
(3) Un flusso ordinato di cariche elettriche è un
insieme di paroloni per definire la comune corrente elettrica ^^
Il confessionale:
ringrazio tutti quelli che hanno letto, tutti quelli che vorranno
eventualmente darmi consigli su migliorie da apportare alla storia, e
naturalmente tutti quelli che si sono divertiti leggendola ^^
Dite la verità, dal titolo vi aspettavate una mielosa storia
d'amore marysuesca, eh?
Dunque, la volta scorsa ho scritto una storia su R, adesso sono passata
a D. Uhm, credo che, nel caso in cui mi venisse l'idea per una terza
lettera, farei meglio a radunarle tutte in una raccolta XD
Un ringraziamento speciale va a Micch,
che ha betato il testo dandogli quel tocco in più che fa
sempre tanto bene!
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