Questo racconto ha partecipato al "Waving Feather Contest ~ La vita è una piuma che ondeggia" di Shadow Madness, aggiudicandosi il Secondo Posto e il Premio Miglior Storia. Qui sotto il giudizio di Shadow :)
Valutazione “Briciole di felicità” di Dubhe Shadow classificata 2°a
e vincitrice del premio della Miglior Storia
Correttezza grammaticale: 8/10 Lessico e stile: 7/10 Caratterizzazione dei personaggi: 8/10 Originalità: 10/10 Attinenza al tema: 10/10 Gradimento personale: 9/10 Totale: 52/60
“Grammaticalmente corretta, a parte qualche piccola sciocchezza. Stilisticamente (però è solo un’opinione personale) il testo si legge con una leggera difficoltà, ma le descrizioni sono valide, alcune mi sono piaciute moltissimo.
La caratterizzazione è buona, anche se ritengo che avresti dovuto approfondirla ulteriormente, e dare una motivazione a certi fatti. Comunque ciò ha quasi aumentato l’originalità della ff: io, perlomeno, non ho mai letto di fauni e fate, e per di più in un modo così grazioso! Il contesto, oltretutto, trovo si addica molto al tema che ho scelto, grazie alla vita fragile –come le sue delicate ali– della fatina, arricchito poi da tutto l’amore che il fauno le serba, tutta la cura che utilizza per aiutarla.
Non saprò mai dirti quanto mi sia piaciuta e quanto mi abbia colpita. Bravissima, complimenti.”
La mia fata si è ammalata.
Ogni
mattina strofina
le ali con della polvere magica, per poter volare. Perché da
sola non ce la fa
più. È tutta contenuta in una borsetta di tela
che porta legata in vita, la sua
polvere, da custodire gelosamente, da usare con parsimonia. Un
mucchietto al
giorno, per sopravvivere.
Arriva
sera ed è
stanca, e le sue ali di trasparenti petali di giglio giacciono
abbandonate
sulle spalle: una sacca di dolore che si trascina dietro. Le occhiaie
distruggono la bellezza dei suoi occhi d’ametista, che
nemmeno un raggio del
sole al tramonto riesce ad accendere di nuova luce.
La
mia fata si è
ammalata: non vuole più sognare. E io, che la amo
più della mia vita, le
donerei ogni mio sogno pur di far tornare le sue ali a splendere.
Spesso
me l’ha detto,
me l’ha sussurrato nell’orecchio, al suo caro fauno
impertinente: «Perché suoni
sempre di feste e cose belle? I tuoi occhi sono ciechi, forse, che non
vedi
quante creature muoiono qua intorno?»
Suono perché non so
ballare con la Morte, e allora chiamo le
altre sue signore, le dame che spesso s’inchinano al suo
cospetto, affinché
facciano compagnia ai miei saltelli allegri. Credo che le mie canzoni
spargano
speranza, e loro danzano, danzano intorno, il cerchio magico di Faerie,
e la
speranza la creano davvero: sono le risa dei bambini che, dal mondo
reale, si
affacciano sul nostro universo.
Ma
ora non suono più neanche
io, e Gioia si è offesa con me, e Gaia non mi vuol parlare.
Misericordia tace e
il suo sguardo mi perfora le spalle, Lussuria si consola con un troll
che vive
oltre le montagne. Ho perso tutte le mie muse.
Poco
male, ho la mia
fata da salvare. Devo portarla via dai suoi ricordi, prima che
qualcos’altro
l’allontani da me.
Però me ne sono accorto
troppo tardi. Lei piangeva sola, nascosta
fra i petali del suo crisantemo, e io intanto le chiedevo baci, le
chiedevo la
sua bellezza, e non mi accorgevo che stava morendo dentro. Che sciocco,
povero
sciocco fauno!
Ma
come può un fauno
credere che una donna alata possa stare così giù?
Ha un cielo immenso su cui
perdersi, una piuma smarrita nel vento. Una piuma che ora sta cadendo.
La
raccoglierò prima che rischi di toccare il suolo, fosse
anche l’ultima cosa che
faccio. Spero solo che non sia davvero troppo tardi…
Ma, in fondo, chi avrebbe mai creduto
che le fate tristi
esistono?
Si
respira aria autunnale.
Attorno al palazzo diroccato, un castello ucciso dal soffio infuocato
di un
drago, qualche erbaccia lascia spazio a primule gialline che sono le
fiammelle
sparse dal suo fiato rovente. Le aiuole sono chiazze verdi su cui
è stato
spruzzato un po’ di colore, senza riflettere, senza idea di
cosa s’andava
creando. La natura ha modellato un quadro grottesco, dimentica
dell’ordine. Un
fungo! Che ci fa un fungo sotto quel cespuglio?
La
finestra della
camera da letto è accostata, solo la zanzariera chiusa, ma
è di quelle che si
possono aprire dall’esterno. Solo una sottile tenda attutisce
i rumori delle
auto che, dalla strada, già cominciano a vorticare per le
vie della città in un
marasma confuso, ma basta a plasmare quella barriera indelebile fra
incanto e
realtà. Il ragazzo benedice che lei abiti al piano terra.
Entra come un angelo,
di soppiatto, accompagnando con una mano la reticella che si alza.
Tutto senza
svegliarla: è importante lasciarla ancora un po’
nell’inquietudine del sonno,
nella convinzione della solitudine. Un salto e scavalca il ripiano, i
suoi
piedi toccano il pavimento di ceramica con la leggerezza del passo di
un fauno.
Un ticchettio per gli zoccoli che si poggiano, ma niente più.
Lei,
fra le coperte,
è bellissima come la visione dello sbocciar di un fiore, che
allunga piano i
suoi petali, saggia l’aria – no, fra troppo freddo,
aspettiamo racchiusi altri
pochi minuti! – mezza aperta al mondo e mezza accoccolata fra
l’abbraccio delle
coperte. I capelli castani si sparpagliano in boccoli sui cuscini
bianchi, onde
spumose di un mare al crepuscolo. Le lenzuola si avvolgono sul suo
corpo come
foglie a rivestire una fata, e quasi si possono scorgere le ali, un
brevissimo
brillare che spunta dalle spalle nude e vibra nel vuoto. Oh, no, non
sono in
alto, le ali, non sono spiegate: sono schiacciate alla schiena,
spiegazzate,
sgualcite. Pesanti e bagnate.
La
cucina è in fondo
al corridoio. Si può abbandonare una donna così
bella, al suo sonno così magico?
Sì, il ragazzo può, deve, ha una cosa da fare.
Urgente. Perciò si allontana, a
passo quieto, voltandosi a cercare nel riflesso di uno specchio
l’ultima
immagine dei suoi occhi chiusi.
Arrivato
in cucina,
svuota sul tavolo il contenuto del suo zaino. Pane fresco, che profuma
ancora
del legno di betulla vicino a cui si è cotto, e che
stranamente è tiepido come
se un elfo l’avesse custodito in grembo appositamente per
lui, avvolgendolo fra
le spire del suo mantello. C’è anche un
barattolino di miele, e s’immagina lei
che vi immerge il dito – un’ape che si è
poggiata sulla corolla del suo fiore.
Poi un po’ di latte, qualche arancia ancora da spremere. Un
libro di poesie. Prepara
tutto su un vassoio, in fretta, per la sua piccola fata. Con amore.
Appena
ha finito,
torna nella camera da letto. Un anello con un piccolo diamante tintinna
solo
sull’acciaio del piatto, attende. Il ragazzo poggia il
portavivande sul
comodino, accanto a un flacone mezzo vuoto di pillole anti-depressive,
e le si
avvicina. Con un bacio sulle labbra di rosa, la sveglia teneramente dal
suo
torpore senza sogni.
«Una nuova vita, una nuova
vita per colazione» le promette.
Lei
si lascia
sfuggire un sorriso, ma subito un triste pensiero lo sopprime.
Il
fauno deve
consolare la sua fata. Deve, o il vento la porterà
via… e non le è rimasta
molta polvere magica per resistervi. «Su, mangia
qualcosa» la invita.
«Non ho fame»
sussurra lei, e si stringe ancora di più nel
suo involto di coperte. Sembra avere freddo, ma dalla finestra
socchiusa
qualche raggio di sole si arrotola alle tende pulite,
s’infiltra timido a
illuminare la stanza.
«Li vedi, quei raggi? Alla
fine… alla fine riusciranno a
riscaldarci. Devi permettere loro di accarezzarti,
però.» Il ragazzo afferra un
lembo della stoffa e tira lentamente. Questo cede, e scopre la pelle
liscia di
lei e la sua camicia da notte azzurrina.
La
fata è insicura,
protesta: «Non ce la faccio.»
«La stabilità
nel volo… possiamo riottenerla insieme.» Lui
prende l’anello, e cerca da sotto le coltri la mano sottile
della donna,
facendosi strada attraverso quel corpo trascurato e ancora stupendo. La
fede
s’infila all’anulare, si stringe in una morsa che
è una preghiera, una
richiesta disperata di fiducia. «Ci proverai?»
L’esitazione
dura
quanto la presa di un respiro. «Sì.»
L’ha detto. Un altro bacio
del fauno, e una rassicurazione:
«No, non ti preoccupare per le briciole di
felicità, fatina. Le nasconderemo
nelle fodere dei cuscini, assieme alle vecchie piume della tua vita
passata.»
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